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Sentieri dell'odio
(Little Big River)
Il rifugio non era altro che una grotta,
dentro la quale si ammassarono quasi cinquanta persone, la maggior parte vecchi
e bambini, pigiati come sardine.
All'inizio di novembre i tedeschi fissarono
la prima linea dieci metri più in alto, sull'orlo della parete che domina la
riva sinistra del Senio. Sull'altra sponda, a poca distanza, si attestarono i
polacchi della VIII Armata.
Vivevamo in condizioni disumane, sporchi,
pieni di pidocchi e malattie. Mettere il naso fuori, anche solo per un
attimo, significava appendere la vita a un filo. Quando di notte uscivo a
pisciare, sentivo le voci dei tedeschi sopra di me. Ogni dieci minuti sparavano
una raffica contro le linee alleate oltre il fiume. Vedevo le pallottole
traccianti incendiarsi nel buio, dirette sugli avamposti nemici. Dopo
pochi secondi, il crepitio delle mitraglie alleate rimandava gli auguri al
mittente. Dovevo rientrare prima che i tedeschi finissero di sparare, se non
volevo trovarmi esposto al fuoco dei polacchi.
Nella grotta l'umidità era terribile e molto
presto le scorte di cibo si esaurirono.
Il problema di uscire a caccia di viveri si
fece pressante.
I contadini avevano nascosto molta roba da mangiare
prima di lasciare le loro case ed erano disposti a dividerla solo se fossimo
andati noi a recuperarla là fuori.
Mia madre accettò, perché aveva tanti figli
da sfamare. Qualcuno di noi avrebbe dovuto aiutarla.
Mio padre, che aveva meritato la medaglia al
valore nel '15 -'18, non seppe ritrovare il coraggio di un tempo. In gran
parte, fu proprio mia madre a dissuaderlo. Era troppo grosso, un bersaglio
facile, lento nei movimenti ed era più probabile che sparassero su un uomo
anziché su una donnina di un metro e cinquantadue. Inoltre mia madre sembrava
aver previsto che nel dopoguerra la salute l'avrebbe abbandonata. Prima di
uscire per quel viaggio dall'esito incerto, stringendo le mani del marito
disse: «Giuseppe, tu devi vivere, altrimenti chi potrà allevare i nostri figli?
» Lui ascoltava e piangeva. C'era un'altra ragione che spingeva mia madre a
rischiare al posto suo: avrebbe speso la vita pur di evitargli quell'incubo.
Tra noi fratelli bisognava scegliere chi
l'avrebbe accompagnata. Delle sorelle maggiori, Bianca era troppo debole,
mentre Natalia aveva le convulsioni ad ogni bombardamento, dopo che a Imola era
rimasta sepolta sotto le macerie. Benito e Giorgio erano troppo piccoli.
Domenico invece sembrava maggiorenne, e doveva star nascosto, per paura che lo
prelevassero. Durante i primi giorni infatti, i soldati della X e quelli della
Brigata Nera erano entrati spesso nel rifugio ed erano sempre sul punto di
prenderselo, convinti che fosse renitente alla leva.
Restavo io, un bambino di dieci anni. Aiutai
mia madre a tenere in vita tutte quelle persone.
Ci spingevamo allo scoperto nella terra di
nessuno per cercare cibo. La scelta del momento migliore per uscire era vitale.
Dovevamo tentare la sortita durante i bombardamenti, perché quando le
artiglierie tacevano, i tedeschi da una parte e i polacchi dall'altra sparavano
su tutto ciò che si muoveva. Mio padre mi insegnò ad ascoltare la voce delle
granate, per capire la traiettoria dal loro rumore. Se "fischiavano",
passavano di lato e non erano troppo pericolose; quando "soffiavano",
invece, erano sopra di noi e potevano colpirci.
Per aggirare le linee tedesche, dovevamo
passare accanto alle trincee. Per nostra fortuna, quando erano sotto il tiro
dell'artiglieria pesante, i tedeschi e i ragazzi della X si buttavano giù, con
le mani sull'elmetto, e urlavano.
Mia madre se li teneva buoni rammendando la
povera roba che indossavano. Loro ci assicuravano che non avrebbero sparato su
di noi. Tuttavia ci esortavano a stare sempre attenti, perché fra loro c'erano
dei fanatici e anche sui nuovi rincalzi non potevano garantire, almeno finché
non li avessero inquadrati.
Nei bollettini alleati, il Senio divenne
noto come "Little Big River". Certo doveva essere apparso più grande
di quel che era, nelle ricognizioni aeree di fine novembre. Le piogge
torrenziali di quei giorni avevano fatto straripare il fiume dalla parte dei
polacchi, dove il greto era più basso. Decine di ettari di campi erano state
inondate.
Per giorni fummo costretti a rimanere in
piedi, con l'acqua alta trenta centimetri, senza dormire né mangiare. Se
la piena fosse durata poche ore ancora, nessuno di noi si sarebbe salvato.
Quando l'acqua finalmente si ritirò, uscimmo tutti al sole ad asciugarci. Fummo
graziati, perché quel giorno non arrivò nemmeno una granata.
Una mattina di metà novembre, mentre le
artiglierie bombardavano, i miei genitori decisero che Domenico doveva passare
le linee e raggiungere i nonni materni a Monte Romano.
Da quando il fronte aveva toccato il Senio,
le brigate nere non si erano più fatte vedere. Tuttavia, per il premio di
cinquemila lire, qualcuno poteva aver fatto la spia.
Ci salutò tutti, con un fagotto sulle
spalle. Una volta attraversato il fiume, sparì fra le esplosioni grigio chiare
degli alleati e il fumo nero di quelle tedesche. Lo seguimmo ancora per alcuni
minuti, una corsa e un tuffo nel cratere di una granata, finché una salva di
esplosioni oscurò l'orizzonte dove correva. Ci sembrò che i colpi avessero
polverizzato in un attimo quel ragazzo magro, denutrito e già malato.
Gli ultimi tre mesi furono di una violenza
indescrivibile. La linea alleata era avanzata a meno di un chilometro dal
fiume. Entrambe le artiglierie ci bombardavano ogni giorno per ore. La maggior
parte delle persone ammucchiate con noi nel rifugio si rifiutava di uscire
anche solo per fare i bisogni. Usavano un secchio, e a me toccava
svuotarlo nel fiume.
Durante le ore interminabili dei
bombardamenti mi immergevo nei ricordi di casa. I giochi con gli amici e
Buffalo Bill contro gli indiani. Il babbo che amava raccontarci le storie dei
cavalieri della Tavola Rotonda, di re Artù e del mago Merlino e tante altre che
affascinavano tutti. Ero convinto che non sarei più tornato a Imola, ed ero
molto triste. Poi, un colpo più vicino degli altri mi riportava alla realtà.
Contavo i minuti che mancavano prima di uscire carponi per procurare il cibo a
gente molto più grande di me. Sognavo che un giorno, se fossimo tornati a casa
vivi, avrei ricevuto una medaglia al valore, come quella di mio padre.
Al di là del fiume, sul pioppo più alto,
c'era un nido rimasto intatto, tra le folgori della guerra. Trascorrevo i rari
momenti di quiete osservando gli uccelli che lo abitavano. Come tutti noi,
avevano appreso le tecniche della sopravvivenza. Avvertivano in anticipo che
stava per raggiungerci l'uragano. Quando volavano intorno all'albero in modo
isterico, rifugiandosi poi nel nido, dopo pochi attimi le granate solcavano il
cielo.
Tra i tanti alberi dilaniati dalle granate
c'era un melograno rigoglioso, con i frutti maturi sui rami più alti. Era in un
punto scoperto, battuto dalle mitragliatrici e quelle melograne rosse stavano
lì appese come per farsi gioco della mia fame. Immaginavo di poterle mordere e
gustare il succo dolce dei chicchi. Quell'albero mi aiutava a sperare, a
restare vivo. Resisteva, nonostante tutto.
Ogni mattina un usignolo, prima che si
scatenasse l'inferno, andava a posarsi sul melograno e cinguettava per un po',
prima di volare via in luoghi più sicuri. Gli urlavo di andarsene e provavo a
immaginare quei luoghi, lontani dal Senio.
Il giorno di Natale del '44 ci fu quiete,
forse una tregua. Dalle due linee non partì un solo colpo. Abituato al rumore
assordante, quel silenzio mi parve irreale. Il giorno seguente, però, sembrò
che la terra dovesse squarciarsi sotto i colpi dei grossi calibri. Larghe
fenditure si aprivano sul soffitto della tana e una pioggia di tufo ci
investiva.
Il giorno dopo, nella quiete del primo
mattino, uscii di nascosto.
Il melograno era stato colpito. Al suo posto
c'era una grande voragine nera.
Piansi seduto sul bordo del cratere,
sconsolato e stanco di dover sfuggire alla morte.
Immerso nei pensieri non mi accorsi
del tempo trascorso. Quando mia sorella Natalia mi raggiunse era ormai
pieno giorno. Mia madre la mandava a cercarmi e a procurare un po' di legna.
«Corri! Corri! Non stare lì fermo!»
Tornai in me e mi buttai con la roncola su
uno dei pochi alberi superstiti per staccarne un grosso ramo.
Udii il colpo di partenza, ma non il
"soffio", coperto dal rumore dell'acciaio sul legno.
Quando ripresi conoscenza, mia sorella stava
spostando l'albero che mi era cascato addosso. Avevo tagli e ferite un po' ovunque,
ma nessuna grave. La granata mi aveva mancato di pochi metri. Con l'aiuto di
Natalia rientrai al rifugio.
Fui molto fortunato quel giorno: non
raggiunsi il melograno in cielo. Così disse mia madre passato lo
spavento.
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