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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 14 Sentieri dell'odio (Little Big River)
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14

Sentieri dell'odio

(Little Big River)

 

 

Il rifugio non era altro che una grotta, dentro la quale si ammassarono quasi cinquanta persone, la maggior parte vecchi e bambini, pigiati come sardine.

All'inizio di novembre i tedeschi fissarono la prima linea dieci metri più in alto, sull'orlo della parete che domina la riva sinistra del Senio. Sull'altra sponda, a poca distanza, si attestarono i polacchi della VIII Armata.

Vivevamo in condizioni disumane, sporchi, pieni di pidocchi e malattie. Mettere il naso fuori, anche solo per un attimo, significava appendere la vita a un filo. Quando di notte uscivo a pisciare, sentivo le voci dei tedeschi sopra di me. Ogni dieci minuti sparavano una raffica contro le linee alleate oltre il fiume. Vedevo le pallottole traccianti incendiarsi nel buio, dirette sugli avamposti nemici. Dopo pochi secondi, il crepitio delle mitraglie alleate rimandava gli auguri al mittente. Dovevo rientrare prima che i tedeschi finissero di sparare, se non volevo trovarmi esposto al fuoco dei polacchi.

Nella grotta l'umidità era terribile e molto presto le scorte di cibo si esaurirono.

Il problema di uscire a caccia di viveri si fece pressante.

I contadini avevano nascosto molta roba da mangiare prima di lasciare le loro case ed erano disposti a dividerla solo se fossimo andati noi a recuperarla fuori.

Mia madre accettò, perché aveva tanti figli da sfamare. Qualcuno di noi avrebbe dovuto aiutarla.

Mio padre, che aveva meritato la medaglia al valore nel '15 -'18, non seppe ritrovare il coraggio di un tempo. In gran parte, fu proprio mia madre a dissuaderlo. Era troppo grosso, un bersaglio facile, lento nei movimenti ed era più probabile che sparassero su un uomo anziché su una donnina di un metro e cinquantadue. Inoltre mia madre sembrava aver previsto che nel dopoguerra la salute l'avrebbe abbandonata. Prima di uscire per quel viaggio dall'esito incerto, stringendo le mani del marito disse: «Giuseppe, tu devi vivere, altrimenti chi potrà allevare i nostri figli? » Lui ascoltava e piangeva. C'era un'altra ragione che spingeva mia madre a rischiare al posto suo: avrebbe speso la vita pur di evitargli quell'incubo.

Tra noi fratelli bisognava scegliere chi l'avrebbe accompagnata. Delle sorelle maggiori, Bianca era troppo debole, mentre Natalia aveva le convulsioni ad ogni bombardamento, dopo che a Imola era rimasta sepolta sotto le macerie. Benito e Giorgio erano troppo piccoli. Domenico invece sembrava maggiorenne, e doveva star nascosto, per paura che lo prelevassero. Durante i primi giorni infatti, i soldati della X e quelli della Brigata Nera erano entrati spesso nel rifugio ed erano sempre sul punto di prenderselo, convinti che fosse renitente alla leva.

Restavo io, un bambino di dieci anni. Aiutai mia madre a tenere in vita tutte quelle persone.

Ci spingevamo allo scoperto nella terra di nessuno per cercare cibo. La scelta del momento migliore per uscire era vitale. Dovevamo tentare la sortita durante i bombardamenti, perché quando le artiglierie tacevano, i tedeschi da una parte e i polacchi dall'altra sparavano su tutto ciò che si muoveva. Mio padre mi insegnò ad ascoltare la voce delle granate, per capire la traiettoria dal loro rumore. Se "fischiavano", passavano di lato e non erano troppo pericolose; quando "soffiavano", invece, erano sopra di noi e potevano colpirci.

Per aggirare le linee tedesche, dovevamo passare accanto alle trincee. Per nostra fortuna, quando erano sotto il tiro dell'artiglieria pesante, i tedeschi e i ragazzi della X si buttavano giù, con le mani sull'elmetto, e urlavano.

Mia madre se li teneva buoni rammendando la povera roba che indossavano. Loro ci assicuravano che non avrebbero sparato su di noi. Tuttavia ci esortavano a stare sempre attenti, perché fra loro c'erano dei fanatici e anche sui nuovi rincalzi non potevano garantire, almeno finché non li avessero inquadrati.

Nei bollettini alleati, il Senio divenne noto come "Little Big River". Certo doveva essere apparso più grande di quel che era, nelle ricognizioni aeree di fine novembre. Le piogge torrenziali di quei giorni avevano fatto straripare il fiume dalla parte dei polacchi, dove il greto era più basso. Decine di ettari di campi erano state inondate.

Per giorni fummo costretti a rimanere in piedi, con l'acqua alta trenta centimetri, senza dormiremangiare. Se la piena fosse durata poche ore ancora, nessuno di noi si sarebbe salvato. Quando l'acqua finalmente si ritirò, uscimmo tutti al sole ad asciugarci. Fummo graziati, perché quel giorno non arrivò nemmeno una granata.

Una mattina di metà novembre, mentre le artiglierie bombardavano, i miei genitori decisero che Domenico doveva passare le linee e raggiungere i nonni materni a Monte Romano.

Da quando il fronte aveva toccato il Senio, le brigate nere non si erano più fatte vedere. Tuttavia, per il premio di cinquemila lire, qualcuno poteva aver fatto la spia.

Ci salutò tutti, con un fagotto sulle spalle. Una volta attraversato il fiume, sparì fra le esplosioni grigio chiare degli alleati e il fumo nero di quelle tedesche. Lo seguimmo ancora per alcuni minuti, una corsa e un tuffo nel cratere di una granata, finché una salva di esplosioni oscurò l'orizzonte dove correva. Ci sembrò che i colpi avessero polverizzato in un attimo quel ragazzo magro, denutrito e già malato.

 

Gli ultimi tre mesi furono di una violenza indescrivibile. La linea alleata era avanzata a meno di un chilometro dal fiume. Entrambe le artiglierie ci bombardavano ogni giorno per ore. La maggior parte delle persone ammucchiate con noi nel rifugio si rifiutava di uscire anche solo per fare i bisogni. Usavano un secchio, e a me toccava svuotarlo nel fiume.

Durante le ore interminabili dei bombardamenti mi immergevo nei ricordi di casa. I giochi con gli amici e Buffalo Bill contro gli indiani. Il babbo che amava raccontarci le storie dei cavalieri della Tavola Rotonda, di re Artù e del mago Merlino e tante altre che affascinavano tutti. Ero convinto che non sarei più tornato a Imola, ed ero molto triste. Poi, un colpo più vicino degli altri mi riportava alla realtà. Contavo i minuti che mancavano prima di uscire carponi per procurare il cibo a gente molto più grande di me. Sognavo che un giorno, se fossimo tornati a casa vivi, avrei ricevuto una medaglia al valore, come quella di mio padre.

Al di del fiume, sul pioppo più alto, c'era un nido rimasto intatto, tra le folgori della guerra. Trascorrevo i rari momenti di quiete osservando gli uccelli che lo abitavano. Come tutti noi, avevano appreso le tecniche della sopravvivenza. Avvertivano in anticipo che stava per raggiungerci l'uragano. Quando volavano intorno all'albero in modo isterico, rifugiandosi poi nel nido, dopo pochi attimi le granate solcavano il cielo.

Tra i tanti alberi dilaniati dalle granate c'era un melograno rigoglioso, con i frutti maturi sui rami più alti. Era in un punto scoperto, battuto dalle mitragliatrici e quelle melograne rosse stavano appese come per farsi gioco della mia fame. Immaginavo di poterle mordere e gustare il succo dolce dei chicchi. Quell'albero mi aiutava a sperare, a restare vivo. Resisteva, nonostante tutto.

Ogni mattina un usignolo, prima che si scatenasse l'inferno, andava a posarsi sul melograno e cinguettava per un po', prima di volare via in luoghi più sicuri. Gli urlavo di andarsene e provavo a immaginare quei luoghi, lontani dal Senio.

Il giorno di Natale del '44 ci fu quiete, forse una tregua. Dalle due linee non partì un solo colpo. Abituato al rumore assordante, quel silenzio mi parve irreale. Il giorno seguente, però, sembrò che la terra dovesse squarciarsi sotto i colpi dei grossi calibri. Larghe fenditure si aprivano sul soffitto della tana e una pioggia di tufo ci investiva.

Il giorno dopo, nella quiete del primo mattino, uscii di nascosto.

Il melograno era stato colpito. Al suo posto c'era una grande voragine nera.

Piansi seduto sul bordo del cratere, sconsolato e stanco di dover sfuggire alla morte.

Immerso nei pensieri non mi accorsi del tempo trascorso. Quando mia sorella Natalia mi raggiunse era ormai pieno giorno. Mia madre la mandava a cercarmi e a procurare un po' di legna.

«Corri! Corri! Non stare fermo

Tornai in me e mi buttai con la roncola su uno dei pochi alberi superstiti per staccarne un grosso ramo

Udii il colpo di partenza, ma non il "soffio", coperto dal rumore dell'acciaio sul legno.

Quando ripresi conoscenza, mia sorella stava spostando l'albero che mi era cascato addosso. Avevo tagli e ferite un po' ovunque, ma nessuna grave. La granata mi aveva mancato di pochi metri. Con l'aiuto di Natalia rientrai al rifugio.

Fui molto fortunato quel giorno: non raggiunsi il melograno in cielo. Così disse mia madre passato lo spavento.





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