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Bologna, 2 febbraio 2000
La complicata storia di Fausto Ferro è raccontata
in un lungo articolo a firma Gualtiero Strano, su Diario della settimana,
anno IV, numero 44, "da mercoledì 3 a martedì 9 novembre 1999".
Il doppio prologo sembra preso di pacca da
un romanzo di Conrad o da un vecchio Corto Maltese: il giornalista
rintraccia Edi, operaio ai cantieri navali di Monfalcone. Gli racconta di aver
conosciuto suo padre: «ero il primo che gli si presentava potendo dire di avere
incontrato il fantasma di Fausto Ferro, ero la testimonianza che quell'uomo
andatosene quando lui aveva cinque anni esisteva davvero e non era stato
risucchiato misteriosamente dalle foreste del Sud Est asiatico.»
Edi mostra al giornalista poche vecchie
foto, e lettere scritte dal Vietnam in un misto di italiano e dialetto.
«Scriveva che mi avrebbe mandato i soldi per
raggiungerlo, e io ci credevo. Ancora pochi giorni, pensavo, e anch'io avrei
lasciato la povertà del Friuli, perché sa, allora qui la vita era davvero dura.
Mi scriveva: "sistemo tutto per il mese prossimo e poi vieni", ma lo
diceva in ogni lettera. Aspettavo, mi ero anche fatto il passaporto, ma il
"mese prossimo" non arrivò mai. Poi, un giorno, le lettere
cessarono di arrivare.»
Il giornalista controlla l'indirizzo del
mittente: corrisponde a quello del carcere di Saigon.
1987. Ferro incontra il giornalista a Xiang
Khuang, in Laos, paese descritto come un "monastero socialista chiuso
nella sua splendida atarassia". Sessantunenne e divorato dal cancro, Ferro
decide di raccontare la sua vita all'unico connazionale incontrato da quando si
è stabilito lì vent'anni prima.
1944. Il giovane Fausto, per non perdere il
posto di lavoro all'Arsenale di Monfalcone, accetta di entrare nella milizia
fascista. Pochi giorni dopo viene fermato a un posto di blocco volante dei
partigiani, che lo minacciano: «se ti ribecchiamo che sei ancora nella milizia,
ti fuciliamo. O con noi o con loro.» Fausto ci pensa un po' su, poi fa la sua
scelta: salire in montagna, aggregarsi ai "ribelli". Legge Marx e
Lenin, diventa comunista. Dopo un po' il suo gruppo si sposta a combattere in
Slovenia, aggregato al IX° Corpo d'Armata dell'esercito di liberazione
jugoslavo:
«Fu subito un inferno, i nazisti volevano
catturare Tito a ogni costo. Ci vennero addosso migliaia di uomini: cosacchi,
fascisti italiani, collaborazionisti ustascia, tedeschi. La mia brigata fu
distrutta. Mi salvai restando 20 giorni nascosto in una buca nella neve con un
compagno ferito: ogni tanto i contadini ci portavano qualcosa da mangiare.»
Dopo la Liberazione, Fausto si ferma in Jugoslavia:
entra nella Gioventù Comunista, lavora come meccanico a Zemun, l'aeroporto di
Belgrado, e si sposa con Miriza, ragazza serba che gli dà un figlio, Edi.
1948. Durante l'estate il Cominform tronca i
rapporti con la Jugoslavia. Da Mosca parte un appello al popolo jugoslavo
perché rovesci Tito. Sui posti di lavoro si fanno assemblee con i dirigenti del
partito. A Zemun duemila operai, in piedi, ascoltano in silenzio il segretario
locale, che descrive Stalin come tiranno e traditore del socialismo, invita a
prepararsi a un'eventuale aggressione, poi chiede se qualcuno vuole
intervenire. Fausto alza la mano. Parla in serbo-croato, difende l'URSS e, in
modo piuttosto colorito, annuncia che non rinnegherà nulla, perché non è mica
un "figlio di puttana", lui. E' il caos, urla e bestemmie lo
inseguono mentre esce di corsa dalla sala.
La notte stessa la polizia politica lo
preleva da casa e lo arresta per cospirazione con il nemico. Lo attende una
settimana di carcere, e dieci ore quotidiane di interrogatori.
Lo rilasciano, ma gli timbrano il libretto
di lavoro con la scritta rossa "cominformista",
nuovo sinonimo per "indesiderabile". Per lui non c'è più lavoro. Dopo
un periodo di fame e patimenti rientra in Italia col figlio Edi, con l'idea di
tornare in Jugoslavia non appena le acque si saranno calmate. Miriza è
costretta a fermarsi a Fiume perché l'ambasciata italiana non le concede il
visto. Fausto ancora non sa che non la rivedrà mai più.
In Italia le cose non vanno molto meglio; si
è in pieno clima di trionfo democristiano ed epurazione degli ex-partigiani:
figurarsi se qualcuno è disposto a dare un lavoro a uno che ha combattuto con
Tito. L'unica cosa che può fare è il "recuperante", raccogliere
residuati bellici sul Carso, riciclarli o rivenderli.
Una sera, mentre in Lambretta porta via le
sue cose dalla casa della madre a Mortegliano, Fausto viene fermato dai
carabinieri, che gli trovano un mitra Beretta. Tre mesi di carcere, un processo
all'orizzonte, terra bruciata intorno. Non può restare in Italia né
tornare in Jugoslavia. Decide di emigrare in Australia.
A Marsiglia s'imbarca clandestino su una
nave svedese, la Scoburn, che fa scalo in Algeria per caricare legionari
da portare in Vietnam, dove infuria la guerra. Dopo la tappa indocinese, la nave
farà rotta per l'Australia.
Fausto resta nascosto per un mese in un
bugigattolo caldissimo, accanto ai motori.
Arrivata a Saigon, la nave cambia programma:
anziché proseguire per l'Australia, tornerà in Africa. Il Vietminh conquista
sempre più terreno, e l'Armée ha bisogno di altri soldati. Fausto è
costretto a calarsi di notte dalla fiancata della nave: si ritrova al porto di
Saigon, senza soldi né passaporto.
«Io, ex-fascista, ex partigiano, ex
comunista jugoslavo, ex cominformista, ex recuperante, sono al centro di un
impero coloniale in disfacimento, in una città sconosciuta dall'altra parte del
mondo.»
L'unica tenue speranza è un foglietto su cui
il mozzo della nave ha scritto un indirizzo, amici corsi che gli trovano un
lavoro da meccanico e gli procurano una falsa carta d'identità. D'ora in poi si
chiamerà Jean Roland.
1954. Dopo Dien Bien Phu e gli accordi di
Ginevra, i francesi smobilitano, vendono le proprietà o le intestano a
prestanome: Fausto/Jean ha in gestione una piccola azienda, con un camion
trasporta carichi di riso, caffè e caucciù tra le pianure del Sud e gli
altopiani del centro. Si sposa con una ragazza vietnamita e nel ‘56 gli nasce
un figlio, che chiama Jean Andrea.
Pian piano rileva tutta l'azienda, gli
affari vanno bene, col suo camion osa spingersi anche in zone di guerriglia,
dove opera il Vietminh sotto la direzione del Nord comunista:
«A chi mi chiede se non ho paura, rispondo
che ho fatto il partigiano e che sono comunista: non ho nulla da temere perché
considero Ho Chi Minh come un padre e il Vietnam come la mia nuova madre. Un
figlio non può aver paura dei genitori.»
Un giorno anonimi lo denunciano alla polizia
sud-vietnamita come comunista e sospetto trafficante d'armi. Ancora una volta
lo arrestano di notte. Stavolta rimarrà in carcere due anni, senza che nessuno
lo interroghi o che qualcuno gli contesti ufficialmente un reato.
«Comincio uno sciopero della fame e dopo 27
giorni, ridotto a uno scheletro, mi tolgono dal carcere portandomi in ospedale.
Lì ritrovo tutti i detenuti comunisti che come me avevano rifiutato il cibo e
tutti insieme cantiamo L'Internazionale. E' il primo maggio, un giorno
indimenticabile anche per le legnate che ci danno.»
Ma la protesta ottiene qualche risultato:
Fausto può incontrare un funzionario dell'ambasciata italiana e rivelare la sua
vera identità. Tre giorni dopo lo caricano in fretta e furia su un'auto diretta
all'aeroporto, dove gli vengono consegnati un foglio di espulsione e un
passaporto italiano nuovo di zecca. Mentre sale sull'aereo per la Cambogia, la
moglie - che non vede da due anni - lo saluta da lontano, tenendo in braccio il
figlioletto. Non li rivedrà mai più, è la seconda famiglia che deve
abbandonare.
Atterrato a Phnom Pehn, Fausto va dal
console onorario d'Italia, un certo Forsinetti, ben introdotto al palazzo reale
perché consuocero del principe/presidente Norodom Sihanouk. Forsinetti gli
fornisce un visto temporaneo di sei mesi. Un funzionario cambogiano, a cui
Fausto allunga una mazzetta, gli promette che dopo tre visti temporanei potrà
averne uno definitivo.
Fausto si mette con un'attrice
cinematografica cambogiana, Nguyen Tchi, che lo ospita a casa sua e gli presta
i soldi per aprire un negozio di condizionatori d'aria.
Trascorso un anno e mezzo, e quasi scaduto il
terzo visto provvisorio, Fausto scopre che il funzionario da lui corrotto se
n'è andato a Hong Kong. E' di nuovo clandestino, la polizia gli intima di
lasciare il paese, lui non lo fa e viene ancora una volta incarcerato, o
meglio:
«Allora la Cambogia era una terra dolcissima
e tranquilla, abitata da gente mite: non esistevano prigioni. Insomma, mi
chiusero in una pagoda e all'ingresso misero due guardie a sorvegliarmi. Un
monaco mi portava zuppe di riso.»
Dopo una serie di vicissitudini e grazie
all'intercessione di Forsinetti, Fausto viene liberato e lascia il paese. Non
rivedrà più nemmeno Nguyen Tchi, che poi scomparirà sotto Pol Pot.
Dubito che da allora sia mai più esistito un
cinema cambogiano.
Fausto si ferma per un po' a Singapore, dove
non riesce a ottenere un permesso di soggiorno. Ci riprova in Malaysia, poi in
Thailandia, ma in una regione ormai investita dall'escalation della
guerra in Vietnam, nessun paese concede visti definitivi.
Il solo paese a non essersi chiuso
ermeticamente è il Laos, unica nazione della penisola indocinese a non avere
sbocco sul mare, una striscia di foreste tra Cina, Vietnam e Thailandia:
«A quel tempo, il Laos era una specie di Far
West, la presenza del governo e l'organizzazione statale erano praticamente
invisibili. Le frontiere, poi, erano senza controllo. Era il solo paese dove
probabilmente nessuno mi avrebbe chiesto il visto... Una notte, su una piroga a
remi, attraverso il Mekong, il fiume che divide la Thailandia dal Laos. Con me
ho solo una borsa e qualche migliaio di bath risparmiati a Bangkok.»
Fausto trova lavoro come contadino, e più
tardi compra a poco prezzo qualche ettaro di giungla, sulle montagne che
scendono verso il fiume Nam Gun. Rendere coltivabile quel terreno è un'impresa
faticosissima. Nel frattempo si è messo con Nan Nan, ragazza laotiana che gli
darà una figlia, Linda. Pian piano acquista bufali, capre e maiali, coltiva
riso e tabacco, banane e manghi. E' una vita dura ma felice. La guerriglia
comunista del Pathēt Lao e i bombardamenti americani sul Vietnam sono echi
lontani.
Agosto 1975. Tre mesi dopo l'ingresso
trionfale dei Vietcong a Saigon, anche il Pathēt Lao prende il potere, in
modo molto meno plateale e più indolore. Un giorno Fausto è al mercato della
capitale Vientiane, quando lo avvisano che i militanti del Pathēt Lao
stanno invadendo i suoi campi, requisendo attrezzi e animali. Suo genero è
stato arrestato, ma è lui che vogliono: lo credono un colonialista francese,
uno sfruttatore del popolo. L'unica cosa è prendere di petto la situazione:
Fausto va al palazzo del governo, si qualifica come comunista italiano e chiede
udienza al primo ministro Kaisôn Phomvihān, a cui dice: «Ho girato mezza
Asia e mi sono sempre adattato, se non mi volete basta che lo diciate e me ne
andrò: non ho paura di ricominciare da capo.»
Kaisôn gli promette che risolverà il
problema. La mattina dopo Fausto torna alla fattoria e trova schierati i
funzionari di partito, pronti a fargli il processo: lo chiamano servo degli
imperialisti, sfruttatore, sanguisuga, finché lui non decide di passare al
contrattacco:
«Sono un vecchio comunista italiano e non,
come credete, un colonialista francese. Quando ero pieno di pidocchi e
combattevo contro i nazisti, e i fascisti uccidevano i compagni, voi
intellettuali e funzionari leccavate il culo ai francesi per ottenere un posto
a scuola per i vostri figli. E dopo i francesi avete accolto a braccia aperte
gli americani, bastava una mancia da dieci dollari. Certo, ci sono stati anche
quelli che non hanno collaborato e che per questo non hanno avuto né medicine
né cibo, ma non sono qui: stanno tagliando alberi nella foresta. Qui non ci
sono contadini ma funzionari vili.»
Il processo finisce lì. La sera arriva
l'ordine di Kaisôn: restituire la fattoria, liberare il genero di Fausto.
Di nuovo il 1987. Fausto Ferro termina il
racconto. Ha un tumore, necessita di cure costose, e la moneta laotiana non
vale niente. Chiede al giornalista di rendere nota la sua storia in Italia, per
fargli ottenere una pensione minima. Anche cifre che in Europa sarebbero
risibili, un insulto, come 50.000 lire al mese, per Fausto farebbero la
differenza.
E qui c'è uno strano buco: il giornalista
pubblica la storia solo dodici anni più tardi, e non spiega che tipo di
impedimenti ha avuto, dice solo: «Volevo pubblicare questa storia molto prima.»
«Fausto Ferro è morto alla fine degli anni
Ottanta e dei missionari in Thailandia mi raccontarono che, per pagare l'aereo
di ritorno a Vientiane dopo un'inutile visita in un ospedale di Bangkok, girava
di notte tra i ricoverati cercando di vendere fibbie d'argento portate dagli
altopiani laotiani.»
Che avventura. Di quelle che ti danno un
inizio, un dirupo su cui vacillare, qualcosa da rimuginare mentre si precisano
i contorni, dalla nebbia di storie non narrate emergono profili. Fausto Ferro non
combatté in Vietnam, ma di fronte al suo intricato percorso di vita, quasi
tutto il resto diventa verosimile.
Ex-partigiani italiani nella guerra
d'Indocina.
Sto cercando qualcuno?
Qualcosa sta cercando me?
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