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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 23 Bologna, 5 febbraio 2000
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23

Bologna, 5 febbraio 2000

 

 

L'inizio di un'indagine è sempre casuale. Devi trovare un filo e percorrerlo per vedere dove ti porta. Seguirne le possibili diramazioni, tornare sui tuoi passi quando t'accorgi di aver imboccato un vicolo cieco. E usare anche l'istinto, quando mancano gli indizi.

Ho un nome: "Mirco".

Prima però occorre trovare le domande

 

Dall'Emilia-Romagna al Vietnam. Non credo si potesse andare dall'altra parte del mondo senza l'aiuto del partito. O la Legione Straniera, ma Vasquez è stato categorico: il nostro uomo misterioso stava dalla parte dei rossi. Reperire materiale e testimonianze sugli espatri organizzati dal PCI nel dopoguerra.

Quello che so già:

1) Parecchi ex-partigiani sono stati fatti uscire dall'Italia per scampare agli arresti.

2) Soprattutto quelli che avevano "regolato conti in sospeso", oltre il tempo limite fissato dall'amnistia (ovvero agosto '45, tre mesi dopo la fine della guerra).

3) Ci sono cose che i libri non dicono.

 

Mi servono soprattutto testimonianze dirette. Quelle di chi ha percorso i canali di espatrio del PCI e potrebbe aver incrociato un partigiano romagnolo in viaggio verso l'estremo oriente.

L'inizio di un'indagine è sempre casuale.

Cecoslovacchia. Radio Praga.

 

Sul finire degli anni Quaranta, per sfuggire alla cattura, 466 partigiani comunisti italiani (i più del «Triangolo rosso» emiliano, alcuni della «Volante rossa» milanese) trovarono rifugio in Cecoslovacchia. Molti di questi fuoriusciti hanno accettato - in tempi diversi nel corso di trent'anni - d'incontrarmi e di raccontare i drammi di cui furono protagonisti sotto il fascismo e nel regime comunista: e di ciò li ringrazio.

 

E' l'epigrafe del romanzo di Giuseppe Fiori, Uomini ex, ovvero Lo strano destino di un gruppo di comunisti italiani (Einaudi, 1993). La storia amara, disperata, di un sogno esportato, insieme alle esistenze compromesse di chi non aveva consegnato le armi. Un progetto uscito clandestino dall'Italia e trasferito a Praga, terra del socialismo reale. Un ideale durato vent'anni e infranto per sempre dai carri armati russi nel '68.

L'ultima pagina è struggente, le parole di chi se l'è presa nel culo e sa di non poterci fare nulla, perché ormai è troppo vecchio per agire. Uomini ex. "Ex tutto".

C'è qualcosa però che stona. Qualcosa di anacronistico. La coscienza non "ortodossa" di chi scrive poteva essere condivisa dai protagonisti di quell'avventura? Lo sguardo di un non comunista come Fiori può aver visto quello che voleva vedere: uomini-ex, appunto. Ma loro si considerano davvero così? Pensano davvero di aver lottato e rischiato per niente?

 

Giuseppe Fiori. L'ex-senatore della sinistra indipendente è un accento sardo, sveglio e gentile, all'altro capo del telefono. Il numero me l'ha dato l'ufficio stampa della sua casa editrice. E' bastato spacciarsi per giornalista.

E' più che disponibile a parlare di quello che sa. Ha cominciato a raccogliere materiale sui profughi politici italiani in Cecoslovacchia fino dai primi anni Sessanta. Il suo romanzo è stato pubblicato nel 1993. Trent'anni di ricerche, interviste, viaggi a Praga. Ha intervistato anche il capo della Volante Rossa, Giulio Paggi, il leggendario comandante "Alvaro".

Mi dice che allora in Cecoslovacchia ci andavi solo attraverso i canali del partito. Se eri comunista a meno che non fossi deputato, dovevi uscire clandestinamente dall'Italia, perché era difficile che ti concedessero il passaporto. Anche per entrare in un paese dell'est occorreva un visto. Figurarsi se avevi pendenze con la giustizia.

Il partito forniva i documenti falsi, l'organizzazione d'appoggio e il collocamento in Cecoslovacchia. Ti procurava un alloggio e un lavoro adatto alle tue capacità. Gli "intellettuali" erano in forza a Oggi in Italia, programmazione del pci che s'appoggiava a Radio Praga, bollettino in italiano dalla terra del socialismo. Spesso le notizie raggiungevano l'Italia di rimbalzo, sfuggendo alla censura nostrana, come per esempio nel '60, durante i moti contro il governo Tambroni.

Gli illetterati venivano mandati a lavorare in campagna o nelle fabbriche ceche. Tutti gli esuli erano comunque più che tutelati dal partito. Erano controllati. Il pci aveva una vera e propria succursale in Cecoslovacchia, con i suoi commissari politici e tutto il resto. I cechi offrivano ospitalità, ma a loro volta sorvegliavano la comunità degli esuli, percepita comunque come un corpo se non proprio estraneo, quanto meno straniero, quindi non sottoposto all'autorità del partito comunista cecoslovacco. L'autonomia degli italiani era vista con diffidenza. E a loro volta gli italiani svilupparono subito una forma di difesa comunitaria. Per quanto molti di loro si sposarono con ragazze cecoslovacche, Fiori definisce quella italiana una "comunità monastica". Con tutti i pro e i contro che questo poteva comportare: idiosincrasie, antipatie personali, gelosie dovute alla convivenza forzata in un paese straniero; lo spirito di corpo e la condivisione del medesimo destino facevano da contraltare.

Poi ci sono i suicidi. Non furono casi isolati: la lontananza dalle famiglie, per chi già le aveva, la disillusione sul socialismo reale, il senso di isolamento. Suicidi. Per qualcuno addirittura l'ombra di una mano esterna.

Chiedo spiegazioni: nel romanzo Fiori sembra quasi alludere a omicidi.

Risponde secco: no, assolutamente. Con quel velo di sospetto voleva soltanto dare l'idea del deterioramento del clima in quella strana comunità. Invidie, odii incrociati, perfino spionaggio, certo. Ma eliminazioni, no. Ne avrebbe almeno avuto il sentore, in trent'anni di ricerche e conoscenza intima con i superstiti di quell'esperienza. Invece non si è mai imbattuto in niente del genere.

Spionaggio sì, tre membri della comunità italiana furono reclutati dalla polizia segreta cecoslovacca come informatori. Comunisti italiani che spiavano comunisti italiani.

Dalla Cecoslovacchia sono tornati a scaglioni e alcuni non sono mai tornati. La prima amnistia per i fatti di sangue del dopoguerra è del '59. Ma per le situazioni più gravi ci vorrà l'elezione di un presidente della repubblica ex-partigiano, Sandro Pertini, e l'intercessione presso di lui di Arrigo Boldrini "Bulow", presidente nazionale dell'Anpi, per ottenere l'amnistia. 1978. Trent'anni dopo.

Ma per altri non c'è amnistia che tenga. Al comandante "Alvaro" l'Italia rimane preclusa  per sempre, come ai Savoia. Vive ancora a Praga.





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