17
Bologna, 1 febbraio 2000
«Allora, stavi dicendo…»
«Dai, finisci ‘sta cazzo di storia.»
Pochi minuti fa Leo ha affermato che la
recente morìa di piccioni in Strada Maggiore è il risultato di un esperimento
segreto della nato o della cia, poi ha infilato una digressione
nella digressione, adulando tutte le donne presenti e lodando la grappa di casa
(non la cucina: Leo non si alimenta quasi mai in pubblico, anche se lo inviti a
cena arriva sempre quando tutti hanno finito di mangiare)... Ora accontenta il
suo pubblico, riprende il filo della precedente digressione prima di rituffarsi
nel torrenziale discorso, condito come sempre di teorie del complotto e
dietrologie.
«Sì, stanno testando a Bologna una nuova
bomba chimica per far fuori Milosevic. Hanno dovuto usare una dose minima, se
no ci restava secco qualche vecchio.»
«No, Leo» interviene Elena, l'anfitriona della
serata, agitando un grissino «stavi dicendo qualcosa a proposito dell'aereo
invisibile americano che i serbi hanno abbattuto durante la guerra in Kosovo.»
Il volto di Leo s'illumina. Pianta un gomito
sul tavolo e si sporge in avanti per fissarci meglio.
«Avete presente la scena, no? I serbi che
ballano intorno alla carcassa dell'aereo, staccano pezzi di fusoliera tutti
felici, se li portano a casa come cimelio…E il pilota? Loro dicono di averlo
catturato, Clinton smentisce, nessuno sa dove sia finito. Dopo qualche
settimana di imbarazzato silenzio nato,
i giornali pubblicano un'inverosimile testimonianza del presunto pilota che
racconta di essersi acquattato nel sottobosco finché gli elicotteri non lo
hanno recuperato. Vi sembra possibile che se lo siano andati a riprendere nel
bel mezzo del territorio nemico, a soli trenta chilometri da Belgrado, eludendo
le stesse contraeree che l'avevano appena abbattuto? Ma a chi vogliono darla a
bere? Ora, dovete sapere che quel tipo d'aereo, lo Stealth F-117, nasce come ufo. Nel senso che le prime
ricognizioni sul territorio americano venivano scambiate spesso per quelle di
un aereovelivolo di origine extraterrestre, grazie ad una manovrabilità senza
precedenti. Cosi' intorno alle basi usa
in cui si sperimentavano i primi voli si susseguivano avvistamenti di ufo, che l'aviazione non si preoccupava
di smentire. Poi il progetto viene reso di pubblico dominio, quegli
avvistamenti vengono ricondotti all'F-117 e perde credibilità l'ipotesi
extraterrestre. In quell'occasione si viene a sapere che lo Stealth può essere
guidato da terra, senza alcun pilota a bordo.»
«Vuoi dire che l'aereo era vuoto?» chiede
Elena col sorrisetto di chi non prende la cosa sul serio.
«Macché, era pieno. Pieno di formiche rosse
texane. Una specie terribile. Sapete di cosa si nutrono, eh, lo sapete? Fibra
di carbonio. E di cos'è fatto l'F-117? Carbonio. E i cavi per le
telecomunicazioni? Idem. Le formiche sentono i tacchi che battono sulla
carcassa dell'aereo, è un suono familiare, sembra quello degli stivaletti
texani, e allora, alla chetichella, escono e si mettono a scavare. Infatti
dicono che Belgrado è rimasta isolata per tre giorni, un black out, non
funzionava più niente. Capito, adesso? Gli hanno fatto credere di aver fatto
centro, in realtà era un cavallo di Troia.»
L'aneddoto spacca in due la platea. Vasquez
e Carla ridono, mentre gli altri tre, capeggiati da Giorgio, contestano.
«Dai, Leo, questa è una gran
puttanata!»
Leonardo Mantovani, attore per passione,
cuoco in una trattoria del Pratello per campare, zittisce tutti col solito
gesto. Dalla tasca posteriore dei jeans estrae il portafoglio, assicurato in
cintura con una grossa catena, ed esibisce il finto distintivo da agente cia.
«Non faccio per dire, ragazzi, ma questo per
me è pane quotidiano.»
Carla si accorge che l'unico a non ridere
sono io. Una frazione di secondo più tardi, se ne accorgono tutti gli altri:
«Che c'è Daniele? Non mi sembri in gran
forma.»
«Niente, è che ho avuto un po' di casini sul
lavoro. E fosse solo quello, mi succedono anche cose assurde, senza senso…
» l'odore di polvere da sparo risale in gola, rivedo la pozza di sangue e
il corpo accasciato del vecchio legionario. Ricaccio giù tutto quanto.
«Non mi dire che hai perso una causa!»
sogghigna Giorgio.
«Peggio: ho perso il cliente.»
Mi guardano stupiti, è ovvio che vogliono
saperne di più.
«Allora? Vuoi tenerti tutto per te e fare il
muso, o ci metti a parte delle novità?»
La discrezione non è una qualità di Silvia.
Alzo le spalle e mi rassegno a vuotare il sacco.
«Mi ero preso a mano il caso di un tunisino,
uno di quelli che avevano occupato le case di via Rimesse l'inverno scorso.
Dopo lo sgombero, sua moglie e suo figlio riusciamo ad affidarli al centro
d'accoglienza su a Monte Donato e lui rimane per strada. Dorme in macchina,
trova un lavoro in nero. Quello regolare l'ha perso per via della denuncia,
occupazione abusiva. Come se non bastasse, una sera la polizia lo scambia per
uno spacciatore. Sai com'è per gli sfigati, nel posto sbagliato al momento
sbagliato, si becca un coreografico rastrellamento della Questura in una delle
vie scelte dal Carlino come simbolo del degrado. Lui dà in
escandescenze, lo picchiano e lo portano dentro, così perde anche il lavoro in
nero. Riusciamo a tirarlo fuori. E' disperato: gli sta per scadere il permesso
di soggiorno. Poi per un po' non si fa più sentire e all'improvviso mi arriva
una telefonata della moglie che dice di non avere più sue notizie da quando è
andato giù in meridione perché un amico gli aveva promesso un lavoro.»
«C'è uno sfondo giallo!» commenta Giorgio
cercando di alleggerire il clima, ma l'occhiataccia di Carla lo fa tacere
subito.
Concludo: «Ci metto un po', ma alla fine il
giallo lo risolvo. Chiamo un sacco di questure, mando decine di fax, rompo i
coglioni a mezzo mondo, finché non scopro che il mio assistito è stato fermato
dalla polizia di Villa San Giovanni, in Calabria, e tradotto al centro di
permanenza temporanea di Trapani. Prendo il primo aereo e mi precipito giù, ma
arrivo tardi: lo hanno già rimpatriato.»
Dopo alcuni secondi di silenzio Silvia, che
fa l'assistente sociale, esordisce con un tono compassionevole: «E la moglie e
il figlio?»
«Ma che ne so. Finché l'assistenza sociale
li aiuta…»
Giorgio, sul professionale: «Così hai visto
finalmente uno di questi centri di permanenza temporanea…»
Mi volto di scatto: «Guarda, lascia perdere.
Non c'è un cazzo di soddisfazione ad andare a curare i malati in un campo di
prigionia. L'ho visto: i diritti umani nel cesso.»
Lascio vagare lo sguardo sulle etichette
delle bottiglie di vino. Nessuna voglia di proseguire.
«Alla faccia del governo di centro-sinistra»
mormora Silvia reprimendo la rabbia.
«Ma che c'entra? Sono leggi europee, il
trattato di Schengen… » interviene Giorgio.
«Per favore, di queste stronzate ne sento
già abbastanza al lavoro.»
E' Leo a venire in mio soccorso, alzandosi
per salutare tutti.
«Ragazzi, io devo scappare, mi attende la
più gran figa che ho mai visto in vita mia, una che sembra una principessa
sumera. Vi saluto, statemi bene!»
Lo fisso negli occhi, sotto le sopracciglia
folte pettinate all'insù, convinto che l'appuntamento galante di cui favoleggia
sia la scusa per togliersi di mezzo. Non so dargli torto. Se non fossi stato
proprio io a rendere il clima più greve, lo seguirei volentieri. Ma non ho
alcun pretesto pronto.
Elena lo accompagna alla porta. Quando torna
a tavola, nessuno ha ancora rotto il silenzio.
Ci pensa Vasquez, che fino ad ora non ha
spiccicato parola, si è limitato a mescersi il vino. Lo sguardo un po' perso,
la voce bassa con l'accento romano, posa alla James Woods giovane in Salvador,
sbronzo:
«"L'America non è mai stata
innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e
ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la
nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze.
Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall'inizio.»
«Che film è?» chiede Giorgio.
Rispondo io, conosco quelle frasi: «E' un
romanzo. La premessa di American Tabloid, di James Ellroy.»
Vasquez annuisce ciondolando un po' la
testa. Sogghigna gigione, con le palpebre a mezz'asta. Sapeva che avrei
riconosciuto la citazione.
Silvia ed Elena ridacchiano, pensando che
straparli.
Invece il mio amico libraio nichilista
riserva sempre delle sorprese.
«Al peggio non c'è mai limite, ma il punto
d'origine della merda è remoto.»
Carla arrossisce, vergognandosi per il
fidanzato alcolico.
Lui finge di non accorgersene: «Questo paese
è marcio fin dalle fondamenta. E' fascista nell'anima. Non ha mai fatto i conti
col passato. Come uno di quei matti che se li appoggi al muro continuano a
sbatterci la testa contro.»
«Ma cosa stai dicendo? Chi ti capisce è
bravo.» Giorgio le mattane di Vasquez non è mai riuscito a soffrirle.
Vasquez se la ride continua: «L'ultima volta
è stato con la
Resistenza. Il resto è quasi solo merda. In secoli di storia,
pochissime volte siamo quasi, dico quasi, riusciti ad avere un
briciolo de dignità. Poi s'è fatto di tutto per annacquare quell'unico
momento de gloria. Questo paese si merita il presente. Tutto quanto,
tutta la merda. Questa intollerabile meschinità, solitudine, noia,
omologazione… me viene da vomita'. L'Europa... Possono anche tenersela,
sai che me frega... L'ultima volta è stato con la Resistenza.»
«Dài Vasquez, basta, non cominciare coi tuoi
deliri e le massime tombali» Carla è imbarazzata e già incazzata nera. Vorrebbe
portarlo subito a casa. Ma se lo conosco non le darà questa soddisfazione.
Mi lascia sorpreso la coincidenza tra la sua
tirata e i miei pensieri di qualche notte fa. Ma non dico niente.
Giorgio invece sì: «Non capisco cosa vuoi
dire. Cosa c'entra la
Resistenza con quello di cui stavamo parlando?»
«La Resistenza un cazzo. E' nella storia che ci hanno
raccontato che s'annidano il marcio e la cattiva coscienza.»
«Mi sembra che vai un po' troppo indietro
nel tempo.»
«Eh, proprio così: quanto indietro sei
disposto ad andare? C'è l'abisso, dietro. Se ti giri te vengono le
vertigini. Quanto indietro?»
Ha lo sguardo acquoso e maligno, stravaccato
addosso allo schienale, una mano nella tasca alla carretera e l'altra sul
tavolo, attorno al bicchiere di cabernet californiano. Nonostante l'imbarazzo,
tutti pendono dalle sue labbra, io per primo.
«Nel dopoguerra, anche i più bastardi tra i
fascisti furono amnistiati. E i partigiani? Processati, epurati dai posti di
lavoro, arrestati, torturati. Le azioni de guerriglia equiparate a
delitti comuni… Molti dovettero scappare all'estero, e tutto rimase come prima.
Le sapevate voi ‘ste cose? Prefetti, questori, sbirri... sempre gli stessi.
Quello è il punto d'origine.»
Lo fisso, ma gli occhi guardano oltre me.
Nessuno fiata, sguardi bassi.
Riparte: «Prendi i carabinieri. In quale
cazzo di paese civile le forze militari hanno compiti di polizia interna,
perfino de polizia stradale!? I carabinieri! Non si potrà mai fare un
cazzo di buono finché ci saranno i carabinieri, fascisti e golpisti per
tradizione e vocazione, e con sempre più poteri... Hanno fatto solo porcherie.
Conosco uno che ha fatto la leva nei carabinieri. Beh, su nonno a
momenti lo diseredava. Al povero vecchio, arrestato nel '47, con delle accuse
assurde di omicidi e saccheggi insieme ad altri partigiani, lo avevano legato
per i polsi a un'asse del soffitto della caserma. Co' ‘na pietra de 25 chili
appesa alle caviglie! Torturato per giorni, pur di fargli confessa' quello che
volevano.»
Il silenzio dura appena un secondo. Giorgio
allarga le braccia e scuote la testa: «Certo, sono vicende terribili. Ma, cosa
volete, sono stati anni duri, violenti. E la violenza non è mai da una parte
sola, in questi casi. La violenza non fa distinzioni, ed è brutta, crudele, di
qualunque colore sia...»
«Ma che cazzo stai a di'!?» lo fulmina
Vasquez «Te tira il culo a mettere insieme aggressori e aggrediti? Le
Brigate Nere torturavano i prigionieri, pure quelli già destinati
all'esecuzione, che non avevano più niente da confessa'. ‘Ste robe i partigiani
non l'hanno mai fatte! E lo sai quanti so' dovuti andar via dall'Italia per
sfuggire alle persecuzioni? Jugoslavia, Cecoslovacchia, Russia. Pensa a quello
che ha fatto qui a Bologna un sadico assassino come Tartarotti. Eppure anche a
lui gli hanno fatto un regolare processo, e lo ha fucilato la polizia
partigiana, mica l'hanno torturato. Ma tu lo sai chi era Tartarotti?»
Carla sospira guardando il lampadario.
Nessuno ha la voglia né il coraggio di chiedere chi era quel tale. A questo
punto me lo aspetto, qualcuno dirà una cazzata, la cazzata radical-chic,
sempre la stessa.
E' Silvia: «Ma scusa, tu sei favorevole alla
pena di morte?»
Vasquez emette una risata quasi diplofonica,
bassa e gutturale ma arricchita da uno strano armonico, una specie di
tintinnìo. Tossisce, e la tosse non sembra nemmeno uscirgli dalla cavità orale,
come un ventriloquo. Ciondola con la testa, sempre più stravaccato sulla sedia,
quasi senza muovere i muscoli facciali. Un istante di silenzio, poi applaude
lentamente:
«Brava, brava, bella frase! In tempi de
"pace", pure se il mondo esplode e bombardano qua dietro con l'uranio
impoverito, è facile farse ‘sti problemi. No, cazzo, non sono favorevole, ma tu
l'hai mai fatta ‘na guerra de liberazione? No, ma c'hai il poster di Che
Guevara sopra il letto. Lo sai quante fucilazioni senza processo ha fatto sulla
Sierra e dopo la presa dell'Avana, il tuo caro Che? E ragazze più giovani e più
pacifiche de te hanno linciato le Brigate Nere, dopo la Liberazione. Sono
assassine, è vero? E i vietnamiti cosa avrebbero dovuto fa', mentre li
bombardavano col napalm? Un bel tribunale per i prigionieri americani? Siete
proprio dei fighetti.»
Silvia arrossisce e vorrebbe mordersi la
lingua.
A questo punto è meglio intervenire.
«E qui arriviamo alla storia assurda che m'è
capitato di vedere.»
Tiro su col naso, mi verso altro cabernet, e
attacco col suicidio del legionario, l'agenzia ippica, l'Indocina. I dettagli
lasciano tutti di stucco. Solo Vasquez continua a sogghignare.
Finisco. Qualcuno sospira. Vasquez riparte.
«Noooh, un fascistone che aveva combattuto contro
Ho Chi Minh? Ma sei sicuro? Perché io so di uno che è andato a combattere in
Indocina, ma dall'altra parte, contro i francesi. Proprio un partigiano, uno de
‘ste parti, romagnolo me pare.»
«Mavalà!»
«Te giuro. Ho letto un articolo, qualche
tempo fa. Me pare de ricorda' che sia stato anche a Dien Bien
Phu, ma non sono sicuro...»
Ancora una coincidenza, resto folgorato.
Guido che mi parla di mio nonno, lui voleva le brigate internazionali per
l'Indocina, diceva che c'erano degli italiani a combattere col Vietminh… Poi il
suicidio nell'agenzia, che mi porta di nuovo lì. Ed ecco un altro brandello di
storia, uno che c'è stato, dalla parte dei rossi. Un monsone dentro la testa,
vorrei fargli decine di domande, chi è questo tale? Come cazzo ci è arrivato in
Indocina? Le hanno fatte davvero le brigate internazionali?
Ma Vasquez ha ancora qualcosa da elargirci:
«Comunque, ragazzi, nun c'è niente da fa'. In questi tempi meschini,
quelli che hanno combattuto per la libertà ti sembrano dei coglioni o degli
spostati.»
Giorgio proprio non riesce a tacere:
«Bah, io proprio non ti capisco, Vasquez. Non sei certo uno che sta male tu,
eppure continui a lamentarti, per te fa sempre tutto schifo... Insomma, io
guardo la mia vita e non mi sembra così piatta...»
Vasquez si alza in piedi e urla: «Ma tu che
cazzo vuoi da me? Chi cazzo sei? Te lo dico io: sei un co-glio-ne! Un
coglione come tanti, come tantissimi!»
Seguono due minuti di trambusto, grida,
corpi che si frappongono, braccia che si protendono e afferrano il vuoto,
inviti alla calma.
Degno epilogo: cena rovinata, qualche giorno
di rancori, e io che forse facevo meglio a stare zitto. Torna la bonaccia,
Vasquez ha un mancamento e s'avvia verso il bagno, mentre cadono sul pavimento
saluti imbarazzati. Elena è accigliata ma prova a sorridere per salvare il
rituale. Accompagna tutti alla porta, si scusa, «ma no, figurati, mica è colpa
tua», «no, sul serio, non fa niente», «allora ci sentiamo presto, ok?». Io e
Carla aspettiamo che Vasquez finisca di vomitare, ma quando torna non si regge
in piedi, si accascia sul divano smozzicando frasi. Carla ed Elena gli chiedono
se va tutto bene, lui le guarda senza vederle e dice: «Lasciatemi aperto un
canale de comunicazione.»
Non è il caso di chiedergli niente su quel
tizio che forse ha combattuto a Dien Bien Phu. Decido che lo chiamerò domani,
saluto l'anfitriona abbacchiata e la fidanzata in apprensione, ed esco nella
sera invernale. Ho voglia di camminare.
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