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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 26 Sentieri dell'odio (Il Cremlino)
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26

Sentieri dell'odio

(Il Cremlino)

 

 

Ogni volta che "e  Fatór" ci raccontava quella storia, nel Bar Nicola non sentivi volare una mosca. Lo ascoltavano tutti, attenti a non perdersi nemmeno una parola. E lui era bravo, perché ti mimava le scene, e ci metteva quella foga che ti sembrava d'esserci stato anche tu col Comandante Bob, quel giorno.

 

«Per sfuggire al rastrellamento tedesco il mio battaglione si sposta nella zona di Monte Cece. La mia compagnia sale su e fissiamo il comando alla Crusazza, la vecchia casona dei contadini. La mattina dopo, all'alba, le sentinelle ci avvertono che in fondo alla vallata ci sono i tedeschi. Vengono su per rastrellare tutta la conca. Noialtri siamo schierati a ventaglio su in cima, la mia compagnia a sinistra, poi quella di Sergio e l'altra di Kaki.

Poco dopo l'avanguardia tedesca arriva a tiro. Alle otto abbiamo già i primi morti. Le due compagnie centrali si ritirano ai lati. I tedeschi possono infilarsi in mezzo e spezzare la nostra linea. Sono circa trecento, poi hanno con loro cinquanta ss italiane, perché li sentiamo urlare in dialetto. Si mette male.

Allora il comandante di compagnia scrive in furia un biglietto, me lo consegna da portare a Bob di corsa, perché capisce che i ragazzi non ce la faranno ancora a lungo. Molti sono al battesimo del fuoco. Bob si trova al comando del battaglione a Molino Boldrino, più a nord, a un'ora di cavallo.

Parto al galoppo, e arrivo che Bob è dentro la greppia delle mucche tutto appallottolato nelle coperte, col dottore e altri che tentano di scaldarlo per abbassargli la febbre, perché ha uno degli attacchi di malaria che gli venivano ogni tre o quattro giorni.

Quando mi vede capisce subito che a Monte Cece le cose vanno male e mi strappa il biglietto di mano. Lo legge, poi mi chiede come stanno le cose davvero.

Io gli dico che i tedeschi sono ormai a cinquanta metri dalle nostre posizioni e sono una maremma, non riusciamo a fermarli. Abbiamo già quattro morti e dei feriti e riescono già a colpirci con le bombe a mano. Il morale è a terra: "Sai, Bob, vengono su con degli urli che ti gelano il sangue! Il mio amico, quello che è venuto in brigata assieme a me, dallo spavento ha la cagarella e il vomito. L'abbiamo messo al riparo dalle schioppettate più giù, dietro a un cespuglio di ginestre, e caga di continuo. Se non usciamo dal rastrellamento morirà di paura!"

Bob comincia a bestemmiare col dottore che vuole impedirgli di andare in combattimento in quelle condizioni, che spaccherebbero in due un toro da monta. Ma Bob ordina a Poletti Livio di preparare il cavallo e la sua Maschine-Pistole con molti caricatori. Poi salta in sella e mi dice di fargli strada fino alla zona del combattimento. Bob sa che sono poco più che un bambino, non ho ancora la barba! Ride e mi fa: "E la paura come va?"

Io avevo quindici anni, ero il più giovane partigiano della Trentaseiesima, avevo una paura tremenda, ma cercavo di stare calmo. Non volevo far brutta figura coi miei fratelli più grandi che erano in brigata.

Quando arriviamo, Bob vede subito che la compagnia di Sergio è ripiegata su quella di sinistra e quella di Kaki sulla destra, lasciando un varco nel mezzo, dove i tedeschi cercano di passare.

Chiama i due comandanti delle compagnie e urla che se i tedeschi prendono la posizione sulla cresta del monte ammazzeranno tutti i 250 partigiani e il battaglione verrà distrutto. Loro insistono: l'unica maniera di scamparla è ritirarsi combattendo e guadagnare il folto del bosco per scivolare via.

A quel punto Bob urla: "Da qui non si ritira nessuno!". E si mette a imprecare e a mollare legnate con la Maschine sui più terrorizzati, per scuoterli dal panico, quello che ti prende alle gambe e ti frega, non puoi più muovere un passo.

Trascorrono alcuni minuti che sembrano secoli, e per tutto il tempo lui li guarda tutti dritto negli occhi. Poi esclama: "Quando ci spostiamo di qui andiamo addosso ai tedeschi!"

Poi altre pedate nel culo per stroncare la paura sul nascere. Se ci ritiravamo, in pochi minuti i tedeschi piazzavano le MG-42 sulla cresta e facevano il tiro al piccione!

Giù nell'avvallamento, da dove i tedeschi erano partiti, in mezzo al castagneto, c'era una casa colonica e si vedevano molti soldati attorno. Quando sente le urla delle donne e dei bambini, Bob non ci vede più. Alza sulla testa la Maschine-Pistole e urla con una voce disumana, che rimbalza da una roccia all'altra e ci fa rizzare i capelli in testa a tutti quanti: "Avanti Garibaldi! All'attacco, dio boia, all'attacco!". E si lancia giù.

All'improvviso, è come se tutti i partigiani non avessero mai avuto paura. Tutti si mettono a correre contro i tedeschi, con delle urla e delle bestemmie da far paura al Diavolo.

I tugnì non s'aspettano un assalto all'arma bianca, tanto meno da un battaglione di straccioni che pensavano di aver già battuto. Presi di sorpresa, abbandonano le armi, gli zaini e le giberne e scappano giù per il vallone fino al Senio, lo guadano e sempre di corsa salgono sul versante opposto.

Bob dopo trecento metri di corsa è crollato a terra, quando ha visto i suoi ragazzi correre dietro le canaglie, che non li fermava più nessuno. Lo hanno sollevato sulle spalle dei compagni che scendevano accanto a lui e lo hanno riportato a Monte Cece. I partigiani si sono fermati solo al Senio e son tornati indietro raccogliendo tutte le armi, le munizioni e gli zaini dei tedeschi. Poi sono risaliti in fretta prima che quelli potessero riorganizzarsi e contrattaccare.

E' così che abbiamo vinto la battaglia del Castagno

 

Quando e  Fatór finiva di raccontare, nel bar si faceva un gran brusio di commenti e battute. E c'era chi annuiva e chi diceva che non era andata proprio così, chi aggiungeva qualcosa e chi pretendeva di saperne più di tutti anche se a Monte Cece non c'era mai stato. Fino a quando qualcuno non saltava su e si metteva a raccontare un'altra battaglia. A Vincenzo Martelli "Cito" di solito era richiesta la Battaglia di Ca' di Guzzo.

 

«Siamo alla fine di settembre del '44. La Trentaseiesima si divide in quattro battaglioni di quattro compagnie ciascuno, perché le direttive del cumer sono di scendere verso Bologna, Imola e Faenza e liberarle prima dell'arrivo degli Alleati, per consegnarle già pulite. Le cose poi sono andate in un'altra maniera, perché gli Anglo-americani han deciso di fermare il fronte sul Senio per l'inverno. Ma questo accade dopo.

Il battaglione di Libero Gollinelli è trincerato attorno a Monte La Fine, vicino a Giugnola, e la mia compagnia si sposta invece verso i Casoni di Romagna per unirsi alla Sessantaduesima a pochi chilometri da Ca' di Guzzo, che si pensava fosse un luogo sicuro. Infatti ci fermiamo , nella vecchia casona, in cima alla montagna più brulla che ho mai visto. Ma la Sessantaduesima non arriva, perché alcuni giorni prima ha sostenuto un combattimento ed è morto il comandante, che era l'unico a tenere unita la brigata. Allora mandiamo un ragazzino del posto ad avvertire Libero che il ricongiungimento è saltato, ma i tedeschi lo catturano. Così rimaniamo isolati.

Alcune ore prima dell'alba - è il 28 settembre '44 - un battaglione tedesco che si ritira dalla prima linea, tenta di raggiungere le forze di Reder verso Monghidoro e decide di valicare le montagne, anziché passare per la strada, che è battuta dall'aviazione alleata e dalle artiglierie. Non s'è mai saputo se è stata una spiatafatto sta che le nostre sentinelle avvistano una pattuglia tedesca e in quel momento inizia il combattimento.

Guerrino De Giovanni è il comandante di battaglione, Umberto Gaudenzi comandante di compagnia e il vice-comandante è Teo. Io gli davo manforte, in quanto ero abbastanza esperto, perché ero già stato in diversi combattimenti e in particolare in quello di Capanno Marcone, in cui avevamo tenuto testa ai tugnì. Per questo Teo si fidava di me.

E' una nottata piovigginosa, con una nebbia fitta e Ca' di Guzzo ha due lati della casa senza finestre. Quindi da quei due lati i guastatori tedeschi possono facilmente avvicinarsi e mettere la dinamite per farci saltare tutti, insieme agli abitanti della casa. Dentro siamo in 55.

Non possiamo sparare tutti assieme dalle due finestre, quindi ci diamo il cambio e spariamo a turno, man mano che uno viene colpito. Guerrino e Teo decidono di fortificare la porta mettendoci contro dei sacchi di grano e farina di castagne, in modo che le raffiche non entrino. La casa è proprio sul cocuzzolo, e tutto attorno il terreno degrada a meno di venti passi. In più c'è la nebbia. Visibilità zero. Ci spariamo coi tedeschi da pochi metri.

Per coprire i lati ciechi della casa, Teo sale al piano di sopra con una squadra. Sfonda le tegole e subito lancia giù dai lati senza finestre tre o quattro bombe a mano. Sentiamo le urla dei tedeschi colpiti. Da quel momento non possono più minare i muri. Teo, dal buco sul tetto spara col mitra, mentre gli altri gli passano i caricatori. Io credo che il mitra di Teo abbia sparato alcune migliaia di colpi. Era un mitra a canna forata, di quelli delle brigate nere. I morti dei tedeschi sono sempre di più. Ma siamo bloccati.

Guerrino, insieme ad altri tre compagni, esce dalla casa per raggiungere le compagnie superstiti della Sessantaduesima e la compagnia della Trentaseiesima comandata da Oscar, perché vengano ad aiutarci. Ma non riesce a convincerne molti: torna con appena una ventina di partigiani della Sessantaduesima e tre o quattro della compagnia di Oscar. Cercano di venire in nostro aiuto, attaccando i tedeschi alle spalle. Sfruttando l'effetto sorpresa rompono l'accerchiamento e ci urlano di uscire in fretta, prima che i tedeschi si riprendano. Solo che noi non potevamo sentirli, perché sparavamo come dei forsennati, eravamo completamente sordi. In pochi minuti i tedeschi capiscono che non li ha attaccati una compagnia, ma solo pochi partigiani, e manovrano per imbottigliarli. I reduci della Sessantaduesimaa sono costretti a ritirarsi. Ca' di Guzzo non ha più scampo.

A quel punto Gaudenzi e Teo dicono ai ragazzi che la situazione è disperata. Teo dice: "L'unica possibilità di salvare almeno alcuni di noi, è uscire fuori e sparare all'impazzata, finché c'è ancora la nebbia. I più fortunati ce la faranno. Ma sappiamo tutti che se i tedeschi entrano qui siamo morti."

Il dottor Palmieri, medico della compagnia, dice che lui rimarrà vicino ai feriti: "Io sono un medico e la Convenzione di Ginevra mi protegge". Teo gli risponde che forse sarà il primo a morire, ma è giusto che ognuno decida per sé.

Tolgono i sacchi dietro alla porta e quelli che hanno deciso di tentare scattano fuori uno alla volta correndo come lepri. E' allora che, attraverso una parete spaccata dai colpi di mortaio, alcuni tedeschi sparano dentro la casa. Due dei nostri vengono falciati e io rimango ferito al braccio. Teo spiana il mitra e impallina i tugnì dalla stessa apertura. Io salto fuori e mi metto a correre col braccio a penzoloni e il Mauser stretto nell'altra mano. Teo dietro, a pochi passi. Corro come un matto, tra gli spari e le urla, tre tedeschi davanti a me, sono su quattro partigiani feriti e li stanno finendo fracassandogli la testa con le casse dei fucili, mi vedono, sono a pochi metri, è finita, urlo: "Teo, dioboiaaa, im a'maza'!" ["Teo, dio boia, mi ammazzano!"], e lo vedo spuntare dalla nebbia, saltando i cadaveri, il mitra appoggiato allo stomaco, sgrana una raffica corta e precisa, i tedeschi cadono sulle loro vittime urlando come cani.

Ci siamo salvati in diciotto.

Quando i tedeschi sono entrati a Ca' di Guzzo, hanno impiegato i partigiani per recuperare le salme dei camerati morti. Ne avevamo lasciati sul campo 140. Dopodiché hanno fucilato tutti ai bordi della letamaia.

Il dottor Palmieri, prima di essere passato per le armi, ha medicato anche i feriti tedeschi. La Convenzione di Ginevra non gli è stata d'aiuto.» 

 

Era difficile dire qualcosa dopo un racconto come quello. I commenti erano fatti a voce bassa, come per rispetto ai caduti.

Quando chiedevo che fine avesse fatto il famoso Teo, le risposte erano sempre vaghe: «E' via. In Cecoslovacchia

Impossibile ottenere qualche informazione in più. Anzi, era meglio non farne di domande, perché rischiavi che cambiassero discorso e tanti saluti alle altre storie. Se non li interrompevi invece, poteva capitare di riuscire a sentire anche la storia di Pucci, di quando si salvò per miracolo e bus de cul.

Assieme ad altri due partigiani di Imola, Lino Balbi "Pucci", era stato catturato dalle brigate nere lungo il fiume Santerno. Era il tramonto, e i fascisti avevano deciso di fucilarli sul posto. Quindi li avevano messi tutti e tre in fila lungo l'argine e avevano puntato le armi. Pucci si era tuffato in acqua nel momento stesso in cui avevano aperto il fuoco, scampando alla raffica che aveva ucciso i compagni. Un proiettile lo aveva preso a un piede, ma lui era un ottimo nuotatore, si era immerso sott'acqua e aveva nuotato in apnea fino a che non era stato in salvo. Le brigate nere avevano sparato diverse raffiche nell'acqua, ma non vedendolo riaffiorare, avevano pensato che fosse affogato e se ne erano andate.

 

Quando però "Cito" mi raccontava del Pozzo di Becca, la mente si riempiva solo di pensieri tetri e i brividi mi salivano su per la schiena.

 

«Siamo all'ultimo mese di guerra. Dopo la battaglia di Ca' di Guzzo i partigiani che si sono salvati restano dispersi e cercano di guadagnare la libertà, chi fugge da una parte chi dall'altra. Alcuni vengono presi, e tra questi il sottoscritto, che vengo catturato e messo nella rocca di Imola dove il capo della Brigata Nera, uno di Faenza, un lottatore grande e grosso, Ravaioli, comincia a torturarci. Quando sai che ti tortureranno non puoi sapere se resisterai, quanto resisterai. E non è che hai tanto tempo per pensare. Allora io decisi di fingere e faccio i nomi di quelli che sapevo erano morti o avevano già passato le linee alleate. Riesco a evitare la tortura, mi picchiano un po', poi abbiamo una botta di culo. Da Budrio, siccome c'era stato un bombardamento, chiedono a Imola se hanno dei prigionieri da mandare a scavare le macerie. Quindi ci consegnano ai tedeschi e ai pompieri. Così ci siamo salvati. E non siamo finiti nel Pozzo di Becca. E t'capì? Poi passano venti giorni. Cinque o sei giorni prima della fine della guerra, la Brigata Nera di Imola tortura 16 partigiani catturati, tra cui il mio amico Minghiné, li evirano, bruciano i testicoli, strappano le unghie e li tagliano a pezzettini. E poi ritirandosi verso il Po, li buttano dentro al pozzo dello stabilimento Becca. Era un luogo dove si lavorava la frutta, ormai distrutto dai bombardamenti. Poi con le bombe fanno saltare tutto.

Quando Imola viene liberata, due giorni dopo, per il fetore e per le urla che si erano sentite, tutti immaginano che dentro ci siano dei corpi. Gli Alleati scavano e tirano su questi poveri resti. Il governatore polacco, che comandava la piazza di Imola, sviene e poi firma un documento per prelevare la Brigata Nera di Imola dal campo di concentramento di Coltano, vicino Verona. I partigiani vanno , prelevano i fascisti, e fanno in modo di arrivare a Imola di mattina. Tutta la cittadinanza è avvertita. Si fermano vicino alla caserma dei carabinieri, ma la gente è troppo inferocita. I carabinieri non hanno il coraggio di uscire per prendere in consegna i prigionieri, restano chiusi dentro. Il camion viene preso d'assalto, Bob e i suoi cercano invano di tenere lontana la folla. Le brigate nere vengono fatte a pezzi. Senza il Pozzo di Becca si sarebbero salvati la vita.

Gli Alleati poi ci hanno lasciato otto giorni di tempo per regolare i nostri conti, dopodiché l'ordine doveva essere ristabilito. E un po' di conti sono stati regolati, altroché

 

Il ritrovo degli eroi. Il luogo dove andavi ad ascoltare i racconti delle imprese più coraggiose e incredibili. Questo per me era il Bar Nicola. Ma i carabinieri di Imola lo chiamavano "il Cremlino".

 





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