Postfazione 2005
La stesura di Asce di Guerra è
avvenuta in presa diretta, man mano che l'indagine si sviluppava e noi ci
muovevamo nelle varie direzioni della storia. Ci siamo subito resi conto che la
vicenda di Vitaliano Ravagli necessitava di una contestualizzazione storica: la
Resistenza e la "lunga liberazione" da un lato, le guerre d'Indocina
dall'altro. Inoltre, negli stessi mesi, ci trovavamo ad assistere e a prendere
parte alla nascita di un movimento intercontinentale che, dal Chiapas a Porto
Alegre, da Québec a Praga e all'Italia, modificava l'immaginario collettivo.
Come se non bastasse, si presentiva già la débacle
elettorale verso cui la sinistra correva a testa bassa. Grazie a un processo suicida
di rimozione della propria storia e a scelte tanto scriteriate quanto
liberticide (come l'istituzione dei Centri di Permanenza Temporanea per
migranti), si spianava la strada all'avvento di una destra di governo che
avrebbe riproposto con mezzi moderni antiche sciagure. Mentre nel mondo nasceva
un movimento d'opposizione di massa al neoliberismo, la sinistra istituzionale
si rendeva sempre più succube di quell'ideologia, finendo per perdere la
propria ragion d'essere.
Sentivamo l'esigenza di sottolineare
l'aggancio tra ieri e oggi, in un gioco di rimandi tra esperienze ed epoche
diverse. Far precipitare sul presente l'antico dibattito sulla "Resistenza
tradita", cioè lo scollamento tra movimenti sociali e vertici politici,
fotografandolo nella sua versione contemporanea.
Invece di limitarci a raccontare il passato,
lasciando ai lettori i paralleli con il presente, abbiamo deciso di inserire
nell'oggetto narrativo un filone contemporaneo, quasi giornalistico. Nasceva
così l'alter ego degli autori, il giovane avvocato Daniele Zani, per
ripercorrere non solo le tappe della nostra indagine, con lo stesso stupore che
provavamo noi scavando tra le macerie della storia, ma anche episodi ed
esperienze "di piazza" che ci trovavamo a vivere in prima persona.
Proprio perché in quel momento, all'inizio del nuovo millennio, c'era la
sensazione di assistere a qualcosa di importante. Dopo un silenzioso quarto di
secolo, per la prima volta a Seattle, sul finire del 1999, le società opulente
dell'emisfero settentrionale avevano avuto un sussulto. Un piccolo sisma andava
espandendosi fino a coinvolgere milioni di persone, dal Nordamerica all'Europa,
collegandosi alle forme di resistenza al neo-liberismo nel Sud del
pianeta.
Paradossalmente, dal punto di vista narrativo,
è proprio questo il punto debole di Asce di Guerra. Forse perché (almeno
per noi) è più facile raccontare il presente attraverso il passato, che
trasformare il presente stesso in narrazione epica. Quello che nella forma del
reportage funziona e restituisce l'atmosfera di certe situazioni collettive,
trasferito in un modello più letterario rischia di risultare piatto o
didascalico.
Inutile negarlo: per raccontare il movimento
globale degli anni Duemila, alcune pagine del nostro bollettino telematico Giap
sono state assai più efficaci di quelle "romanzate" di Asce di
Guerra. E non consola la consapevolezza del senso politico con cui le
scrivemmo, non importa che in quel momento ritenessimo giusto scriverle. Il
metro per giudicare un racconto è l'efficacia narrativa. Ogni scrittore deve
saper riconoscere il proprio limite e applicarsi per superarlo, se ci riesce.
La tempistica della stesura, in quel caso,
non ci venne in aiuto. Scrivemmo il libro in poco più di dodici mesi, mentre
tutto, intorno a noi, cambiava rapidamente e influiva sulle nostre vite. Prova
ne sia il fatto che, a distanza di oltre quattro anni, le pagine che ci
riempiono ancora di meraviglia e di orgoglio sono quelle dei "Sentieri
dell'odio", non quelle del "nostro" Daniele Zani.
La vera voce di questo romanzo-biografia è
quella di Vitaliano Ravagli. Ogni volta che viene riletta o ri-narrata, la
potenza della sua storia lascia a bocca aperta. Ha il respiro di un'odissea che
va dal fiume Senio al Mekong, dalla Resistenza alle lotte di liberazione
post-coloniali. La storia di un personaggio scisso tra due epoche e tra due
continenti, incapace di ritrovare il bandolo di una vita segnata da sofferenze
incredibili. Insomma un personaggio che se non fosse vero, vivo, qui accanto a
noi, sarebbe davvero "da romanzo".
Al suo fianco, i combattenti partigiani che
intervistammo per completare la ricerca. Con le loro memorie avremmo potuto
riempire altrettanti libri.
Asce di Guerra è una
narrazione che sfugge da tutte le parti, che forza costantemente la griglia in
cui avevamo pensato di costringerla, mettendo a dura prova - e a tratti anche
travolgendo - le nostre capacità. E' un oggetto narrativo con difetti di
fabbricazione. Forse per questo siamo così affezionati a questo libro. Per la
sua irriducibilità, il suo essere un perenne scalo e punto di transito verso
luoghi lontani della storia e del mondo. Proprio le mille possibili
diramazioni, le finestre che si aprono, le vicende che si affastellano in
queste pagine, hanno fatto sì che Asce di Guerra continuasse a scriversi
e riscriversi.
Sotto lo strato di
reperti portati in superficie ne esistono altri, un deposito sepolto di asce di
guerra. Continuammo a scovarne mentre andavamo in giro per l'Italia insieme a
Vitaliano. Ogni volta il libro si sarebbe potuto ampliare, trasformare, come il
codice-sorgente di un software libero.
Si potrebbe dire che a
tutt'oggi esistono molte versioni di Asce di Guerra, pubbliche o
personalizzate, a seconda del grado di condivisione che hanno raggiunto.
In uno di questi
apocrifi si narra la storia di Spartaco Perini, da Ascoli Piceno. Lo
riconoscete dalla dedica, perché c'è anche il suo nome, oltre a quelli di
Teo e dei ribelli karen Johnny e Luther.
Spartaco, coetaneo di
Carla Capponi, di famiglia comunista, combatte in Grecia e in Russia con gli
alpini, nell'Armir. Quattro giorni dopo l'armistizio,
il 12 settembre, guida la resistenza che un gruppo di
cittadini e soldati oppone a un battaglione nazista, deciso a occupare una
caserma di Ascoli. In quell'occasione, i civili riescono a
difendersi con vecchi moschetti rubati alla Casa del Fascio, perché i
comandanti della caserma si rifiutano di mettere a disposizione le armi.
Respinti i nazisti, l'intero nucleo combattente si trasferisce
sul Colle S.Marco, subito sopra la città, in attesa di un qualche aiuto dagli
Alleati. Arrivano invece i tedeschi, con un rastrellamento in grande stile. I
caduti di quel 3 ottobre sono i primi della Resistenza antifascista sul
territorio italiano. Spartaco riesce a sganciarsi, a raggiungere gli inglesi e
a unirsi a loro in diverse azioni. Nel dopoguerra, lo accusano di
collaborazione col tedesco invasore, forse perché ha cercato di far processare i
comandanti militari che hanno negato le armi ai civili indifesi.
Quando lo incontriamo,
sono passati alcuni mesi dalla consegna della Medaglia d'oro
per la Resistenza alla città di Ascoli. Spartaco ha manifestato
tutto il suo disappunto, perché grazie al merito di pochi si è
onorata una comunità che mai brillò per il suo
antifascismo e, soprattutto, perché a ricevere la medaglia e a farsi
bella per l'arrivo del Presidente della Repubblica c'era una giunta
di destra, con molti esponenti dal passato missino. In quella battaglia gli sono
stati vicini solo i ragazzi del centro sociale autogestito, mentre l'Anpi
ha preso le distanze, e l'amministrazione si è guardata bene
dall'invitarlo alla cerimonia. Il giorno della commemorazione, insieme
ad alcuni ragazzi, è stato fermato e denunciato per aver scritto con lo spray
un'epigrafe in omaggio ai caduti.
Spartaco è
morto il 18 maggio del 2001. Il comune di Ascoli, benché
medaglia d'oro per la Resistenza, ha respinto la richiesta di
intitolargli una via.
Un'asciasimile, per certi versi, è quella
di Angiolo Gracci "Gracco", comandante della Brigata Sinigaglia,
medaglia d'oro, che dette un contributo determinante alla liberazione di
Firenze nell'agosto '44. Gracco è rimasto attivo nei movimenti dal Dopoguerra
fino alla morte, ed è stato avvocato difensore in diversi processi politici
degli anni Settanta. Ci imbattiamo nella sua storia grazie a una missiva
telematica del Centro Popolare Autogestito - Firenze Sud:
In
occasione del 56° anniversario della
battaglia di Pian d'Albero (Figline Valdarno), lo scorso 25 giugno, parlando da
partigiano comunista, [egli] ha semplicemente denunciato la responsabilità USA-NATO nelle stragi impunite che hanno
insanguinato il nostro paese e nella sua occupazione strategica attraverso la
rete di basi militari. "Gracco" ha poi concluso ribadendo come, in
nome degli alti ideali che mossero i partigiani della "Sinigaglia",
primi fra tutti l'antimperialismo , fosse necessario operare per
l'allontanamento dal territorio nazionale di queste stesse basi militari.
L'intervento
non piace ai dirigenti dell'ANPI, che decidono un provvedimento
disciplinare nei confronti del loro associato.
"Gracco" è
morto a Firenze il 9 marzo 2004, all'età di 84 anni.
Spartaco e Gracco sono
asce che qualcuno ha tentato di seppellire, perché rifiutavano di
allinearsi a un memorialismo vuoto e accomodante, fatto solo di lapidi e
anniversari.
L'ascia
di guerra del tenente Mercurio, invece, è rimasta coperta dai detriti del
tempo e dalle circostanze storiche di una vicenda difficile da incasellare.
Giorgio Marincola,
detto Mercurio, è forse l'unico
partigiano italiano mulatto a combattere nelle file della Resistenza. Nato in
Somalia nel 1923, figlio di un'indigena e di un italiano, Giorgio
frequenta il liceo a Roma. Il suo professore di Filosofia si chiama Pilo
Alberelli, milita nel Partito d'Azione e morirà
trucidato alle Fosse Ardeatine. E' lui, subito dopo l'8
settembre, a indirizzarlo nella lotta clandestina coi reparti di "Giustizia
e Libertà": sabotaggi, protezione di scioperi, assalto a caserme,
occupazione della sede de Il Messaggero. Liberata Roma, Giorgio chiede
al Comando alleato di farsi paracadutare in zona di guerra. Lo accontentano
nell'agosto '44, dopo un periodo di istruzione. La
zona è quella di Biella. Il grado: tenente dell'esercito
inglese. Dopo diverse azioni a fianco dei partigiani locali, lo catturano, lo
mettono in carcere a Torino e lo costringono a farsi intervistare da un'emittente
fascista, Radio Baiva. Gli chiedono come mai si sia messo a combattere coi
ribelli. Lui dovrebbe rispondere con un'abiura, condita di calunnie e accuse
nei confronti dei partigiani, invece disobbedisce: - Sento
la patria - dichiara - come una cultura e un sentimento di libertà,
non come un colore qualsiasi sulla carta geografica…La
patria non è identificabile con dittature simili a quella fascista.
Patria significa libertà e giustizia per i Popoli del Mondo.
Per questo combatto gli oppressori…
Radio Londra riporterà l'intervista,
interrotta dal rumore di botte e sedie ribaltate.
Giorgio intanto
finisce a Bolzano, in un campo di concentramento per prigionieri e ci resta
fino all'arrivo degli Alleati, che offrono a tutti di rifugiarsi in
Svizzera. Lui rifiuta: ci sono ancora zone d'Italia infestate dai nazisti. Bisogna
combattere e proteggere la popolazione fino all'ultimo. Si unisce così a
uno sparuto gruppo di partigiani trentini e raggiunge la Val di Fiemme. Il 4
maggio '45, dalle parti di Cavalese, fermano un camion di SS che esibisce
la bandiera bianca. Giorgio si fa avanti per controllare, quelli spianano le
armi e lo uccidono, fuori tempo massimo, dieci giorni dopo la Liberazione. E '
uno degli ultimi caduti della Resistenza italiana, forse l'unico
di madre africana, medaglia d'oro al valore, tenente dell'esercito
inglese, mentre la "Patria" l'ha esentato dagli obblighi di leva: il
Duce non vuole meticci tra le file dei suoi militari. Come si legge ne Il
manuale del fascista, sorta di catechismo nero edito da Mondatori nel'42
e regalatoci in fotocopia da Mirco Zappi: "Il meticcio è un
essere moralmente e fisicamente inferiore, facile vittima di gravi malattie e
inclinato ai vizi più riprovevoli. L'incrocio
fra due razze è nocivo ad entrambe. Il prestigio di razza non si
mantiene, se viene mischiato il sangue. La superiorità
della nostra razza è una realtà
storica e attuale…"
Per questa storia, che
ancora attende chi la racconti come merita, dobbiamo ringraziare la sorella di
Giorgio, Isabella - "mondina nera"
in Riso Amaro di De Santis - e suo nipote Antar, che aveva letto Asce
di Guerra e da tempo voleva contattarci. Per un caso del destino, ci siamo
incontrati grazie a un amico comune, la carne e le ossa che hanno ispirato il
personaggio di Fefe, fratello di Angela in 54.
A proposito di patria e
internazionalismo: dopo l'uscita di questo romanzo, per un
certo periodo abbiamo cullato l'idea di raccogliere in volume diverse
storie di volontari italiani che hanno combattuto ‘guerre
altrui'. Il progetto è poi evaporato, ma nel frattempo siamo riusciti a
conoscere Umberto Fusaroli Casadei, classe 1926, partigiano di Bertinoro, padre
e zio uccisi dai nazisti, che la rivoluzione andò a portarla in Mozambico contro i
fascisti portoghesi, al fianco di Samora Machel. Fusaroli Casadei ha scritto
una monumentale autobiografia, speriamo che prima o poi venga pubblicata.
Abbiamo raccolto anche
diverse storie di italiani nella Resistenza jugoslava, in molti casi coronate
da un finale amaro: la fuga oltre confine o la "rieducazione" a
Goli Otok, l'isola istriana per l'internamento delle "spie di
Stalin". Gran parte del materiale ci è servito per costruire il
personaggio di Vittorio Capponi in 54. Poi, quasi per osmosi, molte
altre asce riesumate in quel periodo hanno trovato tra le pagine di 54
il loro habitat ideale: le vicende della Brigata Stella Rossa,
descritte con dovizia di particolari da Giampietro Lippi nel libro Il sole
di Monte Sole (Anpi, Bologna 1995) uno dei tanti regali di Mirco Zappi; il
funerale del comandante Bob a Imola, nel 1954; il personaggio di Bottone
(ispirato allo stesso Vitaliano), l'imperatore Bao Dai al casinò di
Montecarlo.
Non a caso, nella
spilla con l'immagine di Cary Grant che la Fnac spagnola ha regalato
ai primi acquirenti di 54, la frase che attraversa la fronte del divo di
Hollywood è "Las historias son hachas de guerra
que hay que desenterrar."
Parlando della Brigata
Stella Rossa, non possiamo dimenticare il libro di Carlo Venturi, Ming tra i
ribelli (Aspasia, Bologna s.d.), che ci ha permesso di risolvere un piccolo
giallo di sessant'anni prima, dimostrando una volta di più
che sono le storie a venire in cerca di noi, e non viceversa.
A metà degli anni
Novanta Wu Ming 2 legge il romanzo di Chiara Ghigi La nube ardente (Pendragon
1996), ispirato ai fatti di Marzabotto e dintorni. La protagonista vive da
sfollata in una casa padronale. La sua famiglia offre appoggio e ospitalità a
partigiani della Stella Rossa e renitenti alla leva. Una notte, sentono sparare
sull'aia. La mattina scoprono che ignoti assalitori hanno ferito un
giovane contadino e ucciso un partigiano. L'identità dei colpevoli
rimane misteriosa.
Nel suo libro di
memorie, Venturi racconta l'episodio "dall'altra
parte". Un pomeriggio il comandante della sua compagnia gli
ordina di unirsi a una spedizione punitiva nei confronti di un signorotto
fascista. Il drappello incaricato parte alle nove di sera. La descrizione degli
eventi è identica a quella del romanzo, cambia solo il punto di vista: i
cani abbaiano, ombre attraversano l'aia, i partigiani intimano l'alt,
chiedono la parola d'ordine e la risposta è il
clic di un'arma che viene caricata. Venturi, al
battesimo del fuoco, spara nel buio insieme a un compagno.
L'indomani,
quando il maggiore Mario Musolesi - "Lupo" - viene a conoscenza dell'accaduto,
pare voglia far fucilare il comandante della spedizione, per essersi fidato di
indicazioni poco attendibili circa il "signorotto fascista"
da punire. Alla fine, sceglie una punizione meno cruenta.
Durante la stesura di 54,
abbiamo ritrovato lo stesso episodio leggendo Il sole di Monte Sole. L'autore
attribuisce gli spari di quella notte ad Ettore Ventura "Aeroplano",
un partigiano noto per la scarsa disciplina e lo spirito guascone. Forse, viene
da pensare, l'uomo giusto per coprire una vicenda sbagliata. Probabile
che in un primo momento, per non gettare troppo discredito sulla brigata, si
sia diffusa la voce che sia stato lui a prendere l'iniziativa.
Per fortuna Carlo
Venturi, che non si tirò indietro al momento di fucilare
Tartarotti, non lo ha fatto nemmeno di fronte a questa "brutta
storia".
Come ampiamente
previsto, le scorribande letterarie del "vietcong romagnolo" su e giù
per la penisola inciampano presto nell'inevitabile strascico
giudiziario.
Alla Facoltà di
Scienze Politiche di Perugia, in occasione dell'incontro organizzato dalle
associazioni "L'Altrasinistra" e "La luna e i falò",
alcuni studenti di Alleanza Universitaria (AN in versione ateneo) registrano
l'intervento di Vitaliano per poi trascriverlo (si fa per dire) e informare
preside e rettore, giornali e Procura della Repubblica. Il bello è
che costoro, lungi dall'essere "mimetizzati" tra il pubblico, sono al
contrario molto ben riconoscibili: gli unici a non applaudire, sguardo fisso,
occasionali risatine… Vitaliano si diverte a fissarli per
tutto il tempo, con aria truce, poi, per mettere alla prova il loro acume, si autoaccusa
del classico delitto da campagna elettorale: regolamenti di conti avvenuti nel
Dopoguerra e mai accertati dalla polizia. Così, una di quelle cose che uno, se le
ha fatte, va a raccontarle all'Università... I pesci, com'è
ovvio, abboccano e il caso Ravagli esplode su tutti i giornali, dalla Nazione
al Messaggero, dal Corriere dell'Umbria alla penna di tale
Francobaldo Chiocci, che scrive un articolo su Il Giornale (edizione
nazionale), fatto tutto di morceaux choisis, equivoci e manipolazioni.
Interessante notare che, a due mesi dalle elezioni del 2001, gran parte dei
titoli non si concentra sul presunto reato di omicidio (forse intuendo che non
c'è trippa per gatti). Vitaliano ha dichiarato che anche oggi, se i
fascisti ("coloro che hanno stuprato, torturato e ucciso") tornassero
al potere, bisognerebbe sparargli addosso. Questa affermazione ipotetica,
discutibile ma non certo scandalosa, riferita a un ben preciso gruppo di
individui (i fascisti stupratori e assassini), viene
letta come "istigazione all'odio", invito a uccidere esponenti dell'attuale
destra, e addirittura così
parafrasata nel richiamo in prima pagina de Il Giornale: "Se
il Polo vince, bisogna sparare". Che dire
di un simile lapsus?
La denuncia, neanche a
dirlo, è ben presto archiviata.
Le nostre asce,
tuttavia, non si incrociano solo con altre asce: anche con falci, forconi,
chiodi e martelli. Da libro stampato, Asce di Guerra trasmuta, diviene
storia narrata con altri linguaggi e strumenti.
Un giorno ci arriva
una lettera. E' firmata "e fulér", in dialetto romagnolo "il
contafavole", nella tradizione di quelle terre una sorta di cantastorie
itinerante. Contiene questo piccolo racconto:
Subito
dopo la svolta della Bolognina, in un paese vicino a Ravenna, in sezione si
svolse un assemblea dove i compagni si divisero i beni accumulati negli anni.
Il bar al PDS, la sala delle riunioni a Rifondazione, e così da bravi fratelli fino a dividersi anche le
piccole cose.
Il
giorno dopo un vecchio compagno si presenta dicendo che la bandiera spetta a
lui. Tutti gli ricordano che il giorno prima, all'assemblea, democraticamente,
si era deciso tutti insieme come dovevano andare le
cose.
Il vecchio compagno insiste, lui non se ne va senza la bandiera. Cercano di farlo ragionare, ma non c'è niente da fare, lui è deciso a rimanere seduto su quella sedia
per giorni, rivuole la sua bandiera.
La
bandiera per la quale ha vissuto.
Il fulér che ce
l'ha regalato si chiama Luigi Dadina. Fa parte della compagnia "Teatro
delle Albe" e, insieme a Renata Molinari, ha scritto "Al
placido Don. Fantasmi dal fiume", monologo teatrale recitato da lui
stesso. Il testo prende spunto dalla vicenda di Vitaliano e da altre storie per
parlare di guerra e di fiumi, dal Senio al Mekong, dal Savio al Don.
"Le guerre di Vitaliano" è invece un documentario-intervista
realizzato da Leo Di Paolo e proiettato in diverse occasioni. In particolare a Roma,
poco prima delle elezioni provinciali, con grande scandalo del giornale di
Vittorio Feltri, Libero, che al piccolo evento dedica addirittura
la prima pagina.
Titolo, sempre
quello: "Uccidere un fascista? Si deve fare",
e in terza pagina servizio, cronache e lezioncina di Francesca Mambro (sic!) su
odio, violenza e comunismo. Da sottolineare che in questo caso, il video offre
ben pochi appigli: Vitaliano racconta in modo semplice e diretto la sua
esperienza, la sua voglia di vendetta (frustrata), la sua decisione di
combattere in Indocina.
[…] Libero si inventa un presidio di AN
nel quartiere di Casalbertone come gesto di protesta verso la proiezione del
film, quando di tale presidio nessuno dei presenti si è
mai accorto né ha avuto notizia (nello stesso pomeriggio nella piazza
del quartiere c'era, questo sì, un comizio elettorale dei DS) ma
degli "scandalizzati" esponenti di AN… nessuna traccia.
[…] La massiccia "campagna di
affissione" del manifesto dell'iniziativa corrisponde poi al numero
"rilevante" di ben 120 manifesti in una città praticamente incartata dalla campagna
elettorale.
Infine,
Libero pubblica una foto del tavoletto della presidenza del circolo del
PRC con il manifesto che convocava l'iniziativa ed un busto. Nella didascalia
si dice che è un busto di Stalin
ma è evidente anche
dalla foto che si tratta di un busto di Lenin. Difficile dire se si tratta di
ignoranza o di paranoie.
(Dal
comunicato stampa dell'Associazione
culturale "Jenin", Radio Città Aperta, Circolo PRC "Guido D'Angelo")
Infine, per concludere
la carrellata multimediale, c'è il brano "Solo la mia guerra", dei rapper romani Primo &
Squarta (membri dei Corveleno), dove Danno dei Colle der Fomento declama il
verso: "e ogni mia storia da raccontare / è solo un'altra
ascia da dissotterrare". L'album si
chiama Bomboclat (Antibemusic, 2004).
La nostra speranza è che grazie a questa
ripubblicazione emergano ancora altre asce, perché mai come adesso ce n'è stato
bisogno.
Mai come adesso.
La Resistenza è in gran parte ridotta a vulgata
di corto respiro. Nemmeno chi ne rivendica l'eredità conosce le sfaccettature,
la complessità del fenomeno, i fatti salienti. Spesso si accettano come
premesse le falsificazioni e i clichés diffusi dalla parte avversaria.
Ci si limita - quando va bene - a pochi distinguo su questioni marginali. Un
esempio: "Certo, è vero che la guerra partigiana non fu determinante sul
piano militare, ma..." Dopo una simile concessione, qualunque enunciato
segua il "ma" sarà debole, inutile, patetico.
Una variante molto in voga è: "Sì, al
contrario di quanto avvenne in Francia, in Jugoslavia o in Grecia, in Italia la
lotta armata iniziò tardi, quando la vittoria alleata era ormai sicura,
però..."
Sono distorsioni interessate, che gli
antifascisti non dovrebbero accettare. La guerra partigiana fu
determinante, anche in Italia e anche sul piano militare. Il sabotaggio delle
linee di rifornimento, le vittorie in alcune importanti battaglie campali, la
liberazione di grosse porzioni di territorio (le "repubbliche
partigiane"), l'esecuzione mirata di esponenti di spicco della Rsi, la
continua guerra psicologica (portata avanti anche con "guasconate"
che mandavano in pezzi le certezze dei tedeschi), tutto ciò diede un grande
contributo alla demoralizzazione e sconfitta dei nazisti e del loro governo
fantoccio. Diverse città del Nord furono liberate dai partigiani prima
dell'arrivo degli Alleati, e in molti altri casi la collaborazione della
guerriglia fu indispensabile a questi ultimi. Lo stesso Albert Kesselring,
comandante in capo della Wermacht sul fronte meridionale, si lamentò
delle ingenti perdite subite sull'Appennino tosco-emiliano ad opera dei
"banditi", e prese in considerazione l'ipotesi di spostare il fronte
più a settentrione.
Quanto al presunto inizio
"tardivo" della lotta armata, può darsi che, col senno di poi, la
sorte della Germania appaia (attenzione: appaia) segnata già alla fine del
1943. Ma è, appunto, un effetto di prospettiva: la guerra continuò per altri
diciotto mesi, con l'occupazione tedesca, con massacri, rastrellamenti,
battaglie durissime, partenze di treni della morte.
Non è né può essere "di poi" il
senno di chi, dopo l'8 Settembre, sfida la fucilazione rifiutando di arruolarsi
nell'esercito di Salò e in sovrappiù decide di fare la guerriglia, rischiando -
e spesso trovando - le torture e la morte. Chi fa quelle scelte non si aspetta
certo di trovare la pappa pronta, appena scodellata dagli Alleati.
Sono soltanto due esempi. E' impressionante
la quantità di luoghi comuni e dicerie infondate sulla Resistenza, oggi
soggetta ad attacchi forsennati da parte dei figliocci dei rastrellatori.
Gli antifascisti non possono né debbono
stare sulla difensiva. Non stiamo vivendo alcunché di inedito: i meccanismi di
trasmissione del passato subiscono processi di "sclerotizzazione".
Quando si tratta del passato delle lotte, molte forze cospirano a produrre
interferenze e il nemico cerca di confondere torti e ragioni, straparlando di
"memoria condivisa" e "unità nazionale". Nulla di nuovo, lo
scriveva già Walter Benjamin: "In ogni epoca bisogna tentare di strappare
la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla [...]
Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo
in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al
sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere".
Che fare? Semplice: tornare a raccontare la
Resistenza a tutto tondo, contro le strumentalizzazioni sul "sangue dei
vinti" (il partigiano come nuovo babau, l'immediato dopoguerra ridotto a
trailer di un B-movie del terrore). Un raccontare "infedele alla
linea", estraneo ai "buonismi", privo di ufficialità e retoriche
patriottarde.
Di fronte a scandali, alzate di polvere e
pseudo-rivelazioni, l'unica via è assumersi in toto la responsabilità
storica, portare il peso di tutto quanto, anche degli errori e delle
lotte intestine, degli umori più cupi e dei sentimenti meno nobili, anche di
ciò che è sgradevole e tanfereccio, senza reticenze, al contempo rivendicando
il senso complessivo dell'impresa. Inutile negarlo, fa parte della Resistenza
anche il consiglio dato da un vecchio sfollato al partigiano Milton:
E allora - disse il
vecchio, - non ne perdonerete nemmeno uno, voglio sperare.
- Nemmeno uno, - disse
Milton. - Siamo già intesi.
- Tutti, li dovete
ammazzare, perché non uno di essi merita di meno. La morte, dico io, è la pena
più mite per il meno cattivo di loro [...] Con tutti voglio dire proprio tutti.
Anche gli infermieri, i cucinieri, anche i cappellani. Ascoltami bene, ragazzo.
Io ti posso chiamare ragazzo. Io sono uno che mette le lacrime quando il
macellaio viene a comprarmi gli agnelli. Eppure, io sono quel medesimo che ti
dice: tutti, fino all'ultimo, li dovete ammazzare. E segna quel che ti dico
ancora. Quando verrà quel giorno glorioso, se ne ammazzerete solo una parte, se
vi lascerete prendere dalla pietà o dalla stessa nausea del sangue, farete
peccato mortale, sarà un vero tradimento. Chi quel gran giorno non sarà sporco
di sangue fino alle ascelle, non venitemi a dire che è un buon patriota. (Beppe
Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, Torino 1986)
Noi siamo di quelli che mettono le lacrime
per la sorte di tutti gli esseri senzienti. Eppure, siamo quei medesimi che
dicono: non solo è assurdo menare scandalo di fronte a vendette e regolamenti
di conti, ma c'è da stupirsi che ve ne siano stati così pochi. Sono
ammirevoli la fermezza e il senso di responsabilità dimostrati dalla stragrande
maggioranza degli ex-combattenti partigiani.
Le "Tesi di filosofia della
storia" di Benjamin offrono spunti per capire cos'è andato storto, e
suggerimenti per porre rimedio:
Il soggetto della
conoscenza storica è la stessa classe oppressa che combatte. In Marx essa
appare come l'ultima classe schiava, come la classe vendicatrice, che porta a
termine l'opera della liberazione in nome di generazioni di vinti. Questa coscienza,
che è tornata ad affermarsi per breve tempo nella Lega di Spartaco, è sempre
stata ostica alla socialdemocrazia. Nel corso di trent'anni essa è riuscita ad
estinguere quasi completamente il nome di Blanqui, che ha fatto tremare col suo
timbro metallico il secolo precedente. Essa si compiaceva di assegnare alla
classe operaia la parte di redentrice delle generazioni future. E così le
spezzava il nerbo migliore della sua forza. La classe disapprese, a questa
scuola, sia l'odio che la volontà di sacrificio. Poiché entrambi si alimentano
all'immagine degli avi asserviti, e non all'ideale dei liberi nipoti.
(Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino
1962)
L'immagine della Resistenza come
vendicatrice dei torti subiti da padri e nonni è stata offuscata a colpi di
commemorazioni istituzionali. C'è chi ha voluto depurare la guerra di
liberazione dei suoi aspetti più controversi. Così facendo, l'ha allontanata
dalle pulsioni dell'animo umano (in particolare delle classi subalterne), l'ha
incatenata alla realpolitik della sinistra ufficiale e tramandata
unicamente come conquista di una democrazia ingrippata, incarnatasi in una
Costituzione rimasta sulla carta. In parole povere: la memoria della Resistenza
si è confusa con uno statu quo avvilente. Una volta
"sdoganati", i neo-fascisti hanno avuto gioco facile a presentarsi
come ribelli, reietti, outsider discriminati, "mobbizzati" ante
litteram, per mezzo secolo vittime del "regime consociativo" e
della "egemonia culturale comunista".
Occorre tornare a "camminare sul lato
selvaggio", e c'è molto lavoro da fare.
Tornare a raccontare la Resistenza, e farlo
in nuovi modi. Sotto gli strati di polvere di archivi e biblioteche abbiamo a disposizione
un patrimonio inestimabile, narrazioni potenti affidate a editori locali o
specializzati, o addirittura alle autoproduzioni e ai ciclostilati. Non una
semplice montagna, ma un'intera catena montuosa di memorialistica. Un tesoro di
storie, migliaia di libri, opuscoli e numeri di riviste da esplorare, portoni
da far spalancare, "Apriti, sesamo!"
La guerra di liberazione è un giacimento
aurifero di storie. Nel corso dei decenni le pepite si sono staccate, rotolando
nelle sabbie alluvionali del presente. Dobbiamo setacciare quelle sabbie,
immersi nel fiume fino alle ginocchia, e saper distinguere l'oro dalla pirite.
Quando si parla di Resistenza, vengono
subito in mente le montagne. In subordine, gli agguati gappisti nelle città. In
realtà sono tantissime le forme della lotta armata e dal sabotaggio.
C'è una guerriglia rurale di pianura, del
tutto peculiare, come quella combattuta nella Bassa Bolognese dal battaglione
"Dino Gotti". Pochi nascondigli: il fitto dei canneti sui bordi dei
fossi, le paludi, gli acquitrini, soprattutto la nebbia. Quando i tedeschi
vengono colpiti, non capiscono da dove mai siano sbucati quei
"banditen".
C'è il sabotaggio della produzione bellica
da parte degli operai, veri e propri "partigiani di fabbrica",
personaggi come l'alessandrino Giuseppe Scalvenzi (1912-1980), dipendente
dell'Aeronautica d'Italia di Torino. Durante la notte o approfittando degli
allarmi aerei, Scalvenzi s'intrufola negli stabilimenti, smonta strumenti di
volo dagli aeroplani, porta via utensili e strumenti di precisione. Nel
Dopoguerra, quando quegli operai diverranno leader sindacali, la loro attività
di sabotaggio sarà considerata alla stregua di semplici vandalismi e ruberie, e
presa a pretesto per licenziamenti politici. Nel 1957 Scalvenzi fonderà
l'Associazione licenziati per rappresaglia politica e sindacale. Per alcuni, la
Resistenza proseguirà ben oltre la Liberazione, e non nel senso che intendono
"i tre P" (Pansa - Petacco - Pisanò).
Ecco, tutti eravamo
provenienti già da un ideale forte che era l'antifascismo, principalmente. Ecco
perché dopo noi ci incontravamo per la strada: "ciao, ciao!" E quando
era già un po' di tempo che non ci vedevamo, ci abbracciavamo anche perché:
"Siamo ancora vivi, siamo qui... Valletta, Agnelli, ci hanno buttati
fuori, ma noi resistiamo!" [...] "Gli altri, vedi, vanno a lavorare a
testa bassa, ma noi andiamo davanti alla fabbrica, vendiamo l'Unità, ma siamo
sempre a testa alta!" E qualcuno poi ridendo diceva: "D'accordo, noi
siamo a testa alta, mettiamo i denti al sole... ma loro, invece,
mangiano!" (Adriano Ballone, Uomini, fabbrica e potere. Storia
dell'associazione nazionale perseguitati e licenziati per rappresaglia politica
e sindacale, Franco Angeli, Milano 1987)
Ci sono episodi poco noti ma importanti,
come l'assalto delle donne al municipio di Bondeno (FE), il 18 febbraio 1945.
Fanno irruzione e salgono all'ultimo piano, espongono cartelli alle finestre,
chiedono la fine dei rastrellamenti, gettano in strada e bruciano i registri di
leva per salvare i loro figli dalla chiamata alle armi. Alcune riescono a
scappare, altre vengono ferite, arrestate e picchiate dalle Brigate Nere.
La pepita più grossa e meno conosciuta della
Resistenza è la forza-invenzione dei suoi protagonisti, la fantasia che si esprime
in azioni di guerra psichica, beffe, sabotaggio culturale organizzato dal
basso, senza i mezzi a disposizione degli uffici di propaganda dell'intelligence
alleata. Questa resistenza diffusa c'era anche durante il Ventennio, ma la
disfatta nella guerra fascista la porta a livelli mai registrati in precedenza.
La prima falce e martello
che vidi fu nel gennaio del '43 su un marciapiedi di corso Dante a Cuneo,
appena imbiancato dalla neve. Una piccola falce e martello nera nel candore della
neve fatta da un comunista, come dire una specie allora rarissima, che ne aveva
lo stampo in una scarpa; tante falce e martello come piccoli scorpioni
pungenti, per una ventina di metri. Da lasciarti senza fiato all'idea che anche
in una piccola provincia dell'Italia fascista c'era uno con quello stampo in
una scarpa [...] E lo stupore, lo scompiglio fra i fascisti delle
Federazioni nel palazzo Littorio, la corsa a cancellarle... (Giorgio Bocca,
"Non c'è una sola falce e martello", La Repubblica, 10/02/2005).
Alcuni si spingono fino a fare la guerriglia
per conto loro, con azioni individuali, sfruttando il clima favorevole alla
diffusione di leggende. A Vittorio Veneto, subito dopo il 25 Luglio, il
ventunenne Giuseppe Taffarel (che nel dopoguerra diventerà un celebre
documentarista) recupera un vecchio moschetto, residuato della Grande Guerra, e
nel cuore della notte spara contro un posto di guardia tedesco. Tutti i cani
dei dintorni cominciano a latrare. Il giorno dopo, le dicerie rotolano sul piano
inclinato dell'odio per il fascismo. Qualcuno raccoglie i bossoli, i passanti
se li passano di mano in mano, nell'immaginazione popolare diventano
"bossoli misteriosi mai visti prima, forse russi, o jugoslavi,
chissà". Qualcuno dice di aver intravisto "uomini alti, con barba e
vestiti di cuoio" [a fine luglio!, N.d.R.]. Anche Taffarel finge di
interessarsi ai bossoli, "esagerando un po' per rendermi più
credibile" (cfr. Andrea Posocco, a cura di, Achtung banditen! Racconti
di vita partigiana di Giuseppe Taffarel, ISREV, Vittorio Veneto 2005)
Taffarel usa anche intrufolarsi nella locale
Casa del Fascio, dove usa la macchina da scrivere per produrre volantini
antifascisti. Scoperto, dopo alcune vicissitudini prende la via dei monti e si
unisce ai partigiani. Diventerà un esperto nell'uso di esplosivi, protagonista
di sensazionali attentati alle linee ferroviarie usate dai tedeschi per i
rifornimenti.
Il più guascone dei guerriglieri resta però
il romagnolo Sirio "Silvio" Corbari, sorta di Rocambole della guerra
partigiana. Per un anno Corbari e la sua brigata si dedicano a imprese
beffarde, ricorrendo a trucchi e travestimenti, colpendo i nazifascisti dove
meno se l'aspettano, ridicolizzandoli agli occhi della popolazione. Per i
fascisti e gli agrari del faentino, Corbari è il nemico n.1.
Lo scovano con l'aiuto di un delatore, nella
sparatoria resta ferita la sua compagna Iris Versari, che si uccide per non
rallentare la fuga di Silvio e dei compagni. Fuga che, purtroppo, non avrà
luogo: i "banditi" verranno impiccati a Castrocaro. I cadaveri
verranno trasportati a Forlì e impiccati per una seconda volta, per non
lasciare dubbi sulla fine del "Passatore di Faenza".
Dopo un film girato negli anni Settanta
(piuttosto malriuscito) e trent'anni buoni di silenzio, lentamente si torna a
parlare di Corbari. Pino Cacucci gli ha dedicato un capitolo del suo Ribelli!
(Feltrinelli, 2001) e Massimo Novelli ne ha raccontato la vita in Corbari,
Iris, Casadei e gli altri. Un racconto della Resistenza (Spoon River,
Torino 2002).
Pochi capoversi ed ecco già un marasma di
spunti. La Resistenza diventa le resistenze, tante resistenze di cui si
rischia di perdere il ricordo. Affonda la mano e troverai più storie di quelle
che potrai raccontare. Sono lì che ci aspettano, sono i sassi d'oro che
rimangono nel setaccio, se si è disposti a stare accovacciati nel fiume. Oggi,
per strappare la tradizione al conformismo che la soggioga, c'è bisogno di chi
faccia questo lavoro.
Infine, la nostra "storia
disinvolta" delle guerre d'Indocina.
Invecchia come il vino buono, questo
spregiudicato Bignami sull'Estremo Oriente nel ventesimo secolo, narrazione che
si alterna, bizzarra e impudente, alle pagine piene di pathos della storia di
Vitaliano e a quelle dell'immaginario avvocato Zani con le sue ricerche sul
lungo dopoguerra italiano.
A distanza di qualche anno la rivisitazione
storica di trent'anni di guerra, anche segreta, in quell'area, assume
un'attualità e una rilevanza rinnovate. Allora si trattava di una scelta
obbligata, sebbene non priva d'azzardo: documentarsi (prima) e rendere edotti i
lettori (poi) su uno scenario bellico di cui erano noti, e nemmeno a tanti,
solo i contorni della fase "vietnamita". Niente sui manuali di
storia; poche reminiscenze nella memoria pubblica, per lo più appannaggio di
militanti politici di qualche decennio fa; poche o inesistenti, negli ultimi
anni, le pubblicazioni in italiano. L'aiuto giunse dalla Rete, come sempre,
e…dall'intelligence americana. Sì, perché è proprio grazie all'apparato statale
Usa, che periodicamente svuota dello svuotabile i suoi archivi, che da qualche
anno in qua "the secret war in Laos" non è più secret e non si
nega più l'evidenza di migliaia di vittime e tonnellate di bombe inesplose
disseminate ovunque nel "regno del milione d'elefanti e dell'ombrello
bianco".
Bisognava rendere conto al lettore del mondo
in cui Vitaliano si era cacciato, e soprattutto informarlo sui dettagli del
teatro bellico dove si era esibito, in anni nei quali, in via
"ufficiale", la guerra non era in corso.
Di qui la necessità di inserire nell'oggetto
narrativo la storia disinvolta dei tre fratelli principi e delle loro gesta
esotiche e mirabolanti. Si trattava di documentare e raccontare, in forma
rapida ma dettagliata, pròdromi e sviluppo di un processo storico colossale,
che avrebbe investito l'intero pianeta: la "decolonizzazione". La
fine degli imperi britannico e francese; la loro progressiva sostituzione,
nelle stesse aree, con gli interessi egemonici Usa, in funzione antisovietica.
Mosca, all'inverso, appoggiava per i propri interessi i movimenti di
liberazione nazionale che nascevano come funghi in ogni angolo del pianeta.
Le ricerche diedero ragione a Vitaliano e ai
suoi racconti, parlandoci di una guerra lunga trent'anni, senza soluzione di continuità,
che aveva investito l'intera penisola indocinese: oltre al Vietnam, la Cambogia
e il Laos, fino alla Thailandia.
Era il Duemila, prima dell'Undici Settembre,
dell'Afghanistan, dell'Iraq, della democrazia da esportare sui tanks e gli F16.
Oggi ci confrontiamo con un altro disegno
imperiale, o forse con i primi segnali della sua fine, e le vicende dimenticate
di Souvanna Phuma o suo fratello Souphanouvong, il "principe rosso",
perdono la patina esotica e distante per riacquistare vividezza, densità,
vicinanza. Nel 2005, anno terzo dell'occupazione dell'Iraq e del tentativo di
instaurarvi un protettorato del petrolio a guida americana (impresa dagli esiti
ancora oscuri e imprevedibili), il susseguirsi di governi-fantoccio e
l'indizione di libere democratiche elezioni fasulle, alternati a operazioni
militari di inaudita ferocia, sono di nuovo pane quotidiano della geopolitica
internazionale. Con la deterrenza atomica che torna protagonista
delle relazioni tra stati sovrani, con gli "stati canaglia" e quelli
che si apprestano a diventarlo, a sostituire il ruolo che fu dell'Unione
Sovietica.
Così, quella che era una necessaria
descrizione di "contesto" per calare il lettore nel mondo di
Vitaliano e renderne intellegibile la storia, diventa un altro paletto piantato
nel cuore dell'attualità. Sui quotidiani delle ultime settimane, quei pochi che
abbiano ancora a cuore il concetto stesso di informazione, vediamo apparire
rievocazioni e resoconti delle "libere elezioni" nel Vietnam del Sud
del 1967, salutate dai media embedded di allora come l'inequivocabile
espressione democratica di un popolo che abbracciava la ragione imposta
dalla superiorità etica e militare dell'Occidente. Veniva esaltata
"l'altissima affluenza alle urne" (83%), che "sanciva l'inequivocabile
sconfitta dei terroristi Vietcong, che avevano cercato con ogni mezzo di
sabotare il percorso elettorale". Si vagheggiavano Assemblee Costituenti e
transizioni democratiche mai realizzatesi, si mettevano alla berlina i
pacifisti imbelli e idealisti, se non in aperta combutta col nemico terrorista.
Si parlava apertamente di "dopoguerra", di "vittoria da
gestire", di altri imminenti successi. Di lì a poco l'Offensiva del Tet
fece piazza pulita di quel futuro dipinto di rosa, spalancando il baratro nel
quale caddero 58.000 giovani soldati americani, oltre a quasi due milioni di
uomini e donne d'Indocina.
Dopo, leccate un po' di ferite, sarebbero
venuti il Cile, l'Honduras, il Salvador, le guerre sporche nel "cortile di
casa", la Escuela de las Americas, fino al Plan Colombia, conflitto
occulto e sanguinoso ancora in pieno corso. E ancora: la Prima guerra del
Golfo, la Somalia, la Serbia e il Kosovo, la Cecenia e il Caucaso, sempre con
la democrazia innestata non più sulla canna del fucile ma sulla punta dei
missili Tomahawk.
Ecco allora un altro motivo per essere grati
a Vitaliano, per dare un senso ulteriore al suo racconto che sfugga ed
emerga dalle nebbie di mezzo secolo trascorso. La percezione, più
viva e netta che mai, che "scavare nel cuore oscuro di vicende dimenticate
o mai raccontate è un oltraggio al presente. Un atto spregiudicato e
volontario. Le storie non sono che asce di guerra da disseppellire".
Bologna, Febbraio 2005
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