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Sentieri dell'odio
(Dopoguerra)
Quando terminai la quinta elementare, nel
‘47, il maestro Gaddoni desiderava che continuassi a studiare, perché imparavo
tutto senza fatica e sognavo di proseguire la scuola. Sapevo bene che non era
possibile, tuttavia il maestro fece un tentativo per convincere mia madre. Andò
da lei, ma si rese subito conto che il suo desiderio non era realizzabile. Mia
madre era molto malata, presto sarebbe entrata in sanatorio, e anche io,
insieme a mio padre e ai fratelli più grandi, avrei dovuto lavorare a tempo pieno
per mantenere la famiglia.
Volevo molto bene a quel maestro, era un
repubblicano, e aveva combattuto nell'esercito di liberazione insieme agli
alleati. Quando ci spiegava la storia del Risorgimento, gli brillavano gli
occhi, la voce si strozzava, e io rivivevo le emozioni di tre anni prima e gli
eventi che avevano sconvolto la mia vita. Una volta si accorse che piangevo,
con la testa appoggiata al banco, e nei mesi successivi trovò il modo di
incontrarmi, a casa sua, e di farsi raccontare tutto quello che avevo
visto e patito.
Intanto Pirì Bérba mi aveva presentato il
titolare della migliore falegnameria di Imola. Quando andai a casa sua, mi fece
sedere a tavola e ordinò alla moglie di portare una cioccolata in tazza. «Mi
chiamo Sangiorgi Giuseppe » cominciò «ma quando ti assumerò mi chiamerai
signor Pippo. Non appena avrai finito la scuola, vieni da me, ti insegnerò a
costruire i mobili». Il signor Pippo aveva parlato di me con Toni, conosceva
bene mia madre e il calvario della nostra famiglia. Volle allora che gli
raccontassi la mia storia. Io cominciai dai mesi passati sulla riva del Senio,
ma dopo qualche frase non mi riuscì più di continuare, chinai la testa sul
tavolo e piansi. Quando mi ripresi, vidi che anche loro piangevano come bimbi.
Era difficile non commuoversi: andavo in giro in mezzo alla neve con un paio di
sandali fatti con un pattino da carro armato, stretto con i cinturini di uno
zaino. I calzini, pieni di buchi, erano cuciti col filo di un telo militare. La
stoffa dei pantaloni corti veniva da una vecchia coperta ruvida, e mi segava le
gambe ad ogni passo.
All'inizio non ero molto contento di andare
a lavorare dal signor Pippo, perché era stato fascista, anche se non aveva mai
fatto del male a nessuno. Sapevo però che in quella falegnameria potevo
imparare il mestiere davvero bene. Il lavoro infatti era faticoso, ma ben
ripagato dagli insegnamenti degli artigiani più anziani.
Il signor Pippo era un omone di un metro e
novanta, col viso burbero e amava apparire più severo di quanto non fosse. Sul
lavoro non esitava a prendere a pedate anche agli operai più adulti. Quando si
arrabbiava metteva le mani nei capelli e alzando gli occhi al cielo esclamava:
« Santi Numi! Sol mè inteligèt.»
[Santi numi! Solo io intelligente.]. Poi partiva lo scapaccione o la
pedata, a seconda della posizione del malcapitato.
In realtà era molto generoso e attento,
sempre pronto ad aiutare i dipendenti in difficoltà. Quando la vecchiaia lo
costrinse a chiudere, sistemò tutti i suoi artigiani nelle migliori ditte del settore.
Mi voleva molto bene e fu uno dei pochi a interessarsi alle vicende della mia
famiglia. L'anno successivo mi iscrissi alla scuola di musica per imparare a
suonare la tromba. Lo trovai al saggio finale, seduto nel posto d'onore,
quale presidente onorario e benefattore della scuola. Alla fine
dell'esecuzione, mi strinse la mano come se non mi conoscesse, ma io capii che
era orgoglioso, e ne fui felice.
Oltre al lavoro da Sangiorgi, cercavo mobili
da lucidare e mettere a posto per conto mio. Non avevo tempo per il riposo e le
amicizie, mi serviva qualche soldo in più per le mie spese e inoltre mandavo
sempre qualcosa a Domenico, nel sanatorio di Montecatone, per comprarsi le
sigarette e giocare a carte con i compagni.
Mentre mi stordivo a portare avanti quella
vita, tornavo con la mente ai giorni della guerra. Avevo diviso con mia madre
pericoli di ogni tipo, ma li avevamo superati e rivivere quei momenti mi faceva
sentire più vicino a lei. Mi mancava molto: per me era una presenza
insostituibile.
Rimpiangevo le emozioni e i pericoli della
Linea Gotica, i bombardamenti interminabili, le corse, i detriti sul corpo,
l'odore delle esplosioni e il soffio delle granate. Sul nostro Little Big River
eravamo stati qualcuno, avevamo rischiato la vita per gente che conoscevamo
appena. Ora eravamo noi ad avere bisogno, ma a parte due o tre persone
impietosite, nessuno ci offriva una mano: contava solo la voglia di vivere e
gettarsi le sofferenze alle spalle. Anche quelle altrui.
La paura del contagio ci aveva fatto il
vuoto attorno. Eravamo una famiglia di tisici, avvicinarci era un rischio. Io
ero sano, ma non importava, il panico non fa distinzioni. Appena entravo
in un negozio, le donne portavano il fazzoletto alla bocca e si sbrigavano a
uscire.
Ogni sera, quando rincasavo stanco morto,
ricadevo in una grande tristezza, perché c'era sempre poco da mangiare. La
rabbia mi riempiva. Avrei voluto impugnare la pistola e andare da quelli che la
fame non l'avevano mai conosciuta.
Giravo con gli abiti scalcagnati, ma avevo
la mania di essere pulito. Ogni sera, finito il lavoro, mi lavavo dentro il
catinone, il recipiente di zinco usato per portare i panni al lavatoio. La cura
personale tuttavia, non bastava a rendermi accettabile e ogni volta che trovavo
una fidanzatina, non appena scopriva chi ero e dove abitavo, cercava subito una
scusa per troncare il rapporto.
A forza di lucidare mobili però, riuscii
anche a rinnovare il guardaroba: pantaloni lunghi color nocciola, camicia di
seta verde e mocassini. Visto che le ragazzine delle mia età facevano le
schizzinose, con quei vestiti avrei fatto colpo sulla Marisona, una prostituta
di trentacinque anni, molto formosa, che non vedeva l'ora di sverginarmi. Più
volte mi aveva invitato a casa sua, con la scusa di alcuni mobili da
lucidare. Mi mancavano ancora profumo, brillantina, spazzolino e dentifricio,
una saponetta vera e un paio di mutande per sostituire le mie, fatte con due
pezzi di stoffa, bianche davanti e a righe dietro. Solo allora sarei stato
pronto.
La fortuna mi aiutò e trovai da lucidare i
mobili di un'intera stanza. Con il ricavato completai i preparativi.
Mi appostai alcune ore sotto casa sua,
fingendo poi di incontrarla per caso. Lei quasi non mi riconobbe, talmente ero
tirato a lucido. Mi fece molti complimenti e mi invitò all'osteria per offrirmi
un bicchiere di vermut. Mentre brindavamo al mio perfetto abbigliamento
esclamò: «C'è bèl cmé un zucaré, vén mò, c'at fag avdé la ròba che t'am è da
lustré.» [Sei bello come uno zuccherino, vieni che ti faccio vedere
la roba che mi devi lucidare]. Subito gli avventori adulti si lasciarono andare
a commenti osceni, perché capivano cosa sarebbe successo.
Andammo a casa sua e in un attimo fu tutta
nuda. Io ero molto emozionato, tremavo, ma lei seppe guidarmi, mi prese tra le
braccia e spense la luce.
Capendo quant'ero eccitato, mi insegnò
subito un metodo per durare di più e prolungare il piacere. Dovevo fissare la
mente altrove, senza concentrarmi troppo sul suo corpo, ma col pensiero rivolto
a cose tristi che mi erano successe.
Seguii il consiglio. Nel giro di dieci
minuti avevo gli occhi pieni di lacrime e non ero più in grado di continuare.
Allora la Marisona mi suggerì di scegliere vicende meno drammatiche e di
rimuginarle con minore intensità.
Funzionò molto bene. Era la prima volta che
le disgrazie di famiglia mi procuravano piacere.
Così, a tredici anni, ebbi la prima
esperienza sessuale con una donna di vent'anni più vecchia. Non avevo potuto
vivere il mondo dei giochi e delle favole, ma la nuova stagione mi pareva ancor
più interessante. Quella donna era la riscossa e il paradiso. In pochi mesi mi
ritrovai innamorato.
Il ripetersi di quegli incontri, a cui
spesso partecipava anche un'altra signora, ebbe su di me un effetto devastante.
Quando la mattina andavo al lavoro ero distrutto e mi trascinavo per la
falegnameria. Un giorno che arrancavo più del solito, il capofficina
disse a un altro operaio: «Guérda alè, us fa la gambarèla a forza ed tirés
dal ségh.» [Guarda lì, non si regge in piedi a forza di farsi delle seghe].
Io gli risposi con tono di sfida: «Caro Marchetti, credo che tu in tutta la
vita non hai fatto di sicuro quel che ho fatto io stanotte.»
Da come mi guardarono, dovevo essere stato
molto convincente, e non ebbero più dubbi sui motivi della mia stanchezza.
Alcuni anni dopo, siccome vengo da una
famiglia generosa, pensai di condividere la mia fortuna anche con gli amici e
decisi che a sverginarli ci avrebbe pensato la Marisona. Con uno di loro, in
realtà, ci aveva già provato un'impiegata del casino di Massalobarda, detta
Lingua di Velluto (trecentocinquanta colpi al minuto). Io gli avevo fatto
coraggio e lo avevo accompagnato fin là, ma lui forse non era pronto per le
gioie del sesso. Rimase su una decina di minuti, insieme a questo donnone
immenso, e quando scese era tutto pallido e scombussolato. Non volle mai dirmi
che cosa successe in quella stanza. Comunque, aspettò qualche anno prima di ritentare.
I genitori di uno di noi avevano trovato una
casa fuori Imola ma continuavano a tenere anche quella di città, che restava
sempre vuota. Decidemmo di utilizzarla per i nostri scopi.
Stendemmo quattro materassi nel salone
principale, accendemmo la stufa a carbone e io andai a chiamare la Marisona. Aveva
appena finito di fare marchette, ma eccitata dall'idea di intrattenere quattro
ragazzini, rispose che si sarebbe fatta una doccia e ci avrebbe raggiunto.
Arrivò avvolta nella pelliccia. Ce la
spalancò di fronte e sotto era nuda. I miei amici, nudi anche loro, sdraiati
sui materassi, accolsero il gesto con grida d'apprezzamento. La Marisona
cominciò subito a darsi da fare con la bocca. Per non farle sentire freddo io
andavo e venivo dalla stufa, scaldandomi le mani e applicandogliele come
impacchi su tutto il corpo. Dopo che anche l'ultimo fu servito, la mia donna si
fermò per "prendere fiato". Si mise a sedere, diede due tiri di
sigaretta e via, era pronta per ripartire, e io sempre dietro, a scaldarle la
schiena mentre lei si occupava dei miei quattro amici.
Dopo quell'esperienza, sempre per il piacere
di condividere, istruii Giorgio su come far godere le donne grazie al
metodo Marisona. Mi confidò che la cosa più triste che fosse mai capitata alla
sua famiglia era stata la foratura di una gomma della bicicletta del padre a
dieci chilometri da casa.
Lo fissai per un attimo.
Se le sue disgrazie erano tutte lì,
poteva continuare con le pugnette e le donne di Imola non ci avrebbero
perso granché.
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