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Due pagine fitte di appunti e una cassetta audio
con i passaggi più emozionanti sono il risultato netto di oltre due ore in
compagnia di Mirco e Vittorio Caffeo "Drago".
Dopo dieci anni passati in Cecoslovacchia,
fino al 1959, l'uomo che a Praga si chiamava Laffi non dà affatto l'impressione
di essere ex. Ex tutto, come scrive Fiori.
La villa sulle colline di Casalecchio,
devastata dal passaggio ravvicinato dell'autostrada Bologna-Firenze, è il primo
segnale concreto di una vita ricostruita, di certo non spesa a macerarsi nel
ricordo di una sconfitta. Il secondo indizio è la vitalità di Vittorio Caffeo,
il tono della voce, il modo in cui ti racconta di aver reagito a mille soprusi.
La critica per gli sbagli del passato convive con l'orgoglio di chi si è
battuto dalla parte giusta. Ascolti il rumore dei camion lanciati verso sud e
non invidi la
Società Autostrade, che oggi merita la rabbia di questo quasi
ottantenne.
Gli appunti cominciano con una data: 1949,
lotte bracciantili nella zona di San Giovanni in Persiceto. I familiari di
dodici fascisti, trovati morti a San Giorgio di Piano nel periodo della lotta
partigiana, sporgono denuncia contro alcuni componenti della 2a Brigata
"Paolo", di cui Drago era vice comandante. I corpi sono stati trovati
nudi, spogliati di tutto: l'accusa è di aver ucciso con il movente del furto.
«Mi arrestano sul lavoro, al pastificio
Corticella, e mi portano alla caserma dei carabinieri di Persiceto, sostenendo
che un testimone, il mio autista, mi ha indicato come responsabile
dell'eccidio. Conosco bene i carabinieri del posto, so che in altre occasioni
hanno torturato dei miei partigiani per farli parlare. Per questo appena
cominciano ad accusarmi, li affronto. Il capitano mi dice: "So che è un
duro, ma noi abbiamo fatto parlare persone più dure di Lei"[a questo punto nella registrazione si sente un gran busso:
è il pugno di Caffeo che si abbatte sul tavolo per poi diventare un indice
puntato verso di me, quasi fossi il carabiniere di allora]. "Io lo so
chi siete, non siete mai cambiati, ma non ho avuto paura dei tedeschi e dei
fascisti e non avrò certo paura di voi". Credo che aver alzato la voce a
quel modo sia stata la mia salvezza. La confusione attira nella stanza un
colonnello: "Stia tranquillo, che qua non torturiamo nessuno." Il
capitano tira fuori dei fogli e comincia a leggere [qui Vittorio imita il
carabiniere che studia i fogli tenendoli sulle ginocchia, sotto il tavolo].
"Lei si è dato parecchio da fare, signor Caffeo". "Ho fatto solo
il mio dovere" rispondo "E' forse un reato difendere il proprio
paese?". Alla fine non avevano scuse per trattenermi e mi hanno lasciato
andare in attesa del processo.
Eravamo in estate, verso la fine di
luglio. Ero riuscito a non farmi torturare, adesso dovevo evitare la galera.
Vado in Federazione a Bologna, da Claudio Melloni, a chiedere istruzioni. Mi
dicono che ho avuto fortuna, che il giudice è uno bravo, che devo andarci a
parlare e quello sistemerà le cose. Faccio come mi dicono, e fisso un
colloquio. Appena entro nello studio, il giudice tira fuori da un cassetto una
cartellina [stessa mimica del capitano]
"Certo, signor Caffeo, che lei si è dato proprio un bel da fare!" [Altro
botto da pugno sul tavolo]. "Già, e Lei come mai non s'è dato da fare?
Non le interessava liberare l'Italia dai nazifascisti?"
Poi torno alla Federazione. "Ah,
quello lì era bravo? Complimenti". Mi dicono che a quel punto non mi resta
che partire, penseranno loro ai dettagli del viaggio e mi avvertiranno quando
sarà tutto pronto. Io accetto. Non sapevo nemmeno dove sarei finito.»
Nell'agosto del '49, Vittorio sale su un
treno diretto a Vienna. A Tarvisio, ultima stazione italiana, scende giù e
raggiunge Villach, in Austria, attraverso le montagne, guidato da un
contrabbandiere italiano. Gli forniscono un documento austriaco e lo fanno
accompagnare da un comunista austriaco reduce della guerra di Spagna. Salgono
sul treno per Vienna: anche il controllore è un compagno. Arrivati a
destinazione, si spostano nel settore del treno dove salirà la polizia
sovietica. In questo modo Vittorio raggiunge senza problemi la parte della
città amministrata dai russi. In attesa di ripartire viene alloggiato in una
grande villa.
L'odissea ricomincia: insieme a un altro
esule viene portato in auto fino a due-trecento metri dal confine cecoslovacco.
Rallentano un poco, gli dicono di buttarsi giù e di correre attraverso il bosco
oltre confine, cercando di evitare le guardie di frontiera.
«Non capivo tutta quella circospezione.
Eravamo comunisti italiani su un'auto guidata da sovietici diretti in un paese
socialista. Che problema c'era a passare il confine in una maniera più comoda?
Ci venne detto che se ci avessero beccato saremmo stati rispediti a casa. Io
pensavo che il problema nascesse se uno voleva scappare dalla Cecoslovacchia e
entrare clandestino in Austria, non viceversa. Comunque, la frontiera era
deserta. Non c'era nessuno a presidiarla, altroché. E nemmeno c'era qualcuno ad
aspettarci dall'altra parte. L'organizzazione mostrava le prime pecche. Abbiamo
passato una notte intera in mezzo al bosco. Ci siamo avvicinati a una casupola
per domandare dove fosse il posto di polizia più vicino. "Polizia,
polizia" chiedevamo, ma quelli pensarono che fossimo noi la polizia, e
spensero subito tutte le luci.
Al mattino, arriviamo in un paese e
riusciamo a trovare i poliziotti e un'interprete. Dicono che ci stavano
aspettando subito oltre confine ma non ci hanno visto. Ci credo, i russi
avevano detto di non farci notare!»
La tappa successiva è Ceske Budejovice.
Dieci giorni in un albergo, dal quale all'inizio non si può nemmeno uscire. Poi
Vittorio convince i suoi accompagnatori a lasciargli un po' di libertà.
«Ma insomma, eravamo profughi politici,
no? Di cosa avevano paura, che scappassimo? Ma se eravamo noi a chiedere
asilo! Perché saremmo dovuti andar via?
Una volta arrivati a Praga ci hanno
portato al Comitato Centrale del Partito per un interrogatorio. Da Roma erano
arrivati i nostri nuovi nomi, e i documenti erano già pronti. L'interrogatorio
serviva come identificazione: controllavano che quello che dicevi coincidesse
con il dossier. Bastava un piccolo errore e diventavi sospetto. Un ingegnere
italiano finì in galera con l'accusa di essere una spia perché sapeva parlare
sei lingue, russo e ceco compresi, e la data di nascita che aveva dichiarato non
era la stessa stampata sul documento falso.
A settembre veniamo inquadrati nei
Collettivi di Lavoro e mandati in campagna a raccogliere patate e barbabietole.
Faceva un freddo cane, anche perché non avevamo i vestiti adatti. A Bologna ci
avevano detto: "Non prendete niente, là c'è tutto". Invece, niente.
Scarpe consumate e quattro stracci.
Ci facevano lavorare in condizioni
tristi. Io pensavo che se me l'avessero detto prima, quasi quasi andavo in
prigione in Italia. Non era certo il trattamento che mi aspettavo. Tra l'altro,
insieme a noi, c'erano anche dei prigionieri di guerra tedeschi: però loro
guidavano il trattore, noi ci spaccavamo la schiena sui campi.
Un giorno viene un gran acquazzone e
dobbiamo interrompere la raccolta. Ci rifugiamo nel casolare e mettiamo i
vestiti ad asciugare. Appena smette di piovere, un funzionario ceco ci dice di
tornare a lavorare. Io allora mi incazzo: "Finché quei vestiti non sono
asciutti, noi là fuori non ci torniamo!". Lui allora comincia a sbraitare,
a insultarmi e tra le varie cose capisco che mi dà del fascista. Allora gli
mollo un pugno in faccia che lo stendo. Credevano che anche noi fossimo
prigionieri di guerra.
Grazie a quell'episodio, la musica è
cambiata. In quei giorni era in visita a Praga l'onorevole D'Onofrio, del pci. Abbiamo ottenuto di incontrarlo e
ci siamo presentati da lui così come eravamo, con gli abiti da lavoro tutti
trasandati. Lui per poco non si è messo a piangere. Ha detto che era una
vergogna, che c'era stato un disguido, che noi avevamo lottato per l'Italia
libera e non potevamo essere trattati in quel modo, che i piani erano ben
diversi.
Dopo dieci giorni sono arrivati i
vestiti. Ci hanno riportato a Praga e abbiamo cominciato la scuola di partito,
sotto la direzione di Foschi, un comunista pelato con un basco nero in testa
che sembrava Nenni.»
[Interviene Mirco:] «Uno che aveva
tradotto in russo il De Rerum Natura di Lucrezio, come primo esempio di
poema materialista. E' vero che vi proibiva di avere rapporti con le donne del
luogo?» [Drago:] «Non mi pare proprio, anzi, un giorno ci portò a Praga
con l'intento preciso di farci conoscere un po' di ragazze.»
[Mirco:] «E tutte le sere vi faceva
controllare i pozzi per essere sicuro che non fossero avvelenati, vero?»
[Drago:] "Questo sì, aveva una gran
paura del sabotaggio, è vero».
La scuola è formata da circa 50 alunni, le
materie sono sei, il corso dura nove mesi e si tiene in una villa a trenta
chilometri dalla capitale.
Verso la fine del '50 gli studenti decidono
di realizzare una trasmissione radiofonica che si possa ascoltare anche in
Italia. Grazie all'intervento dell'ingegnere poliglotta, che intanto è uscito
di galera, approntano tutto l'armamentario tecnico e danno vita a Oggi in
Italia, un programma diventato leggendario, anche perché il governo
italiano proibiva di ascoltarlo, e sintonizzarsi su Radio Praga, nelle Case del
Popolo, riportava alla memoria i tempi eroici di Radio Londra, captata con la
radio a galena durante gli anni del fascismo.
Finita la scuola, gli alunni vengono
inquadrati nei collettivi di fabbrica e mandati a lavorare a Brno o a Ostrava.
Dopo un periodo come operai, viene offerta loro la possibilità di studiare
ancora, questa volta stipendiati dalla fabbrica.
«I bravi venivano mandati a Mosca. I
ribelli restavano a Praga. Finita la scuola fui rimandato alla Zetor di Brno,
una fabbrica di trattori. Lo stipendio era molto basso e il lavoro monotono.
Per chi non s'atteneva alla disciplina di partito c'erano le squadre di picchiatori
organizzate dall'apposito Comitato.
A Brno c'era un'azienda di studi
del sottosuolo che cercava personale. La paga era otto volte superiore alla
nostra e il lavoro più interessante. Ho lasciato il collettivo e la Zetor e mi
sono fatto assumere per manovrare le perforatrici. Sono stato molto criticato
per questo, uscire dal collettivo era una specie di tradimento. Io ho risposto
che Moranino, il segretario del comitato, avrebbe fatto meglio a lavorare con
noi, invece che parlare. Aveva ragione Mao, che in quegli anni mandava i quadri
del partito nelle fabbriche e nelle campagne. Dopo il mio abbandono, molti
altri mi hanno seguito e sono venuti a lavorare nella mia squadra. Alla fine ho
ricevuto anche l'alta onorificenza come Eroe del Lavoro e sono riuscito a
comprarmi la prima Seicento.»
Il 1959 è l'anno del rientro in Italia,
grazie alla seconda, grossa amnistia dopo quella di Togliatti. Ma l'odissea di
Vittorio non è ancora finita. Alla frontiera viene fermato e trattenuto senza alcun
mandato d'arresto.
«Mi fanno scendere dal treno e mi portano
al posto di polizia della stazione. "Guardate che io sono amnistiato, cosa
credete, altrimenti non tornavo mica a farmi prendere". Allora il
comandante tira fuori un pacco di fogli e mi fa "Lei sarà anche
amnistiato, signor Caffeo, però si è dato anche parecchio da fare…". Non
volevo credere alle mie orecchie, la stessa frase di sempre. "Ma allora
qui non è cambiato niente, è proprio vero che l'epurazione non c'è mai stata.
Sono stato via dieci anni e vi ritrovo ancora qui, le stesse frasi, le stesse
ingiustizie".»
Vittorio viene accompagnato a Bologna in
treno, scortato da due poliziotti. Giunto in città, il dottor Pagliarulo, capo
della Politica, lo fa portare al carcere di San Giovanni in Monte, dove il
direttore non vorrebbe tenerlo, perché si tratta di una carcerazione
irregolare, senza mandato. Durante l'interrogatorio Pagliarulo gli fa una
strana battuta: «Noi lo sappiamo cosa ha fatto in Cecoslovacchia, signor
Caffeo. I nostri informatori all'ambasciata di Praga ci hanno comunicato che
lei, insieme ad altri italiani, è stato sui Monti Tatra, a reprimere le sacche
di resistenza dei "bianchi"…»
Vittorio cade dalle nuvole e nega ogni
coinvolgimento in quelle vicende, di cui ha avuto solo sentore, senza mai poter
supporre che vi fossero coinvolti degli italiani.
Resterà in carcere quaranta giorni. La causa
di tutto: un cavillo burocratico, è sparita la sua pratica di partigiano, e lui
non risulta tale.
Per alcuni anni Vittorio Caffeo non potrà
votare. La pensione come ferito di guerra gli verrà riconosciuta solo nel ‘67.
Per guadagnarsi da vivere, crea la Coop.Exp.Inp., esporta all'Est diversi
prodotti italiani e anche i jeans Rifle. L'impresa funzionerà talmente
bene che in Cecoslovacchia "rifle" diventerà sinonimo di jeans, e il
termine riflovina sostituirà l'americano denim.
No, davvero non si può parlare di uomo ex.
Spirito di ribellione e capacità di adattamento hanno permesso a Vittorio di
superare le situazioni più deprimenti, quelle in cui molti sono rimasti
incagliati.
Offre da bere il suo vino e non smette di
parlare, con l'emozione e il dettaglio di chi ti racconta un fatto successo
l'altro ieri.
Guerra partigiana, carcere, tentativi di
evasione, scioperi. Sul Vietcong romagnolo: niente. Non ha mai sentito parlare
di un canale di espatrio con l'Indocina. Zero.
Gli appunti finiscono, il registratore tace.
Resta il piacere di ascoltare una storia.
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