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Un buio fitto, pieno di denti
Chiudo gli occhi e li sento strisciare.
Come un bambino, la paura mi sorprende ogni
notte. Lotto disperato per rimandare il momento di coricarmi.
Poi la stanchezza ha la meglio e sprofondo
in un sonno agitato, mai più lungo di tre quattro ore. Gli incubi sono già lì,
nascosti in qualche piega della memoria, pronti ad animarsi non appena la luce
abbandona la stanza.
Pugnali roventi, torture, corpi straziati.
Le peggiori atrocità inflitte alle persone
più care.
Vorrei dimenticare. Non per rimorso: ciò che
feci allora per vendicare la miseria e per odio verso i fascisti, lo ripeterei
cento volte ancora e con maggior convinzione. Non si tratta di quello che ho
fatto. A volte agire è più semplice che ricordare. L'immagine che arriva dal
passato è soltanto orrore, senza la rabbia e la disperazione che lo
giustificarono. Dopo tutti questi anni, non ho più la stessa forza.
Mi sono nutrito di atrocità per la fame di
combattere, di reagire. Ma il boccone più amaro non è ancora digerito.
Il volto della ragazza violentata, in una
morsa di gambe e coltelli, muta in quello di mia figlia. Sono legato, incapace
di intervenire, in attesa dello strazio.
Grida. Urla che fanno impazzire.
L'Uomo Bestia afferra un serpente per
infierire ancora sulla mia bambina. Poi viene da questa parte e me lo conficca in
gola, il corpo che si dimena per sgusciare alla presa dei denti e tuffarsi
dentro, fino allo stomaco.
Centinaia di serpenti di ogni dimensione
strisciano sibilando fino a coprirmi. Cercano qualsiasi accesso per entrarmi
dentro. Da sopra, da sotto, da dietro. Sto per soffocare.
D'improvviso lo scenario muta. La giungla
scompare, inghiottita in un attimo. Al suo posto, l'interno di un grande
palazzo, lugubre.
Lungo sale e corridoi smisurati, la morte mi
insegue senza concedere tregua. Infilo le porte e le richiudo alle spalle,
nella speranza di fermarla.
Le stanze diventano più piccole man mano che
avanzo. Le porte si abbassano, gli stipiti si stringono.
Corro, in preda al terrore. Ne ho uccisi
tanti, ma il cadavere che ricordo con più orrore è il primo che vidi, la
vecchia sdraiata sul letto, gli occhi ancora aperti.
La penultima stanza non è molto più grande
di me. L'ultima porta è larga quanto la mia testa. Faccio di tutto per passare,
per andare oltre, ma sono bloccato. Riesco a divincolarmi e la morte mi è
addosso, le braccia scheletriche sollevate in alto, pronte ad afferrarmi.
Mi spunta in mano la croce nera, quella del
giorno che portammo l'estrema unzione alla vecchia.
La morte si blocca e io precipito
nell'abisso.
Di solito è a questo punto che spalanco gli
occhi di colpo, il freddo del sudore sulla pelle.
Per mia fortuna ho accanto una donna, ancora
addormentata. La abbraccio forte e torno tranquillo.
Ma spesso non basta a placare la notte.
Oltre il buio di questa stanza, gli incubi attendono la prossima occasione.
Avverto la loro presenza, pronti a tornare, e l'angoscia scaccia di nuovo il
sonno.
Allora devo alzarmi, vestirmi, afferrare il
cappotto e uscire.
Fantasma, incubo io stesso.
Le strade deserte, la nebbia sottile,
il rumore lontano di un'auto sulla statale. Un mondo immobile e innocuo.
Silenzio.
Respiro l'umidità della notte e mi sforzo di
non pensare, la mente vuota come questo paese.
Quando rientro ho le gambe stanche, ma non
voglio coricarmi. Sfoglio un libro senza leggerlo. Accendo la televisione, il
volume al minimo. Scorrono i titoli di un vecchio film in bianco e nero: La
banda Casaroli, con Renato Salvatori. Uno dei miei tempi, uno bravo.
Compare una scritta: "Bologna, dicembre 1950". Macchine sbandate
fuori strada, jeep della Celere, passanti radunati in capannelli. Un ragazzo
cammina sotto i portici con il bavero della giacca rialzato: può avere sì e no
vent'anni.
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