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Bologna, 2 febbraio 2000
Una delle solite giornate allo studio, con
Paperoga che mi passa i casi più disperati.
"Paperoga", al secolo Bruno
Breveglieri. Barbuto, eccentrico, a suo modo un principe del Foro. Boss dello
studio legale in cui sono entrato nel '97 come praticante. Oggi sono associato
("Studio legale Breveglieri e assoc."), e difendo i soggetti che non
vuole accollarsi nessun altro. Sono il semiasse delle ultime ruote del carro,
che sono poi i praticanti. Il mio schedario sembra la rubrica "Strano ma
vero" de La Settimana
enigmistica.
Paperoga riceve tizi tutti agghindati,
stirati assieme ai loro completi, o pezzi di gnocca con tacchi altissimi e tailleurs
da un paio di milionate.
A me invece tocca la sorella di un tale che
durante un raptus ha schiaffeggiato lo psichiatra di fronte ai paramedici della
clinica, scusandosi subito dopo. Lo strizzacervelli ha accettato le scuse poi
gli ha rifilato un tso... al
manicomio giudiziario, dove si trova da più di una settimana assieme a
squartatori e violenti d'ogni risma. Lo psichiatra ha telefonato alla famiglia
dicendo che gli farà dare la pericolosità sociale, che non vorrebbe ma è
costretto etc. etc. Davvero strano. La donna mi chiede che si può fare, e io:
«Suo fratello aveva già picchiato altre
persone?»
«No.»
«Stava scontando qualche pena alternativa al
carcere?»
«Assolutamente no.»
«Ma ha precedenti penali di qualche tipo?»
«No.»
«Aveva già subito trattamenti sanitari
obbligatori?»
«No, solo l'assistenza all'asl, gli davano delle medicine..»
«Quindi lei mi assicura che non era mai
stato intern... ricoverato da nessuna parte?»
«No.»
Mi prendo la testa tra le mani, cosa che un
avvocato non dovrebbe mai fare di fronte a un cliente. Rifletto un attimo e poi
chiedo: «Come si chiama questo psichiatra?». Mi dice il nome, faccio un paio di
telefonate, e scopro che è il cognato del direttore del manicomio giudiziario.
La squallida, meschina, illegale ripicca di
un trombone umiliato davanti ai sottoposti.
Una vendettucola sulla pelle di una persona
già sofferente. Alla faccia della deontologia.
Daniele, N-O-N ti devi deprimere.
Kadisha che dice: «Said non era un
clandestino.»
Pensa, cazzo, sei un avvocato.
Decido di far valere un'amicizia influente
contro una parentela para-mafiosa. Alzo la cornetta e compongo il numero di
Bernardo, videogiornalista investigativo d'assalto, centinaia di reportages
con camera nascosta trasmessi dalla rai,
un curriculum lungo un chilometro, denunce, premi e reputazione da guastatore.
«Bernardo, sono Daniele. Come va?»
«Uè, Zani. T'ho cercato l'altroieri sul
cellulare ma non eri raggiungibile, poi mi è passato di mente. Ti volevo dire
che ieri sera andava in onda quel servizio che ho fatto sulle case occupate,
che ti avevo intervistato a settembre assieme al tuo cliente, Said...»
Meglio così: vedermi alla tv mi avrebbe dato
acidità di stomaco. In due parole aggiorno Bernardo sul rimpatrio di Said e i
casini collaterali, poi arrivo al motivo della telefonata.
«Capito com'è la storia? Tu una volta non mi
avevi raccontato di una vecchietta a cui avevano tolto la pensione per motivi
assurdi, e tu avevi chiamato l'inps
dicendo che volevi fare un servizio, quelli si sono spaventati e dopo tre
giorni la nonna aveva di nuovo la pensione?»
«Sì. Guarda, sembra una cazzata ma è così.
Basta esprimere un interessamento, anche un accenno generico, e quelli si
cagano addosso. T'ho capito: dammi il nome del tipo e il numero del manicomio
criminale, io faccio una chiamata, chiedo di parlare col direttore, "di
questa cosa se ne sta parlando molto, ha una dichiarazione da fare?",
eccetera eccetera. Il primo che ha delle novità chiama l'altro, va bene?
Allora, come si chiama questo qua?»
Dopo il «grazie, Berna', a buon rendere» e
lo speranzoso congedo della signora, mi appoggio sullo schienale e mi sento un
po' meglio, ma solo un po'.
Al tramonto, chiamo Vasquez e lo invito a
prendere l'aperitivo. Ha ancora la voce un po' impastata e accusa un leggero
mal di testa, ma gli va bene, anzi, è già d'accordo con Leo, ci vediamo tutti e
tre dal Greco.
«Guarda, io nun me ricordo bene, era
‘n'articolo... non molto tempo fa, lo intervistavano ma nun me ricordo
che giornale era, però era ‘n romagnolo...»
«Tu sei di Roma, lo sai distinguere un romagnolo
da un emiliano?»
«Ma che stai a scherza', certo che li so
distinguere, e là se parlava de ‘n romagnolo, non ricordo se di
Ravenna o che, me capitano sotto mano tante robe, comunque era stato in
Indocina, la prima guerra, no quella contro gli americani... Aspetta, diceva
anche er nome de battaglia, era ‘na sillaba sola...»
«Cos'era, una parola indocinese?»
«No, maddeché, era ‘na sigla...
cazzo, com'è possibile che nun me ricordo, a Zani, me devi
scusa', c'ho ancora un po' di postumi, ieri sera Giorgio m'ha fatto incazza' e
se m'incazzo m'ubriaco prima, e il giorno dopo me ritorna l'accento, ma
pesante, e poi tutta ‘sta pigrizia fono-articolatoria...»
«Che?»
«...pigrizia fono-articolatoria, ‘sto fatto
che noi de Roma tronchiamo le parole o saltiamo de'e lettere...»
In effetti, il Vasquez che mi sta
parlando e sorseggia un analcolico non sembra nemmeno lo stesso che con
un'infuocata geremiade ha distrutto il convivio a casa di Elena. Leo non si è
ancora fatto vedere, ma è normale: vive in un altro tempo, non misurabile,
tutti lo sanno e nessuno se ne lamenta.
«Però forse lo ritrovo, l'articolo, sarà
sepolto chissà dove. Lo ritrovo... Ma, scusa, che è tutto ‘sto ‘nteresse pe'
l'Indocina?»
Sto per abbozzare una risposta quando fa il suo
ingresso Leo, sorriso alla De Niro in Mean Streets, mani protese a
impartire una specie di benedizione a bariste e avventori. Tutti lo adorano,
perché è un grande istrione. Cambia tutta l'atmosfera, e se non si fa vedere
per qualche giorno tutti a chiedersi «Ma Leo che fine ha fatto?».
Nei primi anni Novanta collaborava con
Bernardo, faceva il provocatore per servizi stile candid camera, andando
in giro per Bologna travestito da Hitler. Un giorno si presentano alla sede
della Lega Nord, al Pratello. Bernardo ha la videocamera nascosta nella sua
borsa speciale, Leo è in tenuta da führer con tanto di baffetto e ciuffo
impomatato. Dentro c'è solo un vecchietto, che rimane un po' perplesso ma li
accoglie con gentilezza. Leo gli dice che vorrebbe iscriversi, ma ha ancora
qualche dubbio, vorrebbe fare qualche domanda, e il vecchietto: come no, son
qui per questo! Allora Leo parte:
«Voi odiate i negri come li odio io, vero?»
«Certo che sì.»
«E pensate anche voi che sia necessario un
nuovo führer?»
«Certo! Noi ce l'abbiamo, il nostro führer:
è Bossi!»
«E... non ci saranno mica ebrei, nella
Lega?»
«Assolutamente no, niente ebrei.»
Il tutto immortalato su vhs! La rai
si rifiutò di mandare in onda il servizio, troppo scottante.
Leo ci raggiunge e si siede. Guarda le
occhiaie di Vasquez e fa: «Allora, ho saputo che ieri sera il simposio si è
concluso con spettacolo pirotecnico, e Giorgio, che io non per vantarmi
considero da sempre la più grande testa di cazzo dell'universo, è quasi venuto
alle mani col qui presente, senza che ci fossi io a difenderlo con la mia
sapienza marziale.»
«A difendere chi, Vasquez o Giorgio?»
«E che importanza ha? Io stavo con una
femmina meravigliosa, un incanto, cercavo di dare il meglio di me, la luna splendeva
sul giardinetto dietro al Lumière e lei deve avermi stregato, sì, mi ha fatto
un sortilegio, e mi scherniva, giocava con me come il gatto col topo, alludeva
ma si ritraeva, così per un tempo che mi è parso eterno, finché io non mi sono
inginocchiato davanti alla panchina e le ho chiesto: "Perché fai questo al
mio povero cuore? Perché mi guardi con quegli occhi e fai di me un'anima
perduta in una notte nera?" Ma lei niente, e così le ho chiesto ancora:
"Perché attenti in questo modo alla mia dignità? Non vedi che sono uno
straccetto ormai, l'amore per te mi rende invertebrato, un anemone, un
celenterato, una creatura ignara d'ogni felicità che sta in fondo a un oceano
di dolore... ?" E lei ancora niente, e allora io, con audacia:
"Dammela! Ti dimostrerò che grande amatore sono! Non hai sentito certe
voci su di me?" e a quel punto ho sguainato la mia spada, ma lei era già
lontana, è schizzata via velocissima, ho sentito solo lo spostamento d'aria.
Oggi pomeriggio l'ho vista in via Rizzoli. Abbracciata a un fricchettone..
Puttana!
Tutti intorno ridacchiano, qualcuno applaude
per il crescendo gassmaniano con finale a sorpresa.
Arriva la piñacolada. Chiacchieriamo del più
e del meno, poi mi viene in mente che Leo è un appassionato di storia militare.
«Leo... tu cosa sai delle guerre
d'Indocina?»
Come sempre, mi sorprende: è una vera
miniera di aneddoti sulla guerriglia Vietcong.
«Fu incredibile quando gli americani
scoprirono che certe mine a tempo di "Charlie" avevano come timer e
detonatore un barattolo di latta con dei fagioli. Riempiendola di acqua, i
fagioli si gonfiavano fino a sollevare il coperchio e stabilire il contatto per
l'esplosione! Per non parlare di quello che facevano a Saigon con le
biciclette: imbottivano il telaio di esplosivo e usavano il fanale come
detonatore. Una bicicletta parcheggiata tra cento altre era in realtà una bomba
letale. Sfruttavano perfino lo spostamento d'aria causato dalle pale degli
elicotteri nemici: minavano i rami più alti degli alberi, l'elicottero yankee
ci passava sopra, il vento scuoteva i rami innescando le mine, e l'esplosione
faceva perdere il controllo al pilota. Questa strategia, usare il nemico stesso
come arma, non si limitava alle bombe: una volta i Vietcong fecero trovare agli
americani una presunta circolare segreta, intitolata "Ufficiali
dell'Esercito di Liberazione". Era una lista di nomi e indirizzi di
cittadini sud-vietnamiti, presunti dirigenti clandestini della guerriglia. Gli
americani li rintracciarono e li eliminarono tutti. Solo più tardi si scoprì
che erano tutti traditori, spie e agitatori di destra, già condannati a morte
dai comunisti: gli americani avevano fatto il lavoro sporco per conto dei
Vietcong. Geniale, no? E l'uso degli animali nella guerra psicologica contro i
Berretti Verdi? Per disturbare il nemico, i Vietcong prendevano dei grossi
rospi, gli ficcavano una pallina di tabacco in gola poi li appendevano ai fili
spinati che recintavano i campi trincerati, quelli francesi prima e quelli
americani poi. Voi mi chiederete: perché? E' semplice: la tosse dei rospi
sembra tosse umana, e le sentinelle, terrorizzate, sparavano a casaccio per
nottate intere. Stessa cosa con un particolare rettile il cui verso notturno
suonava come "Fuck you! Fuck you!". Oltre al danno, la beffa.»
Sono quasi tramortito dalla raffica di
storie.
Al contrario, Vasquez si è in parte
rianimato: «Zani, con ‘ste storie di Leo me so' ricordato che ne ho
letto un altro di articolo, su un partigiano che è stato in Indocina, ma no a
combattere, è ‘na storia che nun ce se crede, era su un numero di
"Diario" di qualche mese fa, quello sono sicuro che l'ho
conservato... Se dopo m'accompagni a casa, te lo presto. Uno che si chiama
Ferro, un friulano, è stato in Vietnam, in Cambogia, in Thailandia, in Laos,
dappertutto. Lo hanno messo in galera praticamente ovunque. E' morto là, me
pare negli anni Ottanta. Sì, sono sicuro che ce l'ho ancora, quel numero. Però
ora che ci penso non m'hai risposto: che è ‘st'improvviso interesse per
l'Indocina?»
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