11
Sentieri dell'odio
(Cuffiano)
Dopo molti falsi allarmi, fughe nei campi e
ritorni a casa al sibilo della seconda sirena, il 13 maggio ‘44 Imola subì il
primo, terribile bombardamento aereo.
Mio padre decise allora di trasferirci a
Cuffiano, frazione di Riolo, nella casa di una sorella. Sperava di trovare un
po' di tranquillità per la famiglia, visto che la guerra più feroce non si era
ancora spinta fin lì.
Il fronte era fermo al Passo della Futa.
L'unico pericolo erano i mitragliamenti aerei sulle colonne militari tedesche
che risalivano la statale cariche di rifornimenti. La strada era a meno di
venti metri da noi, e la notte si sentiva il rombo degli autocarri e il
fracasso dei blindati. Quando i tedeschi erano costretti a viaggiare di giorno,
quasi sempre i caccia inglesi scendevano in picchiata. Allora una valanga umana
cercava riparo urlando e i più coraggiosi sparavano sugli aerei che
riprendevano quota.
Mio fratello Pietro si fece assumere alla
Todt di Riolo. Era una fabbrica riconvertita dai tedeschi per scopi bellici e
lui aveva il compito di passare informazioni ai partigiani e mantenere il
contatto con gli operai. Non ci rimase a lungo: la sua situazione divenne
subito molto rischiosa.
A Cuffiano frequentava una prostituta, tale
Filomena, considerata dall'organizzazione clandestina una probabile spia dei
fascisti. Inoltre avendo appena compiuto i diciott'anni, era a tutti gli
effetti renitente alla leva. Non gli restò che raggiungere i partigiani sulle
montagne.
Nei mesi da sfollato, conobbi molti tedeschi
e soldati della Repubblica Sociale che combattevano con loro. Ragazzi
giovani. Partivano per il fronte e dopo una quindicina di giorni ritornavano,
ma ne mancava sempre qualcuno e mi dispiaceva sapere che erano morti e non li
avrei più rivisti. Uno di loro mi mostrò la pallottola che aveva colpito la
cassa del suo mitra a canna forata. «Sono stato fortunato» esclamò «ma morire
per la Patria
non sarà poi tanto brutto.»
Ero sorpreso di sentire parole così sincere
da un ragazzo di fede fascista. Pensavo a mio fratello Pietro, che combatteva
dall'altra parte, coi "ribelli", e non riuscivo a capire perché dei
ragazzi onesti fossero costretti a spararsi addosso.
Per guadagnare un po' di cibo, pulivo le
armi che i tedeschi riportavano dalla prima linea. Sporche di terra, infangate,
quasi irriconoscibili. Bisognava stare molto attenti perché alcune avevano
ancora il colpo in canna. Se il fango secco bloccava l'otturatore, un soldato
sparava in aria il proiettile inesploso. Allora si poteva passare a una prima
pulitura con nafta e poi con l'olio che le rimetteva a nuovo.
Oltre a pulire i Mauser e le Maschinen-pistolen,
dovevo ricaricare i nastri metallici delle mitragliatrici. Li chiamavano
"La voce di Hitler". Si usava una strana macchina, con un imbuto per
i proiettili e una feritoia per il nastro. Girando una manovella le pallottole
venivano inserite nel nastro da cinquanta colpi.
Quando non c'erano armi da pulire e
caricatori, dovevo pascolare le pecore requisite dai tedeschi. Il capitano mi
aveva scelto perché, in una lingua approssimativa, riuscivo a intenderli e a
farmi capire.
Un giorno di fine luglio, mentre stavo col
gregge, ci fu un mitragliamento terribile. Una squadriglia di caccia aveva
centrato in pieno un carriaggio tedesco trainato da cavalli giganteschi, fatti
a pezzi insieme ai militari che li conducevano. Erano a non più di trenta metri
da me, e subito mi ero tuffato in un fosso lì vicino. Per dieci, interminabili
minuti rimasi lì appiattito. Quando tornò la calma, sul terreno, oltre ai due
soldati e ai cavalli, c'erano anche i cadaveri di tre pecore.
Il cuoco tedesco Hans in poche ore le scuoiò
e le mise a bollire. Quella sera mi consegnò tre gavette piene di carne e
patate lesse, con un gran pezzo di pane di segale.
Nei giorni seguenti ci accordammo per avere
ogni due tre giorni una pecora da bollire. A un cenno di quell'omone anziano
alto quasi due metri, io mi distraevo e una pecora restava troppo tempo sull'erba
medica, morendo poi per l'indigestione.
Anche quella sera avrei sfamato la mia
famiglia.
Mia madre, per ripagare la bontà di
quell'uomo, gli lavava i vestiti sempre sporchi di sangue e li
rammendava. In breve, tutti i soldati tedeschi e gli italiani della X mas seppero del patto tra me e Hans e
mi trattarono da buon camerata. D'altra parte, lì a Cuffiano, nessun militare
fece mai del male ad un civile. Lo stesso non si può dire della Brigata Nera,
la squadra di fedelissimi al regime, odiata da tutti per la ferocia, anche dai
soldati regolari dell'esercito repubblichino.
Furono loro a cercare di uccidermi, il 7
agosto del '44.
Quel giorno salvai la vita di un partigiano,
Geppi, denunciato da un ufficiale della RSI che lui aveva risparmiato, limitandosi
a disarmarlo dopo averlo catturato.
Le brigate nere arrivarono con un automezzo.
Dentro c'erano già due partigiani prelevati altrove. Scovarono Geppi e lo
appoggiarono al muro della chiesetta di Cuffiano. All'improvviso l'ufficiale
che li guidava esclamò: «Camerati! Non uccidiamolo qui. Portiamolo a Riolo e
fuciliamolo al ponte sul Senio, che tutti vedano che fine fanno i traditori.»
Ricaricarono Geppi sull'autocarro, bastonandolo con le casse dei mitra. Appena
furono ripartiti, si udirono urla e raffiche. Geppi e un altro, Cavina, avevano
spinto in strada i due militi seduti sulla sponda posteriore del camion. Poi
anche loro erano saltati giù, in una corsa disperata.
Vidi Geppi scendere verso il fiume.
In fondo al sentiero poteva deviare solo a
sinistra.
La fitta vegetazione non gli dava scelta.
Le brigate nere pensarono di colpirlo
dall'alto, sapendo che doveva attraversare una radura, a non più di
cinquanta metri sotto di loro. Pochi passi separavano il punto dove si
trovavano da quello in cui finivano le case del paese, aprendosi alla vista del
fiume.
Io ero proprio lì, insieme a Domenico e
Bianca, miei fratelli, e alle pecore del gregge.
Non stetti a pensarci tanto. Non c'era
tempo. Con una spinta feci sdraiare Domenico nel fosso lì accanto, tra
l'erba alta. Avevo paura che i militi se la prendessero con lui, che dimostrava
più dei suoi sedici anni. Poi spronai il gregge in mezzo al sentiero per
bloccare la corsa dei fascisti. Giusto pochi secondi. Quando raggiunsero il
terreno scoperto e cominciarono a sparare, Geppi era già in salvo, nel fitto
della boscaglia, oltre la curva del fiume.
Si sfogarono su di me. Mi malmenarono con
calci e coi mitra, poi mi buttarono in un capanno pieno di paglia e attrezzi,
sprangarono la porta e vi dettero fuoco.
Sparando verso il fiume però, avevano
colpito un tedesco che si stava lavando insieme ai commilitoni. Quando quelli
capirono che non si trattava di un attacco dei ribelli, corsero su. Li
guidava il cuoco Hans e riuscirono a tirarmi fuori. Poi si avventarono
sulle brigate nere, e li rispedirono a Riolo a calci.
Nella confusione, Domenico e Bianca
guadagnarono la via di casa.
Un giorno di settembre, in direzione di
Monte Mauro, ci fu un lungo combattimento, dall'alba fino al
tardo pomeriggio. Si sentivano raffiche di mitraglia e scoppi di granate da
mortaio. La mattina seguente una processione di soldati tedeschi sporchi,
stanchi, coi feriti su barelle improvvisate, sostò nelle case dei contadini.
Raccontarono di aver sostenuto un lungo scontro con i ribelli. A quella notizia
mia madre si disperò, perché sapeva che Pietro stava dalle parti di Ca' di
Malanca, e i tedeschi arrivavano proprio da lì.
In quel periodo gli scontri tra tedeschi e
partigiani della 36a Brigata Garibaldi erano stati violentissimi,
con grosse perdite da entrambe le parti. Molti "ribelli"
cercarono di passare le linee e mio fratello ritornò a Cuffiano. Quando
arrivò non sembrava neanche un essere umano. Dei pantaloni gli restavano
solo le cuciture. Aveva dato i vestiti a chi era rimasto a combattere. I
tedeschi rastrellavano l'imolese per intercettare i partigiani discesi dai
monti. Il rischio che correva era altissimo. Chi veniva identificato era
spedito ai lavori in prima linea o deportato in Germania. Per scovare i
"ribelli" i tedeschi si servivano di spie e infiltrati. Pietro
insieme a un amico ne catturò uno e lasciò Cuffiano per consegnarlo, oltre le
linee, agli Alleati. Di lui non sapemmo più nulla fino alla fine della
guerra.
Poco tempo prima avevamo subito il primo
bombardamento d'artiglieria. La Trentaseiesima aveva conquistato la
posizione di Monte Battaglia e l'aveva consegnata agli Alleati, rimanendo al
loro fianco. Era un obiettivo di grande importanza strategica poiché dominava l'intera
zona.
Da quel momento l'artiglieria pesante prese
di mira la zona del Senio, immediata retrovia del fronte, boscosa e
difficilmente individuabile dalla ricognizione aerea. Le case del paese vennero
danneggiate o distrutte. L'unico posto sicuro diventò un rifugio scavato
nella parete di tufo che sovrastava il fiume. Decidemmo quindi di vivere
sottoterra, uno sull'altro, in condizioni igieniche spaventose, con
l'artiglieria che ci lasciava pochi attimi di pace.
Molti abitanti di Cuffiano vennero rastrellati
a Riolo, perché i tedeschi avrebbero creato lì la linea di difesa del fronte.
Noi, nascosti sulla riva del Senio, non fummo individuati. Restammo così
intrappolati nella "terra di nessuno", in mezzo all'uragano.
|