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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 25 Bologna, 7 febbraio 2000
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25

Bologna, 7 febbraio 2000

 

 

Attraversando il ponte sul Reno, lungo la strada che riporta in città, scopro di aver già dimenticato nome e cognome della persona con cui ho parlato nelle ultime tre ore. Non mi stupisco, lui stesso mi aveva avvertito: «Se ti capita di dire in giro che mi hai conosciuto, non usare mai il nome per intero, non se lo ricorda nessuno. Io sono Mirco, per tutti.»

Venne ribattezzato così in ricordo di un partigiano jugoslavo. Aveva solo sedici anni ed era nel gruppo che per primo salì in montagna, a Cortecchio, per combattere tedeschi e fascisti. Venivano da Bologna, dalle campagne intorno a Imola, da Riolo e dal Basso Ravennate. Non disse niente alla famiglia: preparò lo zaino e un pomeriggio di gennaio lasciò Bubano insieme a un amico. Si accorse ben presto di essere il più giovane della brigata.

Giorni fa, al telefono, gli ho raccontato di Soviet, ricordava la storia. Ha chiesto cosa mi interessasse sapere, mettendo subito le cose in chiaro. Dopo la Liberazione, Mirco appoggiò la linea del Partito: "democrazia progressiva", rinuncia alla lotta armata e amnistia, per cucire le ferite aperte del Dopoguerra. Ho risposto che non volevo un giudizio politico, ma una testimonianza e qualche racconto. Persecuzioni giudiziarie ed espatri, il ritorno alla normalità dei reduci della montagna,  cosa significava in quegli anni "aver fatto la Resistenza". Insomma, l'ho convinto.

Ci siamo dati appuntamento alla biblioteca comunale di Casalecchio. L'ho riconosciuto subito: in mezzo ai molti ragazzi intenti a studiare, l'unico anziano in piedi, accanto alla porta. Sguardo vivace, capelli bianchi pettinati all'indietro, occhi azzurri e il tipico accento delle terre romagnole.

Mi ha accolto come fosse il padrone di casa, e ne ho dedotto che da queste parti Mirco dev'essere una specie di celebrità, uno da salutare per strada. Certo, fuori dalle grandi città il ricordo della Resistenza è rimasto più vivo, ma non c'è solo questo a fare di Graziano Zappi - ecco il nome - un personaggio speciale.

La direttrice, con molta premura, ci ha riservato un tavolo del suo ufficio più due sedie, perché potessimo parlare tranquilli. Dopo le presentazioni, Mirco si è subito scusato di non avermi invitato a casa sua.

«Sai, non c'è troppo spazio da me, sto ospitando Antonio Gramsci

Ho pensato che mi prendesse in giro. «Antonio Gramsci

«Sì, il nipote di Gramsci, si chiama Antonio anche lui. E' un ragazzo giovane, vive in Unione Sovietica. E' in Italia per una conferenza e dorme da me.»

Partigiani ed espatriati sono passati subito in secondo piano. Ho chiesto a Mirco come facesse a conoscere la famiglia Gramsci.

«Ho avuto molti rapporti con l'Unione Sovietica» è stata la spiegazione «A fine anni Cinquanta sono stato nella redazione italiana di Radio Mosca, poi ho fatto il traduttore dal russo per le edizioni Progress e l'accompagnatore delle delegazioni pcus ai congressi del pci

Ha sorriso del mio stupore, fiutando la domanda successiva.

«Hai vissuto molto tempo nei paesi dell'Est?»

«Dieci anni. Cecoslovacchia, urss, Germania Est e poi di nuovo urss

All'origine di questi espatri ci sono spesso vicende che non si raccontano al primo venuto. Così, ho provato ad aggirare la domanda diretta, ma Mirco ha capito subito.

«No, non sono stato per via della giustizia. Era il ‘56 quando sono arrivato a Praga, è stata una proposta del Partito che io ho accolto con piacere

Ho deciso di farmi raccontare tutto dall'inizio

«Come hai fatto ad arrivare in Cecoslovacchia, avevi un permesso

« No, le autorità italiane rilasciavano il visto solo ai diplomatici. Quella volta sono passato dalla Svizzera: treno fino a Zurigo e poi aereo per Praga. Gli anni prima, però, era più difficile

«Sei stato a Praga anche prima?»

«Non a Praga, a Berlino, nel '51, per il Festival Mondiale della Gioventù. Andammo in treno fino a Vienna. La città allora era sotto l'amministrazione quadripartita: una zona agli alleati, una ai sovietici. Scendemmo nella parte russa e da prendemmo un treno per l'Est. Al ritorno, i doganieri italiani immaginavano benissimo dov'eravamo stati, ma non potevano dimostrarlo. Allora, per punirci, tassarono qualsiasi cosa avessimo con noi, persino i souvenir. Ci trattennero quasi quattro ore

«E come facevano a sapere che venivate da Berlino Est?»

«Lo sapevano. La polizia a quei tempi sapeva tutto. Pensa che negli anni Sessanta ho chiesto il rinnovo del passaporto e sono stato chiamato in questura. Mi hanno ricattato: il rinnovo in cambio di alcune informazioni sulle divergenze tra Amendola e Berlinguer. Cosa vuoi che ne sapessi! Dissero che allora il documento sarebbe rimasto da loro per un po', perché tanto mi serviva solo per andare a Mosca. Gli dissi che non era vero, che non c'ero mai stato. Allora mi mostrarono una cartelletta grossa così: "Questo è il suo fascicolo, signor Zappi: ci sono anche le bobine dei suoi interventi a Radio Mosca."»

«E tu cos'hai fatto

«Cosa vuoi che facessi, gli ho chiesto se tenevano delle cartellette così solo per noi rossi o se ne avevano anche per gli altri. Risposero che sì, ce le avevano, ma le nostre erano più grosse

Stavamo già divagando. Gli aneddoti di Mirco mi hanno subito affascinato, e così il modo di raccontare condito ora da un acuto di voce, ora da una risata sommessa. Con uno sforzo, ho placato la curiosità, per tornare alle domande previste.

«Hai mai sentito parlare di un partigiano romagnolo che è andato a combattere in Indocina

Non si è scomposto: «In che anni, scusa

«Negli anni Cinquanta

«Non saprei, gli italiani laggiù erano quasi tutti legionari…»

«Legione Straniera, sì, lo so. Ma io sto parlando di uno che ha combattuto contro i francesi

«Ah, insieme al Vietminh? Guarda, negli anni Sessanta, alle Frattocchie, ho sentito dire da qualcuno del Partito che c'erano degli italiani con Ho Chi Minh. Ma i vietnamiti preferivano che i compagni occidentali restassero a far propaganda nei loro paesi contro l'intervento americano, piuttosto che inviare uomini e armi. Di quelli ne avevano a volontà

Ho capito subito che Mirco mi avrebbe dato informazioni interessanti. Non è "solo" un ex-partigiano: ha lavorato a Mosca, conosce il russo, ha fatto da interprete a pezzi grossi del PCUS. Non potevo accontentarmi di un generico "Hai mai sentito parlare di", dovevo ricavare un giudizio sulla verosimiglianza di tutta la vicenda.

«A te sembra possibile che un partigiano arrivi fino in Indocina? E come?»

«Possibile è possibile. Pensa che mentre stavo a Mosca dei compagni faentini mi hanno chiesto di indagare presso il kgb su un compagno romagnolo che si diceva avesse combattuto con Che Guevara. E pare ci fosse un italiano anche sul Granma, la nave di Fidel Castro che sbarcò a Cuba dal Messico. Quindi, è possibile. Però, doveva avere qualcuno dietro.»

«Per esempio il pci

«Non credo, non l'ho mai sentito dire. In quegli anni il pci organizzava l'espatrio in Cecoslovacchia, nient'altro. Può darsi c'entrasse il pcus, all'insaputa dei compagni italiani. Non credo fosse possibile arrivare fin dall'Italia senza che il pcus ci mettesse becco. Poi chissà, magari mi sbaglio, ma forse allora c'era un canale dei cinesi attraverso l'Albania, non saprei

Più in di così, non ha voluto spingersi, ma è partito in quarta con una lunga digressione sul comunismo albanese, Enver Hoxha e una compagna di Tirana conosciuta a Mosca che rifiutava di ballare il rock'n'roll, in quanto musica imperialista.

Da , non saprei come, siamo poi ritornati in Italia, alle gesta memorabili dei partigiani più coraggiosi.

«Luigi Tinti, detto Bob, era il comandante della Trentaseiesima. Mi trattava come un fratello minore, diceva che gli portavo fortuna, ero la sua mascotte. Lo ammiravo perché era audace, scaltro e senza paura. Un uomo d'azione, insomma, pronto a rischiare la pelle. Uno che non stava mai con le mani in mano: anche nei momenti di relativa tranquillità, trovava sempre qualcosa da fare. Rifornimenti, requisizioni, imboscate

«Sei rimasto con lui fino alla Liberazione

«No. Verso fine maggio ‘44 mio padre riuscì a rintracciarmi. Io non volevo tornare a Bubano, ma lui convinse Bob a concedermi una licenza premio. A casa, tutta la famiglia insisteva perché lasciassi la brigata. C'era una specie di amnistia per i ribelli che si presentavano ai carabinieri entro il 25 maggio. Io non sapevo di quella amnistia. Mio padre mi disse che era riuscito a commuovere il maresciallo col motivo che avevo solo sedici anni. Alla fine ho ceduto. Ma non mi sono arreso: a giugno ero già nella VIIa gap, il corpo speciale dei partigiani di pianura. Fui anche arrestato dalla Gestapo ma riuscii a fuggire. Poi presero mio padre come ostaggio ma per fortuna anche lui riuscì a svignarsela durante un bombardamento. Ci spettavano le azioni più rischiose: attacco a camion tedeschi, disarmo dei nemici, eliminazione di spie. Ho anche ritrovato Lino Balbi "Pucci" un coetaneo che avevo conosciuto sul Falterona, per poi perderlo di vista nel grande rastrellamento di aprile. Pucci era un gappista coraggiosissimo, abituato al rischio e alle azioni spericolate: l'incubo della Brigata Nera imolese. Cercarono pure di fucilarlo, ma riuscì a salvarsi per miracolo, tuffandosi nel fiume un attimo prima che il plotone sparasse

Pucci, Bob e chissà quanti altri. Ho dovuto restringere il campo. Testimonianze sugli irriducibili, su chi non ha abbassato le armi e ha continuato a uccidere, gente con esperienze di espatrio e di esilio, uomini incapaci di adattarsi alla "democrazia progressiva" o perseguitati dalla giustizia. Mirco non ha avuto esitazioni.

«Ne conosco diversi. Uno era Teo, adesso non mi ricordo il nome "civile", che dopo la guerra se ne andò in Cecoslovacchia. Era un cane sciolto, un vero ribelle, uno che sopportava a fatica la disciplina della Brigata

«E lo sapresti rintracciare

«Si è sparato, mi pare fosse il '67, quando i medici gli hanno diagnosticato un tumore

Un attimo di silenzio poi, senza bisogno di domande, Mirco ha ripreso a parlare.

«C'è Avio. Anche lui dopo la guerra dovette andarsene in Cecoslovacchia e poi in URSS, ma lui sta ancora in Russia. Poi c'è Bill che è delle mie parti: è stato a Praga tanti anni. Ce ne sono molti altri, comunque, che non erano con me in Brigata. Alcuni stanno qui in paese. Anzi guarda, è appena mezzogiorno, forse facciamo in tempo a farne venire uno.»

Mirco si è fatto passare il telefono e ha composto un numero. All'altro capo del filo, un amico reticente.

«Ma no, figurati, non vogliamo mica sapere i motivi per cui sei dovuto scappare, ci mancherebbe. Al ragazzo interessano i particolari sull'espatrio, la vita da esule politico, le difficoltà che avete incontrato…Non vuoi proprio parlare? Va bene, capisco, grazie lo stesso.»

Ha riattaccato, ma non si è arreso. Ha sollevato di nuovo la cornetta e dopo essersi un po' imbrogliato coi tasti mi ha passato il ricevitore.

«Tieni, fai tu. Lui si chiama Vittorio Caffeo. Digli che hai parlato con me.»

Una voce sottile, con un che di malinconico, ha risposto alla chiamata.

«Vittorio Caffeo

«Sì, sono io.»

Il nome di Mirco ha sciolto ogni perplessità, ha capito subito cosa m'interessava e si è detto disponibile per una chiacchierata. Senza esitazioni, è partito dagli aspetti più amari.

«L'inizio non è stato per niente facile. Non ci avevano detto come stavano le cose. Ci hanno messo a lavorare in campagna, al freddo. Io non avevo mai fatto il contadino, capisci

L'ho fermato subito: cose da raccontare con più calma. «Mi piacerebbe molto conoscerla per parlare di tutto questo. Possiamo darci un appuntamento

«D'accordo» ha risposto «Verrà anche Mirco, vero

Fissati giorno e ora e terminata la conversazione, ho girato la domanda all'interessato.

Mirco ha allargato le braccia e sorriso, niente in contrario.

Sono sicuro che il Vietcong romagnolo interessa anche a lui.





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