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Mirco si aggiusta il berretto per ripararsi
dalla pioggia, mentre cerchiamo di raggiungere il portico senza inzupparci
troppo.
Mi ha dato appuntamento a San Giovanni in
Monte, alla facoltà di Storia. Al telefono ha detto di avere delle novità e
siccome andava lì per una conferenza, ci siamo dati appuntamento.
L'argomento è interessante: la violenza
politica dopo la Liberazione. I professori meno. Ma dopo le riflessioni
storiografiche interviene un vecchietto, Leone Sacchi, partigiano di Carpi,
ottantasei anni, italiano stentato e voce rotta dall'emozione. Chi lo presenta
dice che nei giorni immediatamente successivi alla liberazione del modenese si
distinse per aver salvato dal linciaggio uno della Brigata Nera, che poi ha
ugualmente fatto una brutta fine.
Sacchi pronuncia parole commoventi sull'importanza
inestimabile della pace e della lotta necessaria per raggiungerla. Ma le
conclusioni mi lasciano sbigottito: «E poi tanti partigiani hanno dovuto fare
giustizia dei fascisti dopo la liberazione, laddove lo Stato non lo ha fatto. E
questi fulgidi esempi di patrioti hanno pagato caro le loro scelte… Tanti sono
dovuti andare all'estero e abbandonare l'Italia per cui si erano battuti
durante la Resistenza!»
Gli studenti esplodono in un applauso
fragoroso che mi rallegra, ma lascia anche perplessi. Lo sanno di cosa sta
parlando? Hanno davvero idea delle persecuzioni dell'immediato dopoguerra?
Sanno che i fascisti sono andati quasi tutti liberi, mentre le ex Brigate
Garibaldi venivano inquisite dalla magistratura? La stessa magistratura, gli
stessi giudici che avevano fatto carriera sotto Mussolini e magari comminato
anni di confino agli oppositori del regime, firmato mandati di cattura per gli
anti-fascisti o applicato le leggi razziali? Gente che si era formata nel
ventennio nero?
Poi sale su Mirco, per portare la sua
testimonianza ed è l'intervento migliore, il più significativo. Voce acuta,
quasi stridula per la foga di trasmettere al pubblico di studenti universitari
l'esperienza della guerra partigiana.
«Dopo che avevamo marciato tutta la notte su
per le mulattiere del monte Falterona e arrivavamo ai rifugi stremati di
fatica, ci ripetevamo sempre la stessa promessa: quando la guerra sarà finita,
prendiamo tutti i fascisti, tutti i capitalisti, li portiamo quassù e gli
facciamo spianare le montagne.» si rivolge agli accademici in cattedra e con un
sorrisetto malizioso aggiunge «Sbagliavamo? Non lo so. Ma è quello che
pensavamo allora.»
Poi prosegue con un episodio folgorante, il
linciaggio della Brigata Nera di Imola, poco dopo la liberazione. Racconta che
prima di scappare incalzati dall'avanzata alleata, i fascisti avevano torturato
a morte i detenuti nella Rocca di Imola e avevano gettato i corpi nel Pozzo di
Becca, alcuni ancora vivi, facendolo saltare con le bombe a mano. Quando quei
cadaveri vennero riesumati, le fotografie delle salme straziate furono affisse
in piazza. Il comandante alleato firmò un ordine di prelevamento per la Brigata
Nera di Imola, che nel frattempo si era arresa a Verona. Una scorta di
partigiani e poliziotti si recò a Verona per prelevarli.
Il racconto è travolgente, nell'aula non
vola una mosca: «La popolazione si era radunata in piazza fin dalla mattina
presto. Non appena il camion è arrivato, è stato subito preso d'assalto dalla
folla inferocita. La scorta ha cercato di tenere a bada la gente come poteva,
ma erano troppo pochi. I brigatisti furono massacrati. Io c'ero, l'ho visto coi
miei occhi. Ricordo i familiari di due donne uccise dai fascisti durante una
manifestazione per il pane. Li ho visti uccidere gli assassini delle sorelle a
calci, pestando loro la testa con il tacco delle scarpe.» una pausa
«Avete capito qual era il clima a quel tempo?!»
Poi si rivolge ai ragazzi: «E voi spero che
non ci giudicherete troppo male, sentendoci raccontare queste cose… Siate indulgenti.»
Mentre un grande applauso saluta Mirco,
riconosco la citazione di Bertold Brecht. "A coloro che verranno":
Ma voi quando sarà venuta l'ora / che all'uomo un aiuto sia l'uomo / pensate a
noi / con indulgenza.
Il compagno Zappi non smette di sorprendermi.
Aspettiamo che spiova sotto le arcate del
chiostro, mentre l'aula si svuota. Il racconto di Mirco sembra la scena di un
film.
«Incredibile la storia del linciaggio dei
fascisti.»
Mirco ha il tono puntiglioso di uno storico,
ma senza sicumera. Sfrutta la memoria come un archivio al servizio del
presente, insieme alla passione, anch'essa all'opera sulla memoria.
«E' stato uno sfogo di rabbia popolare. Sai,
i sedici partigiani del Pozzo di Becca erano conosciuti in città. Uno era
Minghiné, un promotore della Resistenza di Imola. Li avevano torturati e la
gente aveva visto le fotografie. Sugli aguzzini si sfogò tutta l'esasperazione
e l'odio per anni di stenti, fame e paura. E poi, come hanno detto anche quei
professori, non c'erano solo i conti recenti da regolare. Il fascismo non era
mica cominciato nel '43! Era cominciato negli anni Venti, col terrore nero
nelle campagne, con le squadracce che picchiavano e uccidevano gli scioperanti.
C'erano vent'anni di conti in sospeso. Se ti interessano gli episodi della
Resistenza nell'Imolese perché non vai a parlare con Elio Gollini, all'anpi di Imola?»
«Lo trovo sull'elenco?»
«Sì. Lui tiene anche il cidra, il museo e archivio della
Resistenza e dell'antifascismo. Vacci, è molto bello.»
Mi annoto il nome sul taccuino.
«Hai poi sentito qualcuno sul discorso
dell'Indocina?»
Mirco annuisce, abbassa lo sguardo sulla
pavimentazione restaurata del cortile: «Mi sono ricordato che una volta
Giuliano Pajetta, responsabile del Settore Emigrazione di Botteghe Oscure, mi
accennò a degli italiani che erano andati a combattere là… Non disse niente di
più preciso. Non so se si riferisse alla prima guerra d'Indocina o alla guerra
del Vietnam. Però è un buon indizio.»
«Certo, molto interessante.»
«Poi ho fatto un po' di telefonate ad altri
espatriati nel dopoguerra. Ho sentito "il Topo". Lui ha avuto una
storia incredibile. Nel '46 è andato in Jugoslavia. A Trieste c'era il modo di
passare la frontiera. Poi nel '48, Tito esce dal Cominform e gli italiani che
erano riparati in Jugoslavia si ritrovano dalla parte sbagliata. Tito li ha
messi in galera. Il Topo c'è rimasto fino al '57.»
«Nove anni!»
Annuisce: «Tito si comportò da gaglioffo,
come già aveva fatto con i partigiani comunisti greci. Quando nel '47 gli
inglesi occuparono la Grecia, Tito chiuse la frontiera e si rifiutò di
accogliere i comunisti, che erano decine di migliaia. Ne accettò solo pochi,
che poi nel '48 sono finiti in galera insieme al Topo e agli altri italiani
perché erano stalinisti. Fu Stalin ad accogliere la maggior parte dei greci. Ho
saputo che fece costruire un grande campo d'accoglienza in Armenia, per loro e
per le famiglie. Quelli che non riuscirono a scappare in tempo furono tutti
passati per le armi dagli inglesi: si parla di migliaia.»
Mirco dice queste cose con un candore
assoluto, il tempo deve aver cicatrizzato molte ferite.
«Nel '57, quando i rapporti con la
Jugoslavia ormai erano distesi, Vidali e Longo, che avevano combattuto in
Spagna insieme a Tito, andarono a parlare con lui e gli chiesero di liberare
gli italiani detenuti. Così il Topo è uscito di prigione e poi è passato in
Cecoslovacchia.»
«Gli hai chiesto se sapeva qualcosa delle
Brigate Internazionali per l'Indocina?»
«Sì, ma lui appunto negli anni '50 era in
galera, quindi non poteva sapere niente.»
«Hai sentito qualcun altro?»
«Ho parlato con Aroldo Tolomelli
"Ernesto", che sta a Casalecchio anche lui. E' dovuto scappare in
Cecoslovacchia perché lo accusarono ingiustamente. E' stato là diciassette anni,
rifiutando ogni amnistia.»
«Alla faccia! E di cosa era accusato?»
Mirco dà ancora un'occhiata in alto,
all'ex-carcere nonché ex-convento, poi si mette a raccontare: «Nell'estate del
'48, durante uno sciopero nelle campagne della Bassa Bolognese, un agrario di
Bentivoglio aveva sparato ai braccianti. Nel pomeriggio del 14 luglio, in
occasione dell'attentato a Togliatti, Tolomelli, che era ex-partigiano e stava
nella Federazione del Partito, andò a fare un comizio a Bentivoglio, e in
serata si spostò ad Altedo per calmare gli animi in subbuglio dei compagni, che
minacciavano d'alzare barricate. Nella notte qualcuno sparò a quell'agrario,
senza colpirlo. Prima accusarono Tolomelli di aver capeggiato la sparatoria,
poi quando fu appurato che in quel momento lui stava parlando ad Altedo,
cambiarono l'imputazione da esecutore a mandante. Nell'estate '49 espatriò in
Cecoslovacchia e a Praga fu caporedattore di Oggi in Italia. Tornò solo
nel 1966 quando l'accusa decadde come inconsistente. E' stato senatore del PCI.
Ora è in pensione. Lui di cose ne sa parecchie, però mi ha detto che non ha mai
sentito parlare di compagni italiani che siano andati a combattere in Indocina.
» fa mente locale «Invece ho trovato il numero di telefono di Nerio Sarti, uno
della bassa imolese, che è stato in Cecoslovacchia con quel Teo di cui ti
dicevo.» Mi allunga un bigliettino. «Il suo nome di battaglia è
"Jack". Gli ho accennato alle tue ricerche. Chiamalo pure a nome mio,
mi conosce bene.
Alcuni ragazzi si affrettano verso l'uscita,
le lezioni mattutine sono finite. Mirco fa volteggiare lo sguardo sui piani
superiori.
«Pensa che io qui ci sono stato in prigione,
quando era ancora un carcere.»
«E che effetto fa tornarci per una
conferenza?»
Sorride: «Uno strano effetto.»
«Per cosa eri finito dentro?»
«Nel '53 ero addetto all'Ufficio Stampa del
Partito qui a Bologna. Facemmo un manifesto contro la legge truffa senza
chiedere l'autorizzazione alla questura. Così ci prendemmo una denuncia.
Siccome non si poteva mandare in galera il segretario della federazione, che in
teoria era il responsabile, mi offrii io volontario per andare dentro. Ero
giovane… In tribunale dissi che l'autorizzazione l'avevo data io e così mi
condannarono a dieci giorni. Mi misero con i criminali comuni…» sorride ancora
«Qui dentro mi rinchiusero anche in un'altra occasione. Mi presero durante una
manifestazione contro la nato in
Piazza Maggiore. Rimasi qui una sola notte. Il giorno dopo mi fecero le foto,
presero le impronte digitali e mi rilasciarono.»
Il rumore delle gocce sull'acciottolato del
cortile e l'odore intenso di pioggia mi sono sempre piaciuti. L'atmosfera è
stranamente ovattata, intima.
Mirco mi guarda di sottecchi: «Senti, devi
cavarmi una curiosità.»
«Certo, quale?»
Si dondola un po' sulle gambe e assume
un'espressione infantile. Un ragazzo di oltre settant'anni: «A te perché ti
interessano tanto queste storie?»
Mi viene da ridere. E' una domanda più che
legittima.
«Non lo so. Forse perché nessuno me le ha
mai raccontate.»
«Pronto, vorrei parlare con Nerio
Sarti.»
«Sono io.»
«Salve, sono Daniele Zani, un amico di
Graziano Zappi.»
«E chi è?»
«Graziano Zappi "Mirco", dell'ANPI
di Casalecchio.»
«Ah, Mirco. Sì, mi dica.»
«Non so se Mirco le ha detto che l'avrei
chiamata. Sto raccogliendo informazioni sugli emigrati politici nel
dopoguerra.»
«Sì, mi aveva accennato. Ma a lei queste
informazioni per cosa le servono?»
« E' una mia curiosità personale.»
«Guardi, non è che di queste cose la gente
ne parli volentieri…»
«Lo so, non voglio mettere in imbarazzo
nessuno. Non mi interessano i motivi dell'espatrio, più che altro le dinamiche,
le esperienze fatte all'estero.»
«Ho capito. Ma sa, sono faccende delicate.
Per esempio, cosa vuole sapere?»
«Lei quando è partito… e quando è tornato.»
«Sono partito nel ‘49 e sono stato via una
decina d'anni.»
«In Cecoslovacchia?»
«Sì.»
«Mirco mi ha detto che non è andato via da
solo, che con lei c'era anche Teo.»
«No. Teo è partito prima, e ha fatto una strada
diversa, forse la Jugoslavia. Ed è tornato anche prima… Nel '53 mi pare.»
«E in Cecoslovacchia cosa facevate?»
«Io lavoravo. In una fabbrica. Teo non lo
so, perché non l'ho mai visto. Sapevo che era in Cecoslovacchia e che il suo
nome falso era Arturo Mantovani, ma non ci siamo mai incontrati.»
«Senta, le risulta che da qualche paese
dell'Est siano mai partite delle Brigate Internazionali per l'Indocina?»
«Per l'Indocina? No. Mai sentito. Dalla
Cecoslovacchia no di sicuro e non mentre io ero là. Dopo non lo so.»
«Scusi se glielo chiedo, ma come fa a
esserne così certo?»
«Perché me ne sarei accorto.»
«Però mi ha detto che ad esempio Teo lei non
l'ha mai incontrato…»
«Teo faceva repubblica per conto suo. Non
era molto socievole. Anche quando ci siamo rivisti al paese, non abbiamo mai
parlato della Cecoslovacchia. Comunque io su queste Brigate Internazionali non
ho mai sentito nulla. Mi dispiace ma non posso aiutarla.»
«La ringrazio molto lo stesso. Se per caso
le tornasse in mente qualcosa, posso lasciarle il mio numero di telefono?»
«Facciamo che nel caso chiamo io Mirco.»
«D'accordo. Grazie ancora. Arrivederci.»
«Arrivederci.»
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