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Sentieri dell'odio
(Il Cremlino)
Ogni volta che "e Fatór" ci
raccontava quella storia, nel Bar Nicola non sentivi volare una mosca. Lo
ascoltavano tutti, attenti a non perdersi nemmeno una parola. E lui era bravo,
perché ti mimava le scene, e ci metteva quella foga che ti sembrava d'esserci
stato anche tu col Comandante Bob, quel giorno.
«Per sfuggire al rastrellamento tedesco il
mio battaglione si sposta nella zona di Monte Cece. La mia compagnia sale su e
fissiamo il comando alla Crusazza, la vecchia casona dei contadini. La mattina
dopo, all'alba, le sentinelle ci avvertono che in fondo alla vallata ci
sono i tedeschi. Vengono su per rastrellare tutta la conca. Noialtri
siamo schierati a ventaglio su in cima, la mia compagnia a sinistra, poi quella
di Sergio e l'altra di Kaki.
Poco dopo l'avanguardia tedesca arriva a
tiro. Alle otto abbiamo già i primi morti. Le due compagnie centrali si
ritirano ai lati. I tedeschi possono infilarsi in mezzo e spezzare la nostra
linea. Sono circa trecento, poi hanno con loro cinquanta ss italiane, perché li sentiamo urlare
in dialetto. Si mette male.
Allora il comandante di compagnia scrive in
furia un biglietto, me lo consegna da portare a Bob di corsa, perché capisce
che i ragazzi non ce la faranno ancora a lungo. Molti sono al battesimo del
fuoco. Bob si trova al comando del battaglione a Molino Boldrino, più a nord, a
un'ora di cavallo.
Parto al galoppo, e arrivo che Bob è dentro
la greppia delle mucche tutto appallottolato nelle coperte, col dottore e altri
che tentano di scaldarlo per abbassargli la febbre, perché ha uno degli
attacchi di malaria che gli venivano ogni tre o quattro giorni.
Quando mi vede capisce subito che a Monte
Cece le cose vanno male e mi strappa il biglietto di mano. Lo legge, poi mi
chiede come stanno le cose davvero.
Io gli dico che i tedeschi sono ormai a
cinquanta metri dalle nostre posizioni e sono una maremma, non riusciamo
a fermarli. Abbiamo già quattro morti e dei feriti e riescono già a colpirci
con le bombe a mano. Il morale è a terra: "Sai, Bob, vengono su con degli
urli che ti gelano il sangue! Il mio amico, quello che è venuto in brigata
assieme a me, dallo spavento ha la cagarella e il vomito. L'abbiamo messo al
riparo dalle schioppettate più giù, dietro a un cespuglio di ginestre, e caga
di continuo. Se non usciamo dal rastrellamento morirà di paura!"
Bob comincia a bestemmiare col dottore che
vuole impedirgli di andare in combattimento in quelle condizioni, che
spaccherebbero in due un toro da monta. Ma Bob ordina a Poletti Livio di preparare
il cavallo e la sua Maschine-Pistole con molti caricatori. Poi salta in
sella e mi dice di fargli strada fino alla zona del combattimento. Bob sa che
sono poco più che un bambino, non ho ancora la barba! Ride e mi fa: "E la
paura come va?"
Io avevo quindici anni, ero il più giovane
partigiano della Trentaseiesima, avevo una paura tremenda, ma cercavo di stare
calmo. Non volevo far brutta figura coi miei fratelli più grandi che erano lì
in brigata.
Quando arriviamo, Bob vede subito che
la compagnia di Sergio è ripiegata su quella di sinistra e quella di Kaki sulla
destra, lasciando un varco nel mezzo, dove i tedeschi cercano di passare.
Chiama i due comandanti delle compagnie e
urla che se i tedeschi prendono la posizione sulla cresta del monte ammazzeranno
tutti i 250 partigiani e il battaglione verrà distrutto. Loro insistono:
l'unica maniera di scamparla è ritirarsi combattendo e guadagnare il folto del
bosco per scivolare via.
A quel punto Bob urla: "Da qui non si
ritira nessuno!". E si mette a imprecare e a mollare legnate con la
Maschine sui più terrorizzati, per scuoterli dal panico, quello
che ti prende alle gambe e ti frega, non puoi più muovere un passo.
Trascorrono alcuni minuti che sembrano secoli,
e per tutto il tempo lui li guarda tutti dritto negli occhi. Poi esclama:
"Quando ci spostiamo di qui andiamo addosso ai tedeschi!"
Poi dà altre pedate nel culo per stroncare
la paura sul nascere. Se ci ritiravamo, in pochi minuti i tedeschi piazzavano
le MG-42 sulla cresta e facevano il tiro al piccione!
Giù nell'avvallamento, da dove i tedeschi
erano partiti, in mezzo al castagneto, c'era una casa colonica e si vedevano
molti soldati lì attorno. Quando sente le urla delle donne e dei bambini, Bob
non ci vede più. Alza sulla testa la Maschine-Pistole e urla con una
voce disumana, che rimbalza da una roccia all'altra e ci fa rizzare i capelli
in testa a tutti quanti: "Avanti Garibaldi! All'attacco, dio boia,
all'attacco!". E si lancia giù.
All'improvviso, è come se tutti i partigiani
non avessero mai avuto paura. Tutti si mettono a correre contro i
tedeschi, con delle urla e delle bestemmie da far paura al Diavolo.
I tugnì non s'aspettano un assalto
all'arma bianca, tanto meno da un battaglione di straccioni che pensavano di aver
già battuto. Presi di sorpresa, abbandonano le armi, gli zaini e le giberne e
scappano giù per il vallone fino al Senio, lo guadano e sempre di corsa salgono
sul versante opposto.
Bob dopo trecento metri di corsa è crollato
a terra, quando ha visto i suoi ragazzi correre dietro le canaglie, che non li
fermava più nessuno. Lo hanno sollevato sulle spalle dei compagni che
scendevano accanto a lui e lo hanno riportato a Monte Cece. I partigiani si
sono fermati solo al Senio e son tornati indietro raccogliendo tutte le armi,
le munizioni e gli zaini dei tedeschi. Poi sono risaliti in fretta prima che
quelli potessero riorganizzarsi e contrattaccare.
E' così che abbiamo vinto la battaglia del
Castagno.»
Quando e Fatór finiva di raccontare,
nel bar si faceva un gran brusio di commenti e battute. E c'era chi annuiva e
chi diceva che non era andata proprio così, chi aggiungeva qualcosa e chi
pretendeva di saperne più di tutti anche se a Monte Cece non c'era mai stato.
Fino a quando qualcuno non saltava su e si metteva a raccontare un'altra
battaglia. A Vincenzo Martelli "Cito" di solito era richiesta la
Battaglia di Ca' di Guzzo.
«Siamo alla fine di settembre del '44. La
Trentaseiesima si divide in quattro battaglioni di quattro compagnie ciascuno,
perché le direttive del cumer
sono di scendere verso Bologna, Imola e Faenza e liberarle prima dell'arrivo
degli Alleati, per consegnarle già pulite. Le cose poi sono andate in un'altra
maniera, perché gli Anglo-americani han deciso di fermare il fronte sul Senio per
l'inverno. Ma questo accade dopo.
Il battaglione di Libero Gollinelli è
trincerato attorno a Monte La Fine, vicino a Giugnola, e la mia compagnia si
sposta invece verso i Casoni di Romagna per unirsi alla Sessantaduesima a pochi
chilometri da Ca' di Guzzo, che si pensava fosse un luogo sicuro. Infatti ci
fermiamo lì, nella vecchia casona, in cima alla montagna più brulla che ho mai
visto. Ma la Sessantaduesima non arriva, perché alcuni giorni prima ha
sostenuto un combattimento ed è morto il comandante, che era l'unico a tenere
unita la brigata. Allora mandiamo un ragazzino del posto ad avvertire Libero
che il ricongiungimento è saltato, ma i tedeschi lo catturano. Così rimaniamo
isolati.
Alcune ore prima dell'alba - è il 28
settembre '44 - un battaglione tedesco che si ritira dalla prima linea, tenta
di raggiungere le forze di Reder verso Monghidoro e decide di valicare le
montagne, anziché passare per la strada, che è battuta dall'aviazione alleata e
dalle artiglierie. Non s'è mai saputo se è stata una spiata… fatto sta che le
nostre sentinelle avvistano una pattuglia tedesca e in quel momento inizia il
combattimento.
Guerrino De Giovanni è il comandante di
battaglione, Umberto Gaudenzi comandante di compagnia e il vice-comandante è
Teo. Io gli davo manforte, in quanto ero abbastanza esperto, perché ero già
stato in diversi combattimenti e in particolare in quello di Capanno Marcone,
in cui avevamo tenuto testa ai tugnì. Per questo Teo si fidava di me.
E' una nottata piovigginosa, con una nebbia
fitta e Ca' di Guzzo ha due lati della casa senza finestre. Quindi da quei due
lati i guastatori tedeschi possono facilmente avvicinarsi e mettere la dinamite
per farci saltare tutti, insieme agli abitanti della casa. Dentro siamo in 55.
Non possiamo sparare tutti assieme dalle due
finestre, quindi ci diamo il cambio e spariamo a turno, man mano che uno viene
colpito. Guerrino e Teo decidono di fortificare la porta mettendoci contro dei
sacchi di grano e farina di castagne, in modo che le raffiche non entrino. La casa
è proprio sul cocuzzolo, e tutto attorno il terreno degrada a meno di venti
passi. In più c'è la nebbia. Visibilità zero. Ci spariamo coi tedeschi da pochi
metri.
Per coprire i lati ciechi della casa, Teo
sale al piano di sopra con una squadra. Sfonda le tegole e subito lancia giù
dai lati senza finestre tre o quattro bombe a mano. Sentiamo le urla dei
tedeschi colpiti. Da quel momento non possono più minare i muri. Teo, dal buco
sul tetto spara col mitra, mentre gli altri gli passano i caricatori. Io credo
che il mitra di Teo abbia sparato alcune migliaia di colpi. Era un mitra a
canna forata, di quelli delle brigate nere. I morti dei tedeschi sono sempre di
più. Ma siamo bloccati.
Guerrino, insieme ad altri tre compagni,
esce dalla casa per raggiungere le compagnie superstiti della
Sessantaduesima e la compagnia della Trentaseiesima comandata da Oscar, perché
vengano ad aiutarci. Ma non riesce a convincerne molti: torna con appena una
ventina di partigiani della Sessantaduesima e tre o quattro della compagnia di
Oscar. Cercano di venire in nostro aiuto, attaccando i tedeschi alle spalle.
Sfruttando l'effetto sorpresa rompono l'accerchiamento e ci urlano di uscire in
fretta, prima che i tedeschi si riprendano. Solo che noi non potevamo sentirli,
perché sparavamo come dei forsennati, eravamo completamente sordi. In pochi
minuti i tedeschi capiscono che non li ha attaccati una compagnia, ma
solo pochi partigiani, e manovrano per imbottigliarli. I reduci della
Sessantaduesimaa sono costretti a ritirarsi. Ca' di Guzzo non ha più scampo.
A quel punto Gaudenzi e Teo dicono ai
ragazzi che la situazione è disperata. Teo dice: "L'unica possibilità di
salvare almeno alcuni di noi, è uscire fuori e sparare all'impazzata,
finché c'è ancora la nebbia. I più fortunati ce la faranno. Ma sappiamo tutti
che se i tedeschi entrano qui siamo morti."
Il dottor Palmieri, medico della compagnia,
dice che lui rimarrà vicino ai feriti: "Io sono un medico e la Convenzione
di Ginevra mi protegge". Teo gli risponde che forse sarà il primo a
morire, ma è giusto che ognuno decida per sé.
Tolgono i sacchi dietro alla porta e quelli
che hanno deciso di tentare scattano fuori uno alla volta correndo come lepri.
E' allora che, attraverso una parete spaccata dai colpi di mortaio, alcuni
tedeschi sparano dentro la casa. Due dei nostri vengono falciati e io rimango
ferito al braccio. Teo spiana il mitra e impallina i tugnì dalla stessa
apertura. Io salto fuori e mi metto a correre col braccio a penzoloni e il
Mauser stretto nell'altra mano. Teo dietro, a pochi passi. Corro come un matto,
tra gli spari e le urla, tre tedeschi davanti a me, sono su quattro partigiani
feriti e li stanno finendo fracassandogli la testa con le casse dei fucili, mi
vedono, sono lì a pochi metri, è finita, urlo: "Teo, dioboiaaa, im
a'maza'!" ["Teo, dio boia, mi ammazzano!"], e lo vedo
spuntare dalla nebbia, saltando i cadaveri, il mitra appoggiato allo stomaco,
sgrana una raffica corta e precisa, i tedeschi cadono sulle loro vittime
urlando come cani.
Ci siamo salvati in diciotto.
Quando i tedeschi sono entrati a Ca' di
Guzzo, hanno impiegato i partigiani per recuperare le salme dei camerati morti.
Ne avevamo lasciati sul campo 140. Dopodiché hanno fucilato tutti ai bordi
della letamaia.
Il dottor Palmieri, prima di essere passato
per le armi, ha medicato anche i feriti tedeschi. La Convenzione di Ginevra non
gli è stata d'aiuto.»
Era difficile dire qualcosa dopo un racconto
come quello. I commenti erano fatti a voce bassa, come per rispetto ai caduti.
Quando chiedevo che fine avesse fatto il
famoso Teo, le risposte erano sempre vaghe: «E' via. In Cecoslovacchia.»
Impossibile ottenere qualche informazione in
più. Anzi, era meglio non farne di domande, perché rischiavi che cambiassero discorso
e tanti saluti alle altre storie. Se non li interrompevi invece, poteva
capitare di riuscire a sentire anche la storia di Pucci, di quando si salvò per
miracolo e bus de cul.
Assieme ad altri due partigiani di Imola,
Lino Balbi "Pucci", era stato catturato dalle brigate nere lungo il
fiume Santerno. Era il tramonto, e i fascisti avevano deciso di fucilarli sul
posto. Quindi li avevano messi tutti e tre in fila lungo l'argine e avevano
puntato le armi. Pucci si era tuffato in acqua nel momento stesso in cui
avevano aperto il fuoco, scampando alla raffica che aveva ucciso i compagni. Un
proiettile lo aveva preso a un piede, ma lui era un ottimo nuotatore, si era
immerso sott'acqua e aveva nuotato in apnea fino a che non era stato in salvo.
Le brigate nere avevano sparato diverse raffiche nell'acqua, ma non vedendolo
riaffiorare, avevano pensato che fosse affogato e se ne erano andate.
Quando però "Cito" mi raccontava
del Pozzo di Becca, la mente si riempiva solo di pensieri tetri e i brividi mi
salivano su per la schiena.
«Siamo all'ultimo mese di guerra. Dopo la
battaglia di Ca' di Guzzo i partigiani che si sono salvati restano dispersi e
cercano di guadagnare la libertà, chi fugge da una parte chi dall'altra. Alcuni
vengono presi, e tra questi il sottoscritto, che vengo catturato e messo
nella rocca di Imola dove il capo della Brigata Nera, uno di Faenza, un
lottatore grande e grosso, Ravaioli, comincia a torturarci. Quando sai che ti
tortureranno non puoi sapere se resisterai, quanto resisterai. E non è che hai
tanto tempo per pensare. Allora io decisi di fingere e faccio i nomi di quelli
che sapevo erano morti o avevano già passato le linee alleate. Riesco a evitare
la tortura, mi picchiano un po', poi abbiamo una botta di culo. Da Budrio, siccome
c'era stato un bombardamento, chiedono a Imola se hanno dei prigionieri da
mandare a scavare le macerie. Quindi ci consegnano ai tedeschi e ai pompieri.
Così ci siamo salvati. E non siamo finiti nel Pozzo di Becca. E t'capì?
Poi passano venti giorni. Cinque o sei giorni prima della fine della guerra, la
Brigata Nera di Imola tortura 16 partigiani catturati, tra cui il mio amico
Minghiné, li evirano, bruciano i testicoli, strappano le unghie e li tagliano a
pezzettini. E poi ritirandosi verso il Po, li buttano dentro al pozzo dello
stabilimento Becca. Era un luogo dove si lavorava la frutta, ormai distrutto
dai bombardamenti. Poi con le bombe fanno saltare tutto.
Quando Imola viene liberata, due giorni
dopo, per il fetore e per le urla che si erano sentite, tutti immaginano che lì
dentro ci siano dei corpi. Gli Alleati scavano e tirano su questi poveri resti.
Il governatore polacco, che comandava la piazza di Imola, sviene e poi firma un
documento per prelevare la Brigata Nera di Imola dal campo di concentramento di
Coltano, vicino Verona. I partigiani vanno là, prelevano i fascisti, e fanno in
modo di arrivare a Imola di mattina. Tutta la cittadinanza è avvertita. Si
fermano vicino alla caserma dei carabinieri, ma la gente è troppo inferocita. I
carabinieri non hanno il coraggio di uscire per prendere in consegna i
prigionieri, restano chiusi dentro. Il camion viene preso d'assalto, Bob e i
suoi cercano invano di tenere lontana la folla. Le brigate nere vengono fatte a
pezzi. Senza il Pozzo di Becca si sarebbero salvati la vita.
Gli Alleati poi ci hanno lasciato otto
giorni di tempo per regolare i nostri conti, dopodiché l'ordine doveva essere
ristabilito. E un po' di conti sono stati regolati, altroché.»
Il ritrovo degli eroi. Il luogo dove andavi
ad ascoltare i racconti delle imprese più coraggiose e incredibili. Questo per
me era il Bar Nicola. Ma i carabinieri di Imola lo chiamavano "il
Cremlino".
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