Epilogo
Finalmente, allo scadere degli anni
Cinquanta, la famiglia Ravagli trovò una casa tutta per sé, una casa antica con
i soffitti affrescati e uno scalone settecentesco. Era un po' cadente, ma
ancora bella. A paragone dei Forni, era la reggia di Versailles. Il
proprietario ce la affittò per pochi soldi, purché noi la restaurassimo a
nostre spese. Io, da bravo ebanista, costruii i mobili nuovi. Entrammo
sollevati, anzi, inebriati nella nuova casa e nel nuovo decennio.
Quell'anno decisi di farla finita con la
cooperativa e venni assunto come commesso viaggiatore da un'azienda di
elettrodomestici. C'era il "boom" economico, e io giravo per la
Romagna vendendo frigoriferi, televisori e lavatrici. In quel periodo avevo dei
contatti con l'URSS, di più non posso dire. Avrei voluto andarci, in
Russia, per toccare con mano i risultati del socialismo e anche per capire come
mai al Cremlino non si facesse di più per l'Indocina, dove si combatteva di
nuovo, anzi, non s'era mai smesso. Insomma, arrivò la fine del ‘61, e io vinsi
il premio come miglior venditore dell'anno. Il premio consisteva in un viaggio
offerto dalla Triplex, assieme a rappresentanze di industriali, e si potevano
scegliere diverse destinazioni, tra cui l'URSS, perché con Krusciov s'era
cominciato a parlare di "distensione" e "coesistenza
pacifica", e diverse imprese dell'Europa occidentale guardavano con
curiosità al potenziale nuovo mercato.
Non esitai un istante e dissi:
«Io sono un comunista, e voglio andare nel
paese del socialismo. Però, proprio perché sono un comunista, so che il governo
non mi concederà mai passaporto e visto d'uscita.»
Feci comunque la richiesta in questura,
senza crederci troppo. Attraverso i miei canali, informai il mio contatto in
URSS, facendogli notare che mi si presentava un'occasione irripetibile ma che
se non si muoveva qualcuno ai piani alti…
Dopo qualche giorno, o forse qualche
settimana, non ricordo bene, venne a prendermi un'auto della polizia per
portarmi a Bologna. Non capivo cosa stesse succedendo, finché non mi trovai
davanti alla scrivania di Massagrande, sì proprio lui, che era diventato
questore a Bologna. Si ricordava bene di quel ragazzo che dieci anni prima
faceva casino alle manifestazioni, e mi chiese:
«Cos'hai combinato stavolta?»
Ipotizzò che presso il ministero fosse
intervenuto qualcuno della legazione sovietica, poi mi consegnò tutti i
documenti per l'espatrio. Un'ora dopo ero di nuovo a Imola, felice e perplesso.
Ancora oggi non so cosa successe effettivamente "ai piani alti".
E così, nell'aprile del '62, partii per
Mosca con la copertura ufficiale di un viaggio-premio. All'imbarco non ci ruppero
i coglioni perché quella era una comitiva di imprenditori, interessata al
denaro più che alla politica.
Non si era ancora al culmine della crisi
russo-cinese, ma le polemiche tra Mosca e Pechino duravano almeno dal XX°
congresso del PCUS, l'inizio della "destalinizzazione" nel ‘56.
La Cina rifiutava la "coesistenza
pacifica" e accusava l'URSS di imborghesimento.
L'URSS accusava la Cina di incoscienza nel
voler portare l'umanità sul baratro della guerra nucleare.
Krusciov sarebbe stato deposto due anni più
tardi, forse immolato sull'altare di una riconciliazione che non ci fu, negli
stessi giorni del primo test atomico cinese nel Xinjiang.
Mi alloggiarono al terzo piano dell'Hotel
Minsk, un edificio modernissimo sulla via Gorkij (oggi via Tviérskaja). Il
commissario politico era una donna. Quasi subito venne a prendermi un signore
basso di statura, coi capelli arruffati alla Gramsci ma tutti bianchi, che si
presentò come "Casimiro" e si rivolse a me chiamandomi "compagno
Gap". Capii subito che doveva essersi attivato il mio contatto.
Nelle due settimane di permanenza a Mosca lo
incontrai tutti i giorni e tutte le sere. Gli chiesi in che modo mi avessero
fatto ottenere il passaporto, lui mi sorrise e si strinse nelle spalle. Non gli
feci più domande indiscrete.
Mi accompagnò per Mosca, mi mostrò la Piazza
Rossa, il Mausoleo di Lenin, la metropolitana… La gente era tutta vestita in
modo decoroso. Con la comitiva, ci fecero visitare l'Università di Mosca, dove
c'era un microscopio per ogni banco. D'accordo, magari ci facevano vedere solo
quello che volevano loro, ma io per strada ci camminavo e non vidi nemmeno un
mendicante, mentre oggi ce ne sono migliaia. Mi colpì anche il fatto che tutti
i giovani parlassero due o tre lingue.
Benché sospettassi che lavorasse per qualche
ufficio politico importante, ero sicurissimo che Casimiro fosse un mio
connazionale, perché parlava un perfetto italiano. Siccome si riferiva spesso a
Togliatti chiamandolo "Ercoli" (lo pseudonimo con cui aveva trasmesso
da Radio Mosca durante l'esilio), pensai che fosse arrivato a Mosca insieme a
lui trent'anni prima e poi fosse rimasto, forse perché si era fatto una
famiglia. Mi raccontò di serate trascorse all'Hotel Lux fra esuli antifascisti
di diversi paesi.
Solo molti anni più tardi scoprii che
"Casimiro" era un ebreo russo e si chiamava Kazimir Kobelianskij. Era
nato a Parigi nel 1904, aveva frequentato il ginnasio a Firenze e preso la
maturità classica al liceo "Visconti" di Roma, dov'era diventato
amico del futuro dirigente del PCI Giorgio Amendola. Nel 1923 era stato
arrestato dai fascisti, e al suo rilascio era tornato a Mosca, per lavorare
come interprete presso il Komintern. Il 22 febbraio 1926 era stato l'interprete
nel famoso scontro Stalin-Bordiga, ultimissimo affondo dell'opposizione di
sinistra in seno all'Internazionale, prima della stabilizzazione che porta il
nome di uno dei due contendenti. Dal '27 al '29 era stato membro dell'Esecutivo
dell'Internazionale giovanile comunista, dove aveva lavorato gomito a gomito
con Luigi Longo. Dopo il VII° Congresso del Komintern (1935) era stato nominato
vice del leader cinese Wang Ming, il quale, chissà perché, dirigeva l'attività
dei partiti comunisti in America Latina. Nel '36 era stato mandato in Spagna,
come interprete presso lo Stato Maggiore dell'Aviazione repubblicana e per i
servizi d'informazione sovietici. Per tutti gli anni Quaranta aveva lavorato a
Radio Mosca nelle redazioni in lingue estere. Quando lo incontrai, insegnava
all'Accademia di Relazioni Internazionali di Mosca.
Scoprii tutto questo descrivendo Casimiro a
Mirco Zappi, che aveva vissuto in URSS. Mi chiese:
«Ma questo Casimiro ti sputazzava in faccia
mentre parlava?»
E io: «Me l'ha praticamente lavata, la
faccia!»
«Allora non c'è dubbio: era Kobelianskij.»
Per diverse sere di fila Casimiro mi
condusse all'Hotel Metropol, proprio di fronte al teatro Bolshoi. Era un luogo
di mondanità e lusso, frequentato da diplomatici stranieri, funzionari del
Partito e belle donne in cerca di pastura. Ricordo un grande salone con al
centro una fontana, lunghi tavoli dove ci si sedeva tutti insieme, e
l'orchestra che suonava. Al nostro tavolo c'erano ufficiali in divisa, molto
alla mano, e altre persone in borghese che invece non ridevano mai. O meglio,
ridevano solo quando rideva Casimiro. E questo mi fece capire che doveva essere
un tizio importante. Parlammo di tante cose e anche dell'Indocina. All'epoca
non si diceva ancora "guerra del Vietnam", quell'espressione fu
introdotta dagli americani ed è posteriore al '64, all'incidente del Golfo del
Tonchino.
La prima sera parlammo a lungo della
situazione internazionale, e io ebbi netta la sensazione che, se avessero
potuto, quei funzionari e quei militari sarebbero intervenuti in appoggio alla
Repubblica Democratica del Vietnam e ai comunisti laotiani, magari formando
brigate internazionali. Casimiro mi assicurò che avrebbe fatto del proprio
meglio per "muovere le leve giuste", ma ormai era tardi, il quadro
era sempre più confuso e la guerra era stabilmente nell'orbita cinese.
Le altre serate furono più allegre, io
tenevo banco con le mie battute, Casimiro traduceva e gli altri ridevano a
crepapelle. Di certo non corrispondevo ad alcuno stereotipo sui comunisti
occidentali, ero ben vestito e gaudente, in visita assieme a una comitiva di
capitalisti.
L'ultima sera al Metropol, Casimiro
mi presentò una donna bellissima, coi capelli color oro e gli occhi verde
giada. Si chiamava Irina.
«Compagno Gap, Irina mi dice che è
desiderosa di trascorrere la notte con te, sai, così, a… conversare. Che devo
risponderle?»
«Cosa devi risponderle? Dille che è la cosa
più bella che mi capita tra le mani da quando son nato e che se la commissaria
del terzo piano la fa scivolare nel mio appartamento, domani pomeriggio ti
racconterà un sacco di cose strane!»
Casimiro tradusse e Irina, per tutta
risposta, mi afferrò per le spalle e mi diede un bacio sulla bocca. Aveva un
alito profumato di colluttorio. Solo più tardi mi dissero che tra i presenti
c'era anche il marito, che non la prese bene, ma che potevo farci? Era stata
lei a dare le carte!
Però poi non successe niente: la commissaria
politica mi fece notare che un comunista italiano elegante e garbato come me
non avrebbe mai approfittato di un'inesperta compagna in cerca di emozioni. A
tanti anni di distanza da quella notte, non so bene se rammaricarmi o fregiarmi
dell'onore di essermi sacrificato per l'ideale. Ciò che sicuramente mi onora è
aver conosciuto Casimiro.
Quando tornai in Italia, portai con me solo
alcune matrioske e un piccolo binocolo da teatro.
Negli anni successivi mi sposai, diventai
padre (due volte), misi su un'azienda. Furono anni migliori, più sereni, anche
se non smisi mai di fare i conti coi miei incubi.
Anni orribili invece per i popoli d'Indocina,
di cui seguii il calvario attraverso i giornali e la televisione.
Ho avuto anche rovesci economici,
attraversato periodi di depressione, tuttavia credo di saper affrontare le
avversità. Sono ancora qui.
Niente ha potuto cancellare le immagini, gli
odori, il ricordo chimico di quell'adrenalina. Ho temuto a lungo di non poter
comunicare cosa successe in quel mondo primordiale, fatto di alberi sacri,
frecce avvelenate e asce di guerra. Chi avrebbe mai potuto capire? Persino ai
miei cari sarei sembrato un pazzo. Quarant'anni di silenzio e lotta solitaria
contro i serpenti, finché…
Irrefrenabile, con la vecchiaia è cresciuta
la voglia di raccontare, di lasciare una testimonianza a chi vorrà
raccoglierla.
Per chi era con me in quella giungla.
Per Budrio, chissà dove riposano i suoi
resti.
Per i miei figli, che sappiano dove
conducono i sentieri dell'odio.
Ma ribadisco che non mi pento. Reagire ai
soprusi è umano.
Forse ora i serpenti smetteranno di
strisciare.
A volte, nelle serate terse, guardo verso
sud, la linea blu degli Appennini che degrada sull'orizzonte. Penso alle
battaglie della Trentaseiesima. Penso ai cinque continenti, sterminate distese
di terra, moltitudini di uomini e donne in marcia. Ricordo, come se li avessi
vissuti tutti, secoli di lotte e sangue. Mi sento parte di una comunità
universale che supera i confini e congiunge le epoche, la comunità di coloro
che prendono d'assalto il cielo. E penso al vecchio Bob, che non poté diventare
vecchio. Un giorno qualcuno s'impadronirà di quel futuro che i miei eroi non
poterono conquistare. Sì, penso a Bob, al comandante Bob che urla «All'attacco,
Garibaldi, avanti, dio boia!».
E mi ritrovo a mormorare tra me e me: «Sì, dio
boia, avanti.»
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