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Sentieri dell'odio
(Profughi)
La mattina del 2 Febbraio ‘45, con il Senio
di nuovo in piena e la neve alta, mio padre convinse gli altri uomini a tentare
il passaggio del fronte. Sapevamo che il terreno era disseminato di mine e
trappole esplosive. Niente poteva garantirci che tedeschi e Alleati non
avrebbero sparato su cinquanta sagome scure, ben visibili nella
neve punteggiata di crateri.
Bianca e Benito piangevano disperati e non
volevano abbandonare il rifugio, convinti di andare verso la morte. Mio padre
aveva un paio di stivali alti di gomma ed era sicuro che lo avrebbero
protetto dal freddo. Così attraversò il fiume molte volte, per trasportare mia
madre, gli anziani e i bambini. Natalia portava in spalle mio fratello Giorgio,
e io le camminavo accanto con un grosso fagotto di coperte e vestiti
legato alla schiena. Mi ero tolto gli zoccoli di legno, e li tenevo alti per
non bagnarli. Traversai tenendomi con la mano a una corda, tesa da una riva
all'altra. Ad un tratto, spaventato dalla corrente impetuosa, mollai gli
zoccoli per aggrapparmi con due mani. Li vidi allontanarsi verso la curva del
fiume. Dovevo proseguire scalzo.
Di certo i tedeschi ci videro, ma non
spararono. Forse per pietà.
Per non calpestare le mine, mio padre ci fece
camminare sull'argine del fiume, allo scoperto. Il tratto più esposto poteva
essere l'unico non minato. Disse a tutti: «Se ci volevano ammazzare avrebbero
sparato mentre attraversavamo il fiume, proprio sotto di loro.»
Per un centinaio di metri l'argine puntava
verso le linee polacche, ma poi deviava, in direzione di Riolo. Non sapevamo se
anche là avremmo trovato tedeschi pietosi. A sciogliere gli indugi, un
bombardamento d'artiglieria scatenò dalle due parti un inferno di fuoco.
In casi del genere, il rifugio migliore è il
cratere di una granata. Di certo non ci sono mine, ed è raro che un secondo
colpo cada nello stesso punto. A piccoli balzi raggiungemmo ognuno il suo buco.
Alcuni del gruppo morirono. A due passi da
me cadde Celestino, un vecchietto di oltre ottant'anni. Restammo accovacciati
nella neve per oltre due ore. Molti anziani rimasero disorientati, si
allontanarono dall'obiettivo e puntarono di nuovo verso le linee
tedesche.
Natalia, con Giorgio in braccio e Benito di
fianco, corse verso una casa abbandonata. Un attimo dopo mi buttai dentro
anch'io, per evitare una salva di granate. Passata l'esplosione, udii l'urlo di
terrore di mia sorella. Seduti contro il muro, c'erano tre soldati
morti. Avevano i piedi fasciati con strisce di lenzuola per non lasciare
impronte sulla neve. Quando l'odore acre delle esplosioni si perse nell'aria
gelida, sentimmo il tanfo della decomposizione. Non restai turbato alla vista
della morte: uno di loro, giovanissimo, aveva perduto l'elmetto e i capelli
biondi sparsi sulla fronte gli davano un'aria serena.
Camminai a piedi nudi sulla neve alta e
quando arrivammo a un centinaio di metri dalle postazioni polacche ci
intimarono l'alt sparando in aria raffiche di Thompson.
Facevano segni incomprensibili indicando il
terreno davanti a noi. Alla fine, capimmo che ci stavano avvertendo di non
procedere. C'erano molte mine a strappo, lì di fronte, unite da fili metallici
quasi invisibili nella neve.
Ancora due passi e saremmo inciampati su
quegli ordigni, a pochi metri dalla salvezza.
Riconobbero
subito mia madre e me: «You are little woman and little children, always to
go». Con un telemetro ci mostrarono
l'entrata del rifugio, a più di un chilometro di distanza. Sembrava lì, a
due metri da noi. Si distinguevano le orme lasciate poche ore prima sulla neve
altissima. Avrebbero potuto ucciderci senza difficoltà.
Eravamo mezzi congelati, dopo tante ore
nella neve, e bagnati fino all'osso. Furono gentili: ci offrirono tè con latte caldo
in polvere, biscotti e coperte. Ancora non ci rendevamo conto di avercela
fatta. La stanchezza e l'emozione ebbero la meglio e ci addormentammo in un
sonno profondo.
L'ufficiale polacco che comandava quel
settore del fronte non si spiegava come una dozzina di uomini adulti fossero
sfuggiti alle loro attentissime osservazioni. Sospettò che non si trattasse di
civili, nostri congiunti, e li fece tenere sotto stretta sorveglianza, per
chiarire chi fossero davvero. Un interprete tradusse le domande del polacco e
mia madre lo convinse che si trattava di persone del nostro gruppo. L'ufficiale
allora non riuscì a nascondere il biasimo per quegli uomini sporchi, abbruttiti
dalla paura e per le molte donne giovani che avrebbero potuto rischiare
qualcosa. Lanciò uno sguardo disgustato sulle larve umane che divoravano il
cibo offerto dai soldati e fumavano sigarette mai viste prima. Lo vidi scuotere
il capo e allargare le braccia in un gesto di compassione. Io ne fui
rattristato, perché fra quelli c'era anche mio padre, l'unico che si espose per
traghettare i più deboli da una sponda all'altra del fiume in piena.
Nei sette mesi successivi ci sballottarono
da un campo profughi all'altro. Fu un'esperienza terribile, non tanto diversa
da quella del campo di concentramento. Non venivano ospitati soltanto profughi
di guerra, ma anche ebrei slavi, reduci dai lager nazisti, veri scheletri
umani. Nessuno prestava loro la giusta assistenza: venivano lasciati morire. Li
sistemavano alla meglio su pagliericci di foglie di granturco, in mezzo a noi.
Avevano visi stravolti, inebetiti, sfigurati dalle violenze e dalle malattie.
Molti non riuscivano neppure ad alzarsi in piedi. I loro corpi puzzavano per
le piaghe e le ferite. Le donne, tutte incinte, partorivano figli morti, e di
solito morivano subito dopo. Le poche che ebbero la forza di comunicare ci
spiegarono come mai anche le bambine di dodici anni fossero gravide. I nazisti
non ne risparmiavano una.
Quasi ogni mattina liberavamo i pagliericci
dai corpi di chi non era riuscito a sopravvivere. Molti di loro si sarebbero
salvati se l'amministrazione alleata non avesse affidato quei campi a individui
meschini, in molti casi anche persone di Chiesa. Se il vettovagliamento fosse
stato controllato, quei poveracci sarebbero morti con più serenità, mangiando
cibo decente. Invece c'era chi cuoceva il rancio nell'acqua di mare, per
rivendere il sale alla borsa nera. Risultava così amaro e immangiabile.
La lunga promiscuità coi reduci dei lager ci
contagiò, la tibicì colpì molti di noi, e quando tornammo a casa eravamo vicini
al collasso.
Un giorno arrivarono nel campo, insieme a un
gruppo di ufficiali inglesi, alcuni partigiani in divisa kaki con la
coccarda tricolore sul berretto. Portavano le stesse armi che avevo visto mesi
prima nelle mani dei tedeschi e dei marò della X mas.
Erano venuti a controllare se tra i profughi
si fosse nascosto qualche fascista. Notai il terrore di un ragazzo di
Comacchio, che per non farsi scoprire si nascose sotto i pagliericci degli
ebrei morti. Certo doveva essere un repubblichino, magari uno della Brigata
Nera, con la coscienza sporca. Tuttavia, non rivelai il suo nascondiglio,
perché mi venne da pensare ai miei fratelli, Pietro, Domenico e
Maggiorana, di cui non si avevano notizie. In quel periodo era normale
giustiziare un ragazzo di diciotto anni. Bastava poco e ti mettevano al muro.
Non c'era pietà, da una parte e dall'altra. La differenza era che le Brigate
Nere non disdegnavano la tortura prima di fucilarti o impiccarti, spesso con
filo spinato.
Prima di andarsene, i partigiani domandarono
alle madri se il cibo fosse sufficiente. Quando si resero conto della
situazione, protestarono con gli ufficiali inglesi. Questi si mostrarono
stupiti e dispiaciuti e chiamarono una religiosa che insieme ad altre si
occupava di distribuire le casse di viveri che gli Alleati portavano ogni
giorno. Le ordinarono di aprire il magazzino ma quella prendeva tempo. Allora
un partigiano molto giovane la prese per un braccio e la costrinse ad aprire.
C'era una montagna di cibo che non avevamo mai visto: scatolette di carne,
margarina, pane di riso, cioccolato, uova e latte in polvere e molte altre
cose.
Il giovane partigiano, inferocito, picchiò
la suora con la cassa del mitra, finché gli altri non lo fermarono.
L'ultimo periodo ci misero a Riccione in un
hotel mezzo diroccato. Non si poteva uscire, se non strisciando tra i
reticolati. Durante una di queste sortite, incontrai due ufficiali inglesi.
Furono talmente colpiti dal mio aspetto e dall'abbigliamento che chiesero di
fotografarmi. Portavo una canottiera piena di buchi e un paio di pantaloncini
tenuti su con un pezzo di spago. Dovevo sembrargli davvero molto pittoresco. Mi
misi in posa e guadagnai un gelato.
Di lì a pochi giorni avemmo la grande gioia
di ritrovare Domenico. La guerra era terminata da poche settimane, e con
l'aiuto del Comitato di Liberazione di Imola mio fratello ci aveva
rintracciati. Capimmo subito che la sua salute era molto peggiorata e la tibicì
stava progredendo.
Nell'agosto del '45 tornammo tutti a casa,
su un camion militare inglese. Mia madre, poco prima, aveva ottenuto il
permesso di recarsi a Imola, per verificare che la nostra casa ci fosse ancora.
Era andata in municipio e al Comitato di Liberazione, dove aveva ottenuto un
minimo di aiuto, perché dal nostro appartamento era stato rubato tutto.
Io mi sentivo sperduto, non riuscivo a
rendermi conto di essere di nuovo a casa. Imola era malconcia, ferita dalle
bombe. I vicini ci guardavano increduli, forse ci credevano morti da tempo.
Erano tutti ostili, perché sapevano da dove venivamo e avevano paura del
contagio.
Per noi la guerra non era finita.
Dovevamo combattere ancora.
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