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Bologna, 29 gennaio 2000
I monitor rilanciano cifre bianche dentro
caselle verdi, quote di cavalli scadenti e match di calcio, appoggiati ad una
parete. Sulle altre, i tabelloni con i programmi delle corse al trotto e al
galoppo su campi italiani e stranieri. Di fronte, anziani fumatori cirrotici,
magrebini perdigiorno e truffatori d'accatto, come a un oracolo chiedono
l'accesso alle sequenze magiche che dovrebbero tirarli fuori dal pantano. Senza
alcuna chance.
Mi sono ritrovato per strada senza pensare,
poco dopo l'una di un sabato senza un cazzo da fare, da dire, da chiedere. Un
sabato inadeguato al risveglio, scazzato dopo il caffè, di piombo, nel cielo e
nella testa, a mezzogiorno. Non abbastanza pesante da inchiodarmi a casa, però
sufficiente per tenersi lontani da donne, amici, cose da fare, pensieri
incalzanti. Niente colli, niente auto, né librerie o negozi di dischi, niente,
a piedi, a vuoto, compro Lo Stadio per sfregio alla stampa
"seria", prendo uno Yogi Tea al baretto naturista di via Riva Reno.
Sfoglio il giornale, oggi, ore 15, anticipo di serie A, Bologna-Fiorentina.
Pareggiano, penso. Leggo, fuori Batistuta e Signori, entrambi infortunati. Pago
il tè e vado a giocare.
Scommettere ogni tanto su una partita di
calcio o su un brocco in una corsa al trotto, ha su di me un notevole effetto
narcotizzante. Puro anestetico della mente.
Proiettare su un insignificante evento
dell'immediato futuro la propria concentrazione, in maniera del tutto
artificiale, e le proprie aspettative, al punto da buttarci su dei soldi. In
definitiva, scagliare se stessi dentro l'inutilità plateale, permettendo alla
mente di fare il vuoto, e all'energia di fluire. Forse di riequilibrarsi. Come
un reset emotivo e cerebrale. O stronzate del genere.
A volte ci prendo, anche. Ma non è così
importante.
E' la determinazione della sequenza di
eventi, la sua previsione, e dopo il fissarla nella scommessa, pagando, che
rendono questa viziosa astrazione uno dei miei balzani sentieri verso lo zen,
l'armonia.
Me ne sto dritto, impalato dentro la sala,
sbirciando il foglio con le quote del calcio. Il pareggio del Bologna è a 2,60.
Dietro il bancone a ferro di cavallo, piazzato sulla sinistra, le ragazze alla
cassa, tre, scoglionate e assenti, hanno il colore cereo, da medicina legale,
del riverbero dei neon, mentre un anziano con due tubicini che gli escono dalle
narici, balbetta il numero di chissà quale vincente. Duemila lire per altri
cinque minuti d'attesa. Un altro po' di futuro comprato. Duemila lire in bilico
su uno strapiombo. Juve e Lazio domani giocano fuori. Vincono tutte e due. La
giocata è fatta.
Davanti a me ci sono un paio di persone, c'è
più gente ora, appena passate le due, che viene a disturbare il silenzioso
patteggiamento con Faust dei vecchi e dei super marginali. Ancora un po' di
tempo, imploriamo. Fanno il loro ingresso i giocatori, incalliti o occasionali,
feccia anfetaminica o nobiltà decaduta, avvoltoi spolpacadaveri o
professionisti cotti dalla routine. C'è Piazza, c'è Guizzardi, il barbiere, che
viene qui col grembiule, c'è Anderlini, commerciante pieno di debiti, tutti
sconosciuti, c'è Hamzi che prende per il culo il socio tunisino, c'è il
Professore, per forza, tutti sconosciuti. Di tutti però puoi sapere molto in
pochi minuti. O forse niente, ma quello che conta: quanta pilla, quanta sfiga
hanno.
All'improvviso, dalla destra delle casse,
all'ingresso dei cessi, malsani e decadenti, un botto secco, breve, come una
martellata su uno stipite, e un tonfo sordo.
Silenzio. Un secondo. Due. Percepisco dei
flash luminosi. Tre.
«Comandante, oddio!»
Luci elettriche, livide, suoni acuminati,
voci metalliche, l'oppio che si trasforma in speed e la pressione che pompa
forte.
Così vivrò i prossimi venti minuti, i primi
dopo il suicidio, con una Smith&Wesson puntata al cuore, del Comandante,
vecchio e malato settantaduenne che trascorse gli anni migliori nella Legione
Straniera, impestando puttane dall'Africa all'Indocina.
«Comandante, Comandante, perché?»
Afflosciato come un sacco vuoto, riverso contro
l'angolo di muro all'entrata dei cessi, una macchia scura comincerà a debordare
dall'impermeabile nocciola che copre il tutto. Avvertirò come un rallentamento,
una dilatazione, le frasi dei presenti mi risulteranno sconnesse, fuori
sincrono. Vedrò molti andar via, in fretta, altri mettersi le mani in faccia.
Mi accorgerò di essermi spostato solo di qualche passo, da dove ero prima del
colpo, verso il cadavere. Sentirò dire: «Era malato, non ce la faceva più»
oppure «Per un combattente come lui non era più vita» e ancora «Non voleva
dipendere da nessuno». Guarderò le ragazze, finalmente scosse, che fumano e
intanto infilano le giacche per andar via. Mi ascolterò mentre chiedo a un
cristo: «Era nella Legione?» e sentirò rispondere: «Più di vent'anni, quasi
trenta, ha girato il mondo, il Comandante, Africa, in Indocina contro Ho Chi
Minh….»
Mi ritroverò sotto i portici di via
Indipendenza, freddo intenso, pioggia fitta, senza la mia ricevuta zen, con il
mal di testa, un cadavere in tasca e una domanda.
«Che cazzo significa?»
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