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Sentieri dell'odio
(Imola '43)
Nel ‘43 mia madre mi trovò lavoro come
fattorino da un falegname, un certo Domenico Ramenghi, detto "Toni e
falgném". La mattina andavo a scuola, e il pomeriggio lavoravo fino alle
otto di sera. Fu in quella bottega che imparai a odiare il regime, perché Toni
era un socialista convinto. Spesso venivano a trovarlo due signori anziani
reduci da anni di confino e sorvegliati dai carabinieri. Sedevano sulla
panca di fronte al banco e conversavano con Toni. Raccontavano dei processi,
degli anni di carcere e di confino, della guerra di Spagna. Erano storie
affascinanti, eroiche, storie di tentativi di riscatto, di poveri che si
ribellavano alla miseria e alla tirannia. Decisi che "da grande"
avrei fatto parte di quella schiera. La schiera dei ribelli.
Fino ad allora il mio odio per i fascisti
era stato più che altro istintivo. Quando il federale andava a parlare sul
piazzale di San Cassiano, invece di vestirmi da balilla andavo a spararmi delle
pugnettine con due dita in pineta. Così, per spregio. Fu in un'occasione simile
che feci una grande scoperta, destinata a procurarmi lustro e fama.
Mentre ero lì che mi sgrullavo, un moscone
mi venne a svolazzare sulla cappellina. Provai una sensazione piuttosto
piacevole e subito pensai al modo di ripeterla.
Nel bidone della spazzatura degli Spagnoli,
una famiglia ricca che poteva permettersi di bere le uova, trovai un guscio
intero che faceva al caso mio. Lo aprii da una parte quel tanto che bastava a
farci stare il pistolino. Poi, insieme agli amici, andammo a catturare tre o
quattro mosconi, di quelli che ronzavano intorno al letame dei cavalli. Non era
facile farli stare tutti dentro il guscio, quando cercavi di metterne dentro
uno, e sollevavi un po' la mano dal foro, gli altri erano lì pronti per uscire.
Terminata la caccia, a turno ci infilavamo
il guscio sull'uccello e i mosconi facevano il loro dovere. La "sandrona
delle mosche" divenne così la mia prima invenzione.
Oltre a questo genere di antifascismo, c'era
quello dettato dalla fame, che mi trasformò nell'involontario agitatore
di una sommossa popolare. Un giorno di giugno passavo con mia sorella da
via Galeati. Alzando lo sguardo vidi che da una finestra aperta sporgevano
alcuni sacchi. L'edificio era una chiesa sconsacrata, e pensai che dovevano
averla trasformata in magazzino. Arrampicandomi sul muro, fino alla finestra
protetta da una vecchia rete metallica, raggiunsi i sacchi e bucai il più
gonfio con un bacchetto. Dallo strappo cominciò a zampillare grano.
Trattenendo quel ben di Dio con le mani,
urlai a mia sorella di cercare dei recipienti e lei tornò con un catino
e un pitale.
Non appena videro la scena, molte altre
persone si riunirono là sotto per riempire in fretta qualsiasi cosa gli
capitasse per le mani. Cesti, paioli di rame, secchi, cappelli. Ci saranno
state duecento persone.
Quando la Milizia accorse, faticò molto per disperdere
tutta quella gente. Non c'era verso di farla sgombrare. Chiamarono la carica un
paio di volte, al grido di «Tricolore!», e soltanto la notizia che stavano per
intervenire anche i tedeschi fece disperdere la folla. I tugnì facevano
davvero paura.
Una mattina di fine agosto, una compagnia della
Milizia fascista sfilò lungo via Cavour cantando «Battaglioni del Duce,
battaglioni della morte, creati per la vita…» e via di seguito. Vedendoli
passare, Toni uscì agitando il regolo di legno come una clava, e gli
urlò dietro:
«Brènch
ed delinquèt, l'arà bè d'avnì che dè èch per vuieter… e mumèt d'aciuder la
partida!» [Branco di delinquenti, dovrà ben venire anche per
voialtri quel giorno, il momento di chiudere la partita!]. Mi spaventai a
morte, e pensai che l'avrebbero massacrato di botte, ma per fortuna non lo
sentirono, tanto cantavano a squarciagola, battendo i tacchi sul selciato.
Quel gesto mi colpì moltissimo. Anche mio
padre era antifascista, ma non aveva mai manifestato il suo dissenso. Aveva
odiato i fascisti fin da subito, dal '22, quando gli avevano ammazzato un
cugino che amava come un fratello, ma lui era un uomo mite e riservato. Toni mi
dimostrò che i fascisti si poteva anche sfidarli.
In quello scorcio d'estate del '43 si
respirava già aria di rivincita, dopo due decenni di dittatura. Ai primi di
luglio gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e il 25 dello stesso mese il re
aveva fatto arrestare Mussolini, mettendo il governo nelle mani del
Maresciallo Badoglio.
La guerra era stata un disastro per
l'Italia e aveva smascherato le menzogne del regime. Un paese di contadini era
stato spedito in una guerra tra potenze industriali di prim'ordine,
rimanendo schiacciato in poco tempo. Le reni della Grecia erano tutt'altro che
spezzate e invece degli "otto milioni di baionette" c'era un esercito
straccione e disorientato. Il Duce aveva dichiarato che gli servivano alcune
migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace come belligerante. Di certo
non era forte in matematica.
Di lì a poco, l'8 settembre, il generale
Eisenhower annunciò alla radio la firma dell'armistizio col governo Badoglio.
Il 4 novembre, verso sera, mentre ero in
bottega, vidi molta gente precipitarsi lungo via Venezia. Capii subito che era
successo qualcosa. Anche Toni era agitato. Infatti, poco dopo chiuse tutto e mi
spedì a casa senza spiegazioni.
Il giorno dopo imparai che in via Sassi
"i ribelli" avevano ucciso un console della Milizia. Era la prima
azione dei partigiani imolesi. La rappresaglia fascista fu immediata, con arresti
e rastrellamenti. Ma le imboscate e i sabotaggi sarebbero proseguiti. In quelle
settimane anche mio fratello Pietro prese i primi contatti con i gap, i gruppi partigiani che operavano
in città.
Una sera di dicembre, sceso in cortile per
prendere dell'acqua, sentii pianti e lamenti di bimbi e intravidi nel buio
alcune persone. Mia madre, appena glielo dissi, fece le scale di corsa e
insieme a mio padre e ai fratelli grandi aiutò quella gente mezza congelata a
salire da noi.
Era una famiglia di meridionali. Nove
persone affamate e senza un soldo. Li portammo al caldo e dividemmo con loro la
minestra e la polenta di castagne preparata da mia madre.
Capimmo in fretta che il padre era un
fascista, scappato dal Meridione per paura degli Alleati, ormai attestati sulla
Linea Gustav, tra il Garigliano, sopra Napoli, e Pescara. Era un uomo brutto e
prepotente, sembrava che tutto gli fosse dovuto. Con la moglie sapeva solo
imprecare e lei, una donna bella e remissiva, cercava di calmarlo con dolcezza.
I miei genitori non ebbero cuore di
mandarli via. Rimasero con noi per due settimane, in condizioni impossibili,
fino a che il podestà non li sistemò altrove.
Un giorno, il babbo sorprese il nostro
ospite a sbraitare contro i miei fratelli. Non disse niente: lo sollevò per il
bavero e lo sbatté contro il muro. Da allora non ebbe più il coraggio di
fiatare. Era la prima volta che vedevo mio padre reagire alla prepotenza
e quel gesto mi riempì di orgoglio.
Anche mia madre disprezzava il regime, ma era
iscritta al Fascio, e pur di ricavarne qualcosa per noi, si sarebbe iscritta
una volta a settimana. Andava dal podestà e lo minacciava, diceva che avrebbe
scritto a Mussolini, a Salò, che lei il suo dovere di italiana l'aveva fatto,
mettendo al mondo tanti figli, ma le autorità non si occupavano della povera
gente. A volte riusciva a ottenere così il buono per l'eca: due chili di farina, fagioli e un po' di pane.
In realtà, anche con Stalin al potere, mia
madre avrebbe comunque partorito ogni due anni, senza sosta. Con le amiche
diceva: «Iusèf l'è un bon òmen, ma s'e lasa al brègh sora e lèt, mè u'm met
incinta» [Giuseppe è un buon uomo, ma se lascia i pantaloni sul
letto, io resto incinta]. Mio padre non doveva essere molto svelto in certi
momenti.
In quel periodo, arrivavano a Imola anche
molti sfollati dal Nord, in cerca di luoghi sicuri, per paura dei bombardamenti
alleati. Grosse formazioni aeree solcavano il cielo, dirette a Settentrione,
per colpire le industrie belliche più importanti.
Mio fratello Domenico si innamorò di una
ragazza di Lodi. Nonostante avesse avuto una brutta pleurite, e dovesse
mangiare il più possibile, scoprimmo che divideva con lei la razione
giornaliera di pane nero, centosessanta grammi di un impasto che era tutto
tranne farina. I fornai ci mettevano la polvere di marmo, per farlo pesare di
più. Per calmare la fame, Domenico frugava nel pattume di una vicina
benestante, in cerca di qualcosa da mangiare. Presto si accorse che la ragazza
lo tradiva con molti altri. Anche lei cercava di sfamarsi.
In poco tempo la denutrizione e la scarsa
igiene portarono Domenico alla tibicì. Mia sorella Maggiorana, di quindici
anni, già dalla primavera era ricoverata a Bologna per la stessa malattia.
Una mattina di quell'inverno, andai come sempre
a servire la messa delle sei e trenta nella chiesa di San Giovanni. Me lo
imponeva mia madre, che era molto religiosa. In più il curato, don Mino, le
aveva detto che avevo il diavolo addosso, e dovevo stare il più vicino
possibile all'acquasanta.
La funzione del mattino era celebrata da un
vecchio prete scalcinato, detto "don Frazcòn". Amava molto il vino, e
si arrabbiava se la perpetua non gli riempiva l'ampolla fino all'orlo. Durante
la messa, mi costringeva a versargli nel calice tutto il vin santo,
mentre di acqua ne voleva solo poche gocce. Adalgisa, la perpetua, si lamentava
con me, dicendo che don Frazcòn era un alcolizzato. Io non sapevo cosa volesse
dire, ma vedendolo così felice di bere, lo accontentavo volentieri.
Quel giorno la fame mordeva più del solito.
Avevo visto l'Adalgisa riporre nel tabernacolo un calice colmo di ostie e
l'ampolla del vino. Non appena si allontanò, trangugiai tutto in un attimo. Ma
non avevo scelto il momento migliore: fui scoperto e mi beccai un
ceffone.
Durante la messa, al momento di
inginocchiarmi all'altare con il messale in braccio, cascai per terra, vittima
della bevuta a stomaco vuoto. I fogli del Sacro Testo volarono tutt'intorno, e
don Frazcòn si lasciò scappare un'imprecazione alla Madonna del Piratello.
Ci fu un mormorio tra i fedeli, e la messa
venne interrotta perché non riuscivo a rialzarmi. Fu proprio il prete a
sollevarmi di peso, per sdraiarmi sul divanetto della sacrestia.
Quando arrivò, mia madre mi sgridò con
durezza. Una volta a casa, raccontò la scena ridendo: «Dalgisa l'è
sepr'alè a dì che don Frazcò l'è un imbariagò e un'ha da bè e vè… acsè e mi
Vitaliano u s'è mes in tèsta ed deì ‘na mè.» [Adalgisa è sempre lì a
dire che don Frazcòn è un ubriacone e non deve bere il vino… così il mio
Vitaliano si è messo in testa di dargli una mano]. Poi mi mollò due
scapaccioni: uno per le ostie e uno per il vino.
La domenica seguente dovetti rimanere in
ginocchio sul sale grosso e il frumento tutto il pomeriggio, davanti all'altare
che tenevamo in camera da letto. Rimasi lì per molte ore, e non mi sognai di
dare una spazzata sotto le ginocchia.
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