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Il ritorno a Imola non fu come me
l'aspettavo.
Durante quei mesi di sofferenza, sempre
esposti al pericolo, con tre membri della famiglia dispersi, pensavo che
a guerra finita tutto sarebbe cambiato. Sarebbe cominciata una vita nuova, più
felice e serena.
I fascisti erano stati sconfitti, niente
sarebbe stato più come prima.
Tornammo a casa.
La stessa casa. Per ironia del destino i
Forni erano rimasti in piedi, pronti ad accoglierci.
Anche Pietro tornò. Dopo la partenza da
Cuffiano aveva raggiunto le linee alleate e gli inglesi gli avevano dato
qualche soldo e un lasciapassare per un campo profughi, dove aveva
atteso la fine del conflitto.
Mancava solo Maggiorana di cui non avevamo
notizie da mesi. Ogni sera, nel rifugio, avevamo recitato il rosario
per lei.
Mia madre si mise alla sua ricerca non
appena ci fummo sistemati.
Scoprì che il sanatorio di Maggiorana era
stato evacuato dai tedeschi per farci un ospedale militare. I pazienti erano
stati smistati altrove o avevano dovuto arrangiarsi alla meglio.
Solo dopo mesi scoprì che una ragazza di
Imola viveva con un'amica in una casa abbandonata della zona.
Fu così che rintracciò nostra sorella.
Quando la riportò a casa, nella primavera
del '46, Maggiorana era sfinita. Pelle e ossa, pallida, sputava sangue.
La ricordavamo come la più bella tra noi,
già una signorina, a cui lasciavamo volentieri la stoffa e i vestiti più
decenti; ed era ancora molto bella, ma di una bellezza sfiorita. Il suo fisico
era ormai fiaccato.
Dopo lo sgombro del sanatorio aveva vissuto
di stenti, insieme a un'altra malata.
Più di una volta domandai a mia madre come
Maggiorana avesse resistito in tutti quei mesi.
Non volle mai rispondere.
Maggiorana morì il 20 settembre del ‘46.
Aveva diciotto anni.
Nel frattempo, era nato mio fratello Marco.
La gravidanza peggiorò la salute di mia madre. Diventò anche lei tibicì e
insieme a Domenico venne ricoverata al sanatorio di Budrio.
I medici informarono mio padre che non
c'erano molte speranze. Potevano giusto tentare un nuovo tipo di operazione, la
"plastica polmonare", cioè l'asportazione della parte malata dei
polmoni. Ma il rischio era comunque molto alto.
Quando mia madre lo seppe disse: «Se
dobbiamo morire tanto vale tentare l'operazione, almeno moriremo addormentati,
in fretta e senza soffrire, piuttosto che attendere tra mille spasimi.»
Così mio padre firmò l'assunzione di
responsabilità per l'intervento. Mia madre convinse Domenico, dicendogli di aver
sognato Dio sulle rive del Senio, che le aveva promesso la salvezza sua e del
figlio per il bene che aveva fatto in quel luogo.
Forse fu davvero un miracolo: si salvarono
entrambi. Ma quella salvezza costò loro altri cinque anni di sanatorio.
Senza mia madre la vita della famiglia
peggiorò. Nel ‘47, a soli tredici anni, assieme a mia sorella Natalia, mi
ritrovai sulle spalle le faccende di casa. Mio padre e Pietro infatti furono
riassunti alla Cogne, riconvertita in fabbrica tessile, e dovevano lavorare
tutto il giorno. Fummo aiutati da un altro abitante dei Forni, "Gigì e
Fastigi" (Gigi il Fastidio), che ci fece da donna di servizio in cambio di
un piatto di minestra. Era un disgraziato come noi, un
"busone" molto effemminato. Ci divertivamo a pizzicarlo,
per sentirgli strillare: «M'dé fastigi!» ("Mi date
fastidio!"), da cui il soprannome.
Di lì a poco, fui costretto anch'io a
trovare lavoro.
Nel '46 avevo già lavorato per sei mesi come
stagnino da Niceto "e duzér" (il docciaio), ma speravo di tornare dal
vecchio Toni. Lui però non poté riassumermi, per via di un torto che avevo
fatto alla sua seconda moglie, che da allora non poteva sopportarmi. Fu Vito,
il padrone della segheria, a trovarmi un lavoro adatto. Mi fece assumere da
Manè, un falegname che aveva una bottega avviata e che non seppe dirgli di no.
A Imola la prassi burocratica per
l'assunzione di un fattorino era la seguente: «Babì, amaracmènd, tè d'avé
òci, busdecùl e memoria, la tu péga l'è ed vèt scùd àla smèna, vàla bè acsè?
» «Sé.»
[«Bambino, mi raccomando, devi avere occhio,
buco di culo e memoria, la tua paga è di cento lire alla settimana, va bene
così?» «Sì.»]
In realtà Manè aveva già chi gli faceva da
fattorino, quindi mi "parcheggiò" da un collega, un altro bravo
falegname, Pirì Bèrba.
Pirì Bèrba era un uomo possente e villoso,
aveva peli dappertutto. Era un comunista della prima ora, di grande altruismo.
Aveva partecipato alla Resistenza e corso molti pericoli. Mi insegnò a fare i
primi lavori di falegnameria e nella sua bottega venni a contatto con quelli
che non si erano rassegnati al compromesso politico del dopoguerra.
La nuova parola d'ordine lanciata da
Togliatti era "democrazia progressiva". Il cosiddetto "Partito
Nuovo" rinunciava all'ipotesi dell'insurrezione e della dittatura del
proletariato, per dialogare con tutte le masse popolari, compresi i cattolici.
Pirì diceva che di fascisti carogne ce
n'erano ancora molti in circolazione e bisognava stare in guardia. Ce l'aveva a
morte con papa Pio XII che aveva appena scomunicato i "rossi".
«Av'la dag mè la scumonica cun questa
què!» [Ve la do io la scomunica, con questa qui!] e tirava fuori da dietro
la cintola una P-38 tedesca, rincarando la dose con una sfilza di bestemmie.
Poi concludeva rivolgendosi direttamente a Dio: «E te t'putivi fermé tota la
cativéria cu jera, vest che i dis tot che sei onnipotente!» [E tu potevi
fermarla, tutta la cattiveria che c'era, visto che dicono tutti che sei
onnipotente!].
Io non potevo che condividere quelle idee.
Mettendo al bando i comunisti, il papa aveva scomunicato chi si era battuto
contro i fascisti: Toni e i suoi amici, mio padre, mio fratello Pietro e i
ragazzi della Trentaseiesima che avevano dato la vita per la liberazione.
La bottega di Pirì era il luogo di ritrovo
di molti personaggi bizzarri, ma convinti comunisti, che non avevano consegnato
tutte le armi quando gli era stato ordinato di farlo.
Quando era agitato Pirì Bèrba si esercitava
al tiro a segno in fondo alla bottega, assieme al suo amico Gardelli, detto
"Gardlìna".
Gardlìna aveva fatto anni di confino ed era
stato anche partigiano. Ogni tre o quattro giorni arrivava con la sua Beretta e
insieme a Pirì sparavano interi caricatori sulle assi di noce.
Era l'unico modo che avevano per sfogarsi.
Ma quell'abitudine faceva incazzare Vito, il padrone della segheria, che quando
metteva il legno sulla sega a nastro vedeva uscire le scintille e sbottava:
«Ecco che Pirì e Gardlìna jà fàt ancòra
la rivoluziò. ‘Av' la dag mé la rivoluzió cun un stazò t'la còpa sàn smìtì
d'arviném tòt i svéj.» [Ecco che Pirì e Gardlina hanno fatto ancora
la rivoluzione. Ve la do io la rivoluzione con uno scapaccione sulla nuca se
non la smettete di rovinarmi gli attrezzi].
Gardlìna era un omettino minuto a cui non si
addiceva gran che la parte del rivoluzionario. Era tutto in scala ridotta,
sempre pulito e profumato, con i capelli troppo lucidi di brillantina Linetti,
pettinati indietro alla Rodolfo Valentino.
La sua pistola era una calibro 6,35, la più
piccola esistente e Vito lo sfotteva: «Cun cla pistulina alè t'fé poca
rivoluziò» [Con quella pistolina lì fai poca rivoluzione] poi aggiungeva: «La
su pistulina la piaséva poc èch a su mujer, cla pinsè bè ed truvén ona piò
gròsa.» [La sua pistolina piaceva poco anche a sua moglie che ha
pensato bene di trovarne una più grossa].
Al che Gardlìna ribatteva: «Mè a so picì,
ma ajò fat béch un moci d'imbezél piò grènd ed mè.» [Io sono piccolino ma
ho cornificato un mucchio di imbecilli più grandi di me].
A volte Gino Cornetti, dalla finestra
spalancata di fronte alla segheria, cantava la romanza preferita di Vito. Aveva
studiato al conservatorio e per qualche tempo aveva anche calcato le scene, ma
la salute gli aveva impedito di proseguire. Era rispettato in quanto comunista "colto"
e perché era stato uno degli organizzatori della Resistenza.
Era un ambiente di lavoro formidabile, per
la prima volta mi sentivo considerato, senza dovermi vergognare di niente.
Ero il più giovane della compagnia, un
bambino cresciuto in fretta per via della guerra e della miseria. Pirì e gli
altri capivano la mia rabbia e la delusione per il fatto che la mia famiglia
stava peggio di prima. Apprezzavano anche il mio carattere: ero sveglio, molto
più sveglio di ogni mio coetaneo.
Con quelli della mia età avevo poco da
spartire, erano ancora bambinetti, mentre io, con quello che avevo
passato, avevo già le responsabilità di un adulto, e mi sentivo più grande.
Anche la mia statura poteva trarre in inganno: ero molto alto per quell'età,
tant'è che mi chiamavano Vitaliano "e Zighént" (il Gigante).
Volevo essere come Pirì e gli altri. Capivo
la loro frustrazione meglio di chiunque, perché era anche la mia.
Avevano, anzi, avevamo vinto, e cosa
era cambiato? I preti erano peggio di prima, il papa alzava la testa, tanti
avevano nascosto la camicia nera per riciclarsi in mille modi, i ricchi erano
ancora lì e noi facevamo la fame.
Decisi che avrei avuto anch'io la mia arma
personale.
La ottenni ricattando mio fratello Pietro. Era
da molto che facevo la posta a una delle sue pistole. Un giorno lo spiai mentre
chiavava con una donna dei Forni e minacciai di dirlo alla sua fidanzata se non
mi regalava una pistola, la Steyr calibro 8.
Così cominciai anch'io ad affinare la mira.
La pistola in tasca mi faceva sentire più
forte. Mi avevano sempre sputato addosso, ero sempre stato una nullità, un
ragazzino con le pezze al culo, figlio di una famiglia di tisici, uno da cui
stare alla larga.
E continuavo ad esserlo. Ma ora avevo la
pistola. Il mio odio faceva paura.
Presi a girare armato, a sparare tra i piedi
di chi mi dava fastidio, del contadino a cui rubavamo le ciliegie o anche solo
così, per gioco, per far ballare un amico al ritmo delle pallottole.
Se non volevano rispettarmi, almeno dovevano
temermi.
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