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Bologna, 7 febbraio 2000
Attraversando il ponte sul Reno, lungo la
strada che riporta in città, scopro di aver già dimenticato nome e cognome
della persona con cui ho parlato nelle ultime tre ore. Non mi stupisco, lui
stesso mi aveva avvertito: «Se ti capita di dire in giro che mi hai conosciuto,
non usare mai il nome per intero, non se lo ricorda nessuno. Io sono Mirco, per
tutti.»
Venne ribattezzato così in ricordo di un
partigiano jugoslavo. Aveva solo sedici anni ed era nel gruppo che per primo
salì in montagna, a Cortecchio, per combattere tedeschi e fascisti. Venivano da
Bologna, dalle campagne intorno a Imola, da Riolo e dal Basso Ravennate. Non
disse niente alla famiglia: preparò lo zaino e un pomeriggio di gennaio lasciò
Bubano insieme a un amico. Si accorse ben presto di essere il più giovane della
brigata.
Giorni fa, al telefono, gli ho raccontato di
Soviet, ricordava la storia. Ha chiesto cosa mi interessasse sapere, mettendo
subito le cose in chiaro. Dopo la Liberazione, Mirco appoggiò la linea del
Partito: "democrazia progressiva", rinuncia alla lotta armata e
amnistia, per cucire le ferite aperte del Dopoguerra. Ho risposto che non
volevo un giudizio politico, ma una testimonianza e qualche racconto.
Persecuzioni giudiziarie ed espatri, il ritorno alla normalità dei reduci della
montagna, cosa significava in quegli anni "aver fatto la
Resistenza". Insomma, l'ho convinto.
Ci siamo dati appuntamento alla biblioteca
comunale di Casalecchio. L'ho riconosciuto subito: in mezzo ai molti ragazzi
intenti a studiare, l'unico anziano in piedi, accanto alla porta. Sguardo
vivace, capelli bianchi pettinati all'indietro, occhi azzurri e il tipico
accento delle terre romagnole.
Mi ha accolto come fosse il padrone di casa,
e ne ho dedotto che da queste parti Mirco dev'essere una specie di celebrità,
uno da salutare per strada. Certo, fuori dalle grandi città il ricordo della
Resistenza è rimasto più vivo, ma non c'è solo questo a fare di Graziano Zappi
- ecco il nome - un personaggio speciale.
La direttrice, con molta premura, ci ha
riservato un tavolo del suo ufficio più due sedie, perché potessimo parlare
tranquilli. Dopo le presentazioni, Mirco si è subito scusato di non avermi
invitato a casa sua.
«Sai, non c'è troppo spazio da me, sto
ospitando Antonio Gramsci.»
Ho pensato che mi prendesse in giro.
«Antonio Gramsci?»
«Sì, il nipote di Gramsci, si chiama Antonio
anche lui. E' un ragazzo giovane, vive in Unione Sovietica. E' in Italia per
una conferenza e dorme da me.»
Partigiani ed espatriati sono passati subito
in secondo piano. Ho chiesto a Mirco come facesse a conoscere la famiglia
Gramsci.
«Ho avuto molti rapporti con l'Unione
Sovietica» è stata la spiegazione «A fine anni Cinquanta sono stato nella
redazione italiana di Radio Mosca, poi ho fatto il traduttore dal russo per le edizioni
Progress e l'accompagnatore delle delegazioni pcus
ai congressi del pci.»
Ha sorriso del mio stupore, fiutando la
domanda successiva.
«Hai vissuto molto tempo nei paesi
dell'Est?»
«Dieci anni. Cecoslovacchia, urss, Germania Est e poi di nuovo urss.»
All'origine di questi espatri ci sono spesso
vicende che non si raccontano al primo venuto. Così, ho provato ad aggirare la
domanda diretta, ma Mirco ha capito subito.
«No, non sono stato là per via della
giustizia. Era il ‘56 quando sono arrivato a Praga, è stata una proposta del
Partito che io ho accolto con piacere.»
Ho deciso di farmi raccontare tutto
dall'inizio.
«Come hai fatto ad arrivare in
Cecoslovacchia, avevi un permesso?»
« No, le autorità italiane rilasciavano il
visto solo ai diplomatici. Quella volta sono passato dalla Svizzera: treno fino
a Zurigo e poi aereo per Praga. Gli anni prima, però, era più difficile.»
«Sei stato a Praga anche prima?»
«Non a Praga, a Berlino, nel '51, per il Festival
Mondiale della Gioventù. Andammo in treno fino a Vienna. La città allora era
sotto l'amministrazione quadripartita: una zona agli alleati, una ai sovietici.
Scendemmo nella parte russa e da lì prendemmo un treno per l'Est. Al ritorno, i
doganieri italiani immaginavano benissimo dov'eravamo stati, ma non potevano
dimostrarlo. Allora, per punirci, tassarono qualsiasi cosa avessimo con noi,
persino i souvenir. Ci trattennero quasi quattro ore.»
«E come facevano a sapere che venivate da
Berlino Est?»
«Lo sapevano. La polizia a quei tempi sapeva
tutto. Pensa che negli anni Sessanta ho chiesto il rinnovo del passaporto e
sono stato chiamato in questura. Mi hanno ricattato: il rinnovo in cambio di
alcune informazioni sulle divergenze tra Amendola e Berlinguer. Cosa vuoi che
ne sapessi! Dissero che allora il documento sarebbe rimasto da loro per un po',
perché tanto mi serviva solo per andare a Mosca. Gli dissi che non era vero,
che non c'ero mai stato. Allora mi mostrarono una cartelletta grossa così: "Questo
è il suo fascicolo, signor Zappi: ci sono anche le bobine dei suoi interventi a
Radio Mosca."»
«E tu cos'hai fatto?»
«Cosa vuoi che facessi, gli ho chiesto se
tenevano delle cartellette così solo per noi rossi o se ne avevano anche per
gli altri. Risposero che sì, ce le avevano, ma le nostre erano più grosse.»
Stavamo già divagando. Gli aneddoti di Mirco
mi hanno subito affascinato, e così il modo di raccontare condito ora da un
acuto di voce, ora da una risata sommessa. Con uno sforzo, ho placato la curiosità,
per tornare alle domande previste.
«Hai mai sentito parlare di un partigiano
romagnolo che è andato a combattere in Indocina?»
Non si è scomposto: «In che anni, scusa?»
«Negli anni Cinquanta.»
«Non saprei, gli italiani laggiù erano quasi
tutti legionari…»
«Legione Straniera, sì, lo so. Ma io sto
parlando di uno che ha combattuto contro i francesi.»
«Ah, insieme al Vietminh? Guarda, negli anni
Sessanta, alle Frattocchie, ho sentito dire da qualcuno del Partito che c'erano
degli italiani con Ho Chi Minh. Ma i vietnamiti preferivano che i compagni
occidentali restassero a far propaganda nei loro paesi contro l'intervento
americano, piuttosto che inviare uomini e armi. Di quelli ne avevano a
volontà.»
Ho capito subito che Mirco mi avrebbe dato
informazioni interessanti. Non è "solo" un ex-partigiano: ha lavorato
a Mosca, conosce il russo, ha fatto da interprete a pezzi grossi del PCUS. Non
potevo accontentarmi di un generico "Hai mai sentito parlare di",
dovevo ricavare un giudizio sulla verosimiglianza di tutta la vicenda.
«A te sembra possibile che un partigiano
arrivi fino in Indocina? E come?»
«Possibile è possibile. Pensa che mentre
stavo a Mosca dei compagni faentini mi hanno chiesto di indagare presso il kgb su un compagno romagnolo che si
diceva avesse combattuto con Che Guevara. E pare ci fosse un italiano anche sul
Granma, la nave di Fidel Castro che sbarcò a Cuba dal Messico. Quindi, è
possibile. Però, doveva avere qualcuno dietro.»
«Per esempio il pci?»
«Non credo, non l'ho mai sentito dire. In
quegli anni il pci organizzava
l'espatrio in Cecoslovacchia, nient'altro. Può darsi c'entrasse il pcus, all'insaputa dei compagni
italiani. Non credo fosse possibile arrivare fin là dall'Italia senza che il pcus ci mettesse becco. Poi chissà,
magari mi sbaglio, ma forse allora c'era un canale dei cinesi attraverso
l'Albania, non saprei.»
Più in là di così, non ha voluto spingersi,
ma è partito in quarta con una lunga digressione sul comunismo albanese, Enver
Hoxha e una compagna di Tirana conosciuta a Mosca che rifiutava di ballare il
rock'n'roll, in quanto musica imperialista.
Da lì, non saprei come, siamo poi ritornati
in Italia, alle gesta memorabili dei partigiani più coraggiosi.
«Luigi Tinti, detto Bob, era il comandante
della Trentaseiesima. Mi trattava come un fratello minore, diceva che gli
portavo fortuna, ero la sua mascotte. Lo ammiravo perché era audace, scaltro e
senza paura. Un uomo d'azione, insomma, pronto a rischiare la pelle. Uno che
non stava mai con le mani in mano: anche nei momenti di relativa tranquillità,
trovava sempre qualcosa da fare. Rifornimenti, requisizioni, imboscate.»
«Sei rimasto con lui fino alla Liberazione?»
«No. Verso fine maggio ‘44 mio padre riuscì
a rintracciarmi. Io non volevo tornare a Bubano, ma lui convinse Bob a
concedermi una licenza premio. A casa, tutta la famiglia insisteva perché
lasciassi la brigata. C'era una specie di amnistia per i ribelli che si
presentavano ai carabinieri entro il 25 maggio. Io non sapevo di quella
amnistia. Mio padre mi disse che era riuscito a commuovere il maresciallo col
motivo che avevo solo sedici anni. Alla fine ho ceduto. Ma non mi sono arreso:
a giugno ero già nella VIIa gap,
il corpo speciale dei partigiani di pianura. Fui anche arrestato dalla Gestapo
ma riuscii a fuggire. Poi presero mio padre come ostaggio ma per fortuna anche
lui riuscì a svignarsela durante un bombardamento. Ci spettavano le azioni più
rischiose: attacco a camion tedeschi, disarmo dei nemici, eliminazione di spie.
Ho anche ritrovato Lino Balbi "Pucci" un coetaneo che avevo
conosciuto sul Falterona, per poi perderlo di vista nel grande rastrellamento
di aprile. Pucci era un gappista coraggiosissimo, abituato al rischio e alle
azioni spericolate: l'incubo della Brigata Nera imolese. Cercarono pure di
fucilarlo, ma riuscì a salvarsi per miracolo, tuffandosi nel fiume un attimo
prima che il plotone sparasse.»
Pucci, Bob e chissà quanti altri. Ho dovuto
restringere il campo. Testimonianze sugli irriducibili, su chi non ha abbassato
le armi e ha continuato a uccidere, gente con esperienze di espatrio e di
esilio, uomini incapaci di adattarsi alla "democrazia progressiva" o
perseguitati dalla giustizia. Mirco non ha avuto esitazioni.
«Ne conosco diversi. Uno era Teo, adesso non
mi ricordo il nome "civile", che dopo la guerra se ne andò in
Cecoslovacchia. Era un cane sciolto, un vero ribelle, uno che sopportava a
fatica la disciplina della Brigata.»
«E lo sapresti rintracciare?»
«Si è sparato, mi pare fosse il '67, quando
i medici gli hanno diagnosticato un tumore.»
Un attimo di silenzio poi, senza bisogno di
domande, Mirco ha ripreso a parlare.
«C'è Avio. Anche lui dopo la guerra
dovette andarsene in Cecoslovacchia e poi in URSS, ma lui sta ancora in Russia.
Poi c'è Bill che è delle mie parti: è stato a Praga tanti anni. Ce ne sono
molti altri, comunque, che non erano con me in Brigata. Alcuni stanno qui in
paese. Anzi guarda, è appena mezzogiorno, forse facciamo in tempo a farne
venire uno.»
Mirco si è fatto passare il telefono e ha
composto un numero. All'altro capo del filo, un amico reticente.
«Ma no, figurati, non vogliamo mica sapere i
motivi per cui sei dovuto scappare, ci mancherebbe. Al ragazzo interessano i
particolari sull'espatrio, la vita da esule politico, le difficoltà che avete
incontrato…Non vuoi proprio parlare? Va bene, capisco, grazie lo stesso.»
Ha riattaccato, ma non si è arreso. Ha
sollevato di nuovo la cornetta e dopo essersi un po' imbrogliato coi tasti mi
ha passato il ricevitore.
«Tieni, fai tu. Lui si chiama Vittorio
Caffeo. Digli che hai parlato con me.»
Una voce sottile, con un che di malinconico,
ha risposto alla chiamata.
«Vittorio Caffeo?»
«Sì, sono io.»
Il nome di Mirco ha sciolto ogni
perplessità, ha capito subito cosa m'interessava e si è detto disponibile per
una chiacchierata. Senza esitazioni, è partito dagli aspetti più amari.
«L'inizio non è stato per niente facile. Non
ci avevano detto come stavano le cose. Ci hanno messo a lavorare in campagna, al
freddo. Io non avevo mai fatto il contadino, capisci?»
L'ho fermato subito: cose da raccontare con
più calma. «Mi piacerebbe molto conoscerla per parlare di tutto questo.
Possiamo darci un appuntamento?»
«D'accordo» ha risposto «Verrà anche Mirco,
vero?»
Fissati giorno e ora e terminata la
conversazione, ho girato la domanda all'interessato.
Mirco ha allargato le braccia e sorriso,
niente in contrario.
Sono sicuro che il Vietcong romagnolo
interessa anche a lui.
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