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Bologna, 5 febbraio 2000
L'inizio di un'indagine è sempre casuale.
Devi trovare un filo e percorrerlo per vedere dove ti porta. Seguirne le
possibili diramazioni, tornare sui tuoi passi quando t'accorgi di aver
imboccato un vicolo cieco. E usare anche l'istinto, quando mancano gli indizi.
Ho un nome: "Mirco".
Prima però occorre trovare le
domande.
Dall'Emilia-Romagna al Vietnam. Non credo si
potesse andare dall'altra parte del mondo senza l'aiuto del partito. O la
Legione Straniera, ma Vasquez è stato categorico: il nostro uomo misterioso
stava dalla parte dei rossi. Reperire materiale e testimonianze sugli espatri
organizzati dal PCI nel dopoguerra.
Quello che so già:
1) Parecchi ex-partigiani sono stati fatti
uscire dall'Italia per scampare agli arresti.
2) Soprattutto quelli che avevano
"regolato conti in sospeso", oltre il tempo limite fissato
dall'amnistia (ovvero agosto '45, tre mesi dopo la fine della guerra).
3) Ci sono cose che i libri non dicono.
Mi servono soprattutto testimonianze
dirette. Quelle di chi ha percorso i canali di espatrio del PCI e
potrebbe aver incrociato un partigiano romagnolo in viaggio verso l'estremo
oriente.
L'inizio di un'indagine è sempre casuale.
Cecoslovacchia. Radio Praga.
Sul finire degli anni
Quaranta, per sfuggire alla cattura, 466 partigiani comunisti italiani (i più
del «Triangolo rosso» emiliano, alcuni della «Volante rossa» milanese)
trovarono rifugio in Cecoslovacchia. Molti di questi fuoriusciti hanno
accettato - in tempi diversi nel corso di trent'anni - d'incontrarmi e di
raccontare i drammi di cui furono protagonisti sotto il fascismo e nel regime
comunista: e di ciò li ringrazio.
E' l'epigrafe del romanzo di Giuseppe Fiori,
Uomini ex, ovvero Lo strano destino di un gruppo di comunisti
italiani (Einaudi, 1993). La storia amara, disperata, di un sogno
esportato, insieme alle esistenze compromesse di chi non aveva consegnato le
armi. Un progetto uscito clandestino dall'Italia e trasferito a Praga, terra
del socialismo reale. Un ideale durato vent'anni e infranto per sempre dai
carri armati russi nel '68.
L'ultima pagina è struggente, le parole di
chi se l'è presa nel culo e sa di non poterci fare nulla, perché ormai è troppo
vecchio per agire. Uomini ex. "Ex tutto".
C'è qualcosa però che stona. Qualcosa di
anacronistico. La coscienza non "ortodossa" di chi scrive poteva
essere condivisa dai protagonisti di quell'avventura? Lo sguardo di un non
comunista come Fiori può aver visto quello che voleva vedere: uomini-ex,
appunto. Ma loro si considerano davvero così? Pensano davvero di aver lottato e
rischiato per niente?
Giuseppe Fiori. L'ex-senatore della sinistra
indipendente è un accento sardo, sveglio e gentile, all'altro capo del
telefono. Il numero me l'ha dato l'ufficio stampa della sua casa editrice. E'
bastato spacciarsi per giornalista.
E' più che disponibile a parlare di quello
che sa. Ha cominciato a raccogliere materiale sui profughi politici italiani in
Cecoslovacchia fino dai primi anni Sessanta. Il suo romanzo è stato pubblicato
nel 1993. Trent'anni di ricerche, interviste, viaggi a Praga. Ha intervistato
anche il capo della Volante Rossa, Giulio Paggi, il leggendario comandante
"Alvaro".
Mi dice che allora in Cecoslovacchia ci
andavi solo attraverso i canali del partito. Se eri comunista a meno che non
fossi deputato, dovevi uscire clandestinamente dall'Italia, perché era
difficile che ti concedessero il passaporto. Anche per entrare in un paese
dell'est occorreva un visto. Figurarsi se avevi pendenze con la giustizia.
Il partito forniva i documenti falsi,
l'organizzazione d'appoggio e il collocamento in Cecoslovacchia. Ti procurava
un alloggio e un lavoro adatto alle tue capacità. Gli "intellettuali"
erano in forza a Oggi in Italia, programmazione del pci che s'appoggiava a Radio Praga,
bollettino in italiano dalla terra del socialismo. Spesso le notizie
raggiungevano l'Italia di rimbalzo, sfuggendo alla censura nostrana, come per
esempio nel '60, durante i moti contro il governo Tambroni.
Gli illetterati venivano mandati a lavorare
in campagna o nelle fabbriche ceche. Tutti gli esuli erano comunque più che
tutelati dal partito. Erano controllati. Il pci
aveva una vera e propria succursale in Cecoslovacchia, con i suoi commissari
politici e tutto il resto. I cechi offrivano ospitalità, ma a loro volta
sorvegliavano la comunità degli esuli, percepita comunque come un corpo se non
proprio estraneo, quanto meno straniero, quindi non sottoposto all'autorità del
partito comunista cecoslovacco. L'autonomia degli italiani era vista con
diffidenza. E a loro volta gli italiani svilupparono subito una forma di difesa
comunitaria. Per quanto molti di loro si sposarono con ragazze cecoslovacche,
Fiori definisce quella italiana una "comunità monastica". Con tutti i
pro e i contro che questo poteva comportare: idiosincrasie, antipatie
personali, gelosie dovute alla convivenza forzata in un paese straniero; lo
spirito di corpo e la condivisione del medesimo destino facevano da
contraltare.
Poi ci sono i suicidi. Non furono casi
isolati: la lontananza dalle famiglie, per chi già le aveva, la disillusione
sul socialismo reale, il senso di isolamento. Suicidi. Per qualcuno addirittura
l'ombra di una mano esterna.
Chiedo spiegazioni: nel romanzo Fiori sembra
quasi alludere a omicidi.
Risponde secco: no, assolutamente. Con quel
velo di sospetto voleva soltanto dare l'idea del deterioramento del clima in
quella strana comunità. Invidie, odii incrociati, perfino spionaggio, certo. Ma
eliminazioni, no. Ne avrebbe almeno avuto il sentore, in trent'anni di ricerche
e conoscenza intima con i superstiti di quell'esperienza. Invece non si è mai
imbattuto in niente del genere.
Spionaggio sì, tre membri della comunità
italiana furono reclutati dalla polizia segreta cecoslovacca come informatori.
Comunisti italiani che spiavano comunisti italiani.
Dalla Cecoslovacchia sono tornati a
scaglioni e alcuni non sono mai tornati. La prima amnistia per i fatti di
sangue del dopoguerra è del '59. Ma per le situazioni più gravi ci vorrà
l'elezione di un presidente della repubblica ex-partigiano, Sandro Pertini, e
l'intercessione presso di lui di Arrigo Boldrini "Bulow", presidente
nazionale dell'Anpi, per ottenere l'amnistia. 1978. Trent'anni dopo.
Ma per altri non c'è amnistia che tenga. Al
comandante "Alvaro" l'Italia rimane preclusa per sempre, come
ai Savoia. Vive ancora a Praga.
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