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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 6 Sentieri dell'odio (I Forni)
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6

Sentieri dell'odio

(I Forni)

 

 

Nel 1936 mio padre abbandonò un misero podere di collina vicino a Imola per trasferirsi in paese. Anche se non era iscritto al Fascio, riuscì lo stesso a farsi assumere allo stabilimento della Cogne. Per fortuna, il primo direttore della nuova fabbrica di armi era il vecchio capitano agli ordini del quale aveva combattuto nel ‘15-‘18 come artigliere della classe '99.

Il podestà ci trovò una sistemazione provvisoria in una vecchia caserma in disuso della Regia Cavalleria, vicino alla chiesa di San Domenico. Dopo quasi un anno ci trasferimmo in una casa più grande, perché eravamo già otto fratelli: un caseggiato in via Callegherie, chiamato "i forni", perché due secoli prima era stato il più grande panificio della città. Era uno degli edifici comunali per le famiglie che non potevano permettersi un affitto.

All'interno, il comune aveva sistemato le stalle per i cavalli della nettezza urbana e il canile comunale dove i randagi venivano soppressi con la polpetta avvelenata. Li sentivi guaire per ore, prima di morire.

Al piano di mezzo c'era il dormitorio dei senza tetto e a quello superiore stavano i disgraziati senza più alcun rapporto con la vita sociale.

I gabinetti erano solo due. Uno stava al piano di mezzo, vi si accedeva da uno stretto ballatoio scoperto e serviva per tutti gli inquilini, da quel piano in su, inclusi gli ospiti più anziani del dormitorio, che spesso cagavano per terra. Dovevi stare molto attento a dove poggiavi i piedi. Il secondo era al piano terreno e serviva per tutti gli altri, compresi gli estranei più coraggiosi. Nel cortile, sempre pieno di merda di cavallo, c'era un solo rubinetto per tutto l'edificio.

 D'estate il fetore e le mosche erano insopportabili. Col buio uscivano dal pavimento centinaia di scarafaggi e quando accendevi la luce li sentivi frusciare via verso le tane.

L'unico momento di igiene si aveva ogni tre o quattro giorni, quando un addetto del comune veniva a dare la creolina, un liquido disinfettante che attenuava il cattivo odore.

Vivevamo male, molto male, per la vergogna di abitare un luogo considerato il simbolo del degrado.

 

Nei Forni abitava una quantità di personaggi strambi e a modo loro anche affascinanti. In particolare una donna vecchissima, che nel ‘39-'40 avrà avuto cent'anni. Era stata molto tempo in America e aveva combattuto gli Indiani. La chiamavamo "la bionda".

Alla parete della sua misera camera, al piano dei diseredati, aveva una vecchia fotografia sviluppata su lastra di rame. Un grande ovale alto almeno cinquanta centimetri che la ritraeva con un lungo vestito nero, sigaro in bocca, cappello a tesa larga e cinturone con due revolver dall'impugnatura d'avorio.

Quando raccontava a noi bambini le storie dei primi pionieri, le avventure vissute settant'anni prima, gli infiniti raggiri ai danni degli Indiani e il loro sterminio, le veniva spesso da piangere. Non era solo nostalgia, ma anche il rammarico di aver combattuto dalla parte sbagliata. A quel tempo, tutti i film descrivevano i Pellerossa come meschini e sanguinari. La bionda, alla fine di una lunga esistenza, sentiva il dovere di raccontare la vera storia del Far West.

Diceva di avere conosciuto Buffalo Bill, un uomo vanitoso che non meritava affatto tanta notorietà. Averlo amato era stata la sua più grande debolezza. A suo dire, era un pavido che aveva gozzovigliato tutta la vita nei bordelli di terz'ordine della frontiera, per finire poi in un circo a far mostra della sua abilità con il revolver. Ci confessò che non era poi quel gran tiratore che si diceva: caricava il revolver a pallini, per colpire più facilmente i bersagli.

Molti abitanti di quel dormitorio comunale non avevano più nessuno che si occupasse di loro, altri erano stati soli tutta la vita.

Di una vecchietta scontrosa, di circa novant'anni, si diceva che fosse stata bellissima, che avesse lavorato nei più lussuosi bordelli d'Italia, sperperando poi la fortuna accumulata per amore di un ometto insignificante. Noi bambini, quando rientrava per conquistarsi il letto migliore per la notte, le urlavamo «Ecco, l'arìva la figarèna d'or» [Ecco, arriva la fighetta d'oro] e lei ci rincorreva col bastone, bestemmiando a tutto spiano. L'avevano battezzata a quel modo in epoca remota, quando ancora esercitava la "professione" e da ciò si deduceva che non la regalava affatto.

C'era anche un coppia di "busoni", Ursus, il poeta, piccolino e arruffato, e l'altro alto, con il nasone, un vecchio anarchico di cui non ricordo il nome. Dentro la loro camera c'era di tutto ed era piena di sporcizia. Ursus scriveva poesie con una macchina da scrivere vecchissima che per lui era la vita stessa. Si innamorò di una che non l'avresti toccata neanche con un cacciavite, poteva avere sessant'anni. Era di Budrio, e Ursus si trasferì da lei lasciando il suo compagno solo e disperato. Tornò dopo due mesi senza macchina da scrivere.

La Sgabéna era una montagna di donna, sarà stata più di un quintale. Sempre pulita, si capiva che era stata bella. Il marito invece era un omino di uno e sessanta, con la brillantina e i baffetti. Al momento giusto, prendeva la sua biciclettina, la canna da pesca e andava a pescare. Dopo cinque minuti che era andato via arrivavano i clienti. A casa della Sgabéna il cibo non mancava mai.

Nel cortile dell'edificio si aggirava indisturbata una gatta di dimensioni colossali. Prendeva il nome dalla famiglia dei padroni, che vivevano al piano "nobile" del palazzo ed erano i più "benestanti". Tiribilli, si chiamavano, un nome che quando lo senti pensi già che succederà qualcosa. E infatti succedeva che io mi chiavavo la loro gatta. Cioè, non proprio così, perché allora avevo cinque anni e un pistolino piccolo piccolo. Però avevo visto un gatto che la montava e avevo deciso di provarci anche io. L'avevo portata nel mio nascondiglio, all'ultimo piano, e avevo cominciato a struffarmela contro. Lei miagolava ch'era un piacere e anch'io ci provavo un certo gusto. Da quella volta, infatti, la scena si ripeté spesso. La gattona di Tiribilli mi faceva sempre un sacco di feste e io me n'ero pure un po' invaghito, tanto che quando morì mi dispiacque.





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