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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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28 Sentieri dell'odio
Fu allora che cominciai a odiare. Parlavano di riconciliazione, di lotta democratica, bisognava ricostruire, mettere via le armi e tornare a lavorare, lottare col partito all'interno delle istituzioni. E più Togliatti gettava acqua sul fuoco, più la campagna contro i comunisti si faceva feroce e ce ne dicevano di tutti i colori. Preti, democristiani, poliziotti, fascisti riverniciati: avevamo tutti contro. "Pace", "lavoro", "democrazia progressiva". Belle parole davvero. La risposta erano le botte dei celerini e la propaganda dei preti. E io? Qual era il mio posto, in quel bel quadretto? Avevo quattordici anni e nessun futuro. La miseria mi tormentava come prima. I miei familiari si ammalavano ancora. Ero sempre lo stesso miserabile ragazzino, lavoravo come un mulo per mantenere i miei e vedevo i ricchi imolesi, quelli che avevano appoggiato il fascismo con tanto di camicia nera e braccio alzato, negli stessi posti di sempre. Ma allora perché si era fatta la Resistenza? Perché tanti erano morti giovani? E Bob, e Pucci, e il Moro, e Teo, per che cosa avevano rischiato la vita? Non capivo. Non potevo capire. Perché quando la fame morde, fai fatica a farti una ragione di quello che vedi. Gli altri sì che erano bravi: avevano la pancia piena e un bel posto di lavoro! Loro si erano sistemati e quelli come me dovevano mettersi buoni e fare quello che gli veniva detto. Nossignore. Io odiavo. Ero sempre alla ricerca di un fascista che mi avesse guardato storto per sparargli in una gamba. Non c'era pace dentro di me, non poteva esserci perché per me la guerra non era finita. Odiavo i poliziotti che potevano picchiarmi con la legge dalla loro. Odiavo i ricchi con la coscienza sporca, odiavo gli antifascisti dell'ultima ora. E odiavo anche tanti compagni, sì, burocrati che pretendevano di dirmi cosa fare, che volevano farmi ubbidire alle direttive. Ero uno scandalo per loro, perché la situazione della mia famiglia mandava all'aria tutti quei bei discorsi sulla riconciliazione. Non avevano parole per me, non c'era un discorso convincente. E poi c'erano troppi crimini, delazioni e tradimenti rimasti impuniti. Tanta gente era morta per la vigliaccheria dei collaborazionisti, per il loro silenzio complice o per le loro soffiate. Come potevamo perdonarli? No, io non avrei perdonato nessuno e soprattutto non avrei sopportato più la loro arroganza.
Da un po' di tempo vedevo rincasare mio fratello Benito, di due anni più giovane di me, in lacrime e malconcio. Era un tipo fragile, sempre in bilico tra pleurite e tibicì. Ero quasi un padre per lui e spesso lo difendevo dalle prepotenze dei più grandi. Un suo amico mi riferì cosa gli stava succedendo. In parrocchia, a San Giovanni, c'era un adulto che lo maltrattava e a volte lo cacciava via a scapaccioni, perché veniva da una famiglia di tisici. Alcune madri di ragazzi che frequentavano l'oratorio avevano sparso la voce che non avrebbero più mandato in parrocchia i figli per paura del contagio. Andai a San Giovanni nero di rabbia. L'uomo che maltrattava mio fratello era stato un milite della Guardia Nazionale Repubblicana, che un giorno del '43 aveva tentato di ammazzare un ragazzo dei Forni, Carlo, detto "e fio'd Méz Migliò" ["il figlio di Mezzo Milione"]. Entrai dal portone della chiesa e me lo trovai subito di fronte. Il primo cazzotto che gli tirai in bocca lo scaraventò contro il muro. Ne seguirono altri, e mentre picchiavo quel vigliacco molto più grande di me, gli urlavo: «Questo è un acconto per mio fratello Benito e questo per il figlio di Méz Migliò, ti ho visto dalla finestra quella sera, quando gli correvi dietro e hai sparato. Ti ho visto bene, la mì bèla Brigàta Nera.» Don Mino, il parroco, venne in suo aiuto. Quando me lo trovai addosso, che cercava di trattenermi, tirai fuori la pistola e lo colpii col calcio sulla faccia. Odiavo quel prete più dei fascisti, perché oltre ad aver parteggiato per loro durante il ventennio, ogni domenica, dal pulpito, spargeva merda sui partigiani. Il colpo al viso lo fece desistere. Il fascista scoppiò a piangere. Ero lì, fermo, ansimante di rabbia, la Steyr in pugno, e lo guardavo contorcersi in un angolo. Era un uomo meschino, capace solo di essere forte con i deboli e cagasotto con chi non chinava la testa. Un miserabile come tanti, che col fascismo aveva vissuto un momento di gloria, e adesso non era più nessuno. Prima di scappare avvertii entrambi che da lì in avanti avrei lisciato il pelo a tutti e due se fosse capitato qualcosa a mio fratello o a chiunque altro per causa loro.
Quel giorno mi resi conto che avrei potuto farlo. Mirare alla testa di quel vigliacco o a quella di don Mino e premere il grilletto. E se del primo avevo avuto pietà, il secondo lo avevo risparmiato solo perché così avrei firmato la mia condanna. Ero pazzo. Per questo mi temevano. Tutti sapevano che non avevo niente da perdere: ero in guerra. In guerra con tutti. Tempo dopo, nella mia classe alle scuole Carducci, il prete parlò male dei comunisti durante l'ora di religione, e chiamò i partigiani "assassini". Un ragazzino ripetente, più grande di me di alcuni anni, gli rispose per le rime e il prete lo strattonò e gli mollò diversi ceffoni. Il ragazzino reagì. La confusione attirò il mio maestro Giovanni Gaddoni, repubblicano convinto, che resosi conto della situazione, prese il prete per un braccio e lo trascinò in direzione. Qualche giorno dopo, prima dell'ora di religione, aspettai il prete nel cortile della scuola e lo affrontai chiamandolo fascista e vigliacco, perché si permetteva di picchiare i ragazzini come avevano fatto le brigate nere. Poi gli sparai tre colpi di pistola tra le gambe, per farlo ballare come un orso da circo. Fu un avvertimento. Il segnale di quello che avrei potuto fare.
Un altro giorno, mentre piallavo un'asse nella bottega di Pirì Bérba, lo sentii parlare con Gardlìna. Bestemmiavano e inveivano contro un'ex-prostituta che aveva ripreso a farsi vedere in giro come se niente fosse. Tutti sapevano che era stata una spia dei fascisti e che aveva venduto tanti partigiani alla Brigata Nera. Com'era possibile che una persona del genere restasse in circolazione? Non c'era dunque nessuna giustizia che potesse raggiungerla? «Soltanto una» sbraitò Pirì «la giustizia di noi altri!» e si mise a sparare sul fondo della bottega, per sbollire la rabbia repressa. Io ascoltavo e sentivo l'odio crescermi dentro. Poi afferrai la pistola e sparai anch'io sulle assi.
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