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Sentieri dell'odio
(La politica)
All'indomani del voto del 18 aprile '48
eravamo tutti alla sezione in attesa dei risultati elettorali. A Imola eravamo
ottimisti.
A un certo punto, dalla via Emilia sentiamo
il rombo di un motore e quando usciamo a vedere chi arriva, ci troviamo di
fronte Fusellato Giancarlo che sgomma con il suo guzzino. Si ferma, alza gli
occhialoni e urla: «A Potsèt t'al vutazió a' i' ave' avu' e ze't d'e ze't.
L'è un trio'f d'inpertót! ‘Stavolta a' i' ave' mesa in che pòst una
volta per toti!» [A Ponte Santo nelle votazioni abbiamo avuto il cento per
cento! E' un trionfo dappertutto! Stavolta gliel'abbiamo messo in quel posto
una volta per tutte!]
Poche ore dopo venne dato l'annuncio che la dc aveva ottenuto la maggioranza alla
Camera con il 48,5% dei voti.
Il Fronte Popolare si era fermato al 31%.
Quell'anno alcuni amici di mio fratello mi
convinsero a entrare nella fgci.
Sapevano che avevo grinta e che non mi tiravo indietro ed erano felici di avere
dei giovani determinati nelle loro fila.
Mi dettero il compito di diffondere Pattuglia,
il giornalino della Federazione che parlava di Resistenza. Ne vendevo
tantissimi. Andavo a San Giovanni, il covo dell'Azione Cattolica, e
tutti lo compravano, finché don Mino non se ne accorse e richiamò all'ordine i
parrocchiani.
Quasi subito, però, mi feci delle antipatie.
Troppe cose non mi stavano bene. Si iscrissero dei ragazzi che me li ricordavo
con la divisa da Balilla sul piazzale di San Cassiano. Non riuscivo a mandarla
giù. Adesso durante gli scioperi della Cogne li vedevi tutti con la tuta e L'Unità
in tasca, piegata in modo che si leggesse il nome del giornale. Mi facevano
ridere.
Alla sezione Ruscello si tenevano riunioni
interminabili. Prendeva la parola Mazzolani e parlava tre ore. Io ascoltavo,
con la pistola in tasca, e ogni tanto lo interrompevo: «Mazulé, quèd ch'
inzipiègna a fé d'la legna?» [Mazzolani, quando si comincia a fare
della legna?]
Enrico Gualandi, il figlio del Moro, badava
a rispondere che no, non era il momento, la guerra era finita e bisognava fare
la pace, bisognava ricostruire… Allora una sera mi sono stancato e ho
detto: «Mé an végn piò. Con chi oia da ricustruì? La guèra l'è finida,
ma vuièter a' i' avi' magnè stasira e mé no.» [Io non vengo più. Con
chi ho da ricostruire? La guerra è finita, ma voi stasera avete mangiato e io no].
Loro avevano la pancia piena, mentre io e la
mia famiglia facevamo la fame. Il sistema dei vasi comunicanti non
funzionava.
Lavoravo dodici ore, prima di andare a
quelle riunioni. Ma se dovevo stringere la mano ai fascisti, preferivo lucidare
un comò o una madia e tirare su due tre soldi.
L'anno dopo non rinnovai la tessera e feci
repubblica per conto mio.
Comunque, anche se non ero più dei loro,
quelli della Federazione continuarono a cercarmi, quando c'era bisogno.
Per la firma del Patto Atlantico a Imola ci
fu una grande manifestazione antiamericana. Mi chiesero di costruire una croce
uncinata di legno, immensa, da aprire in mezzo all'incrocio tra via
Selice e la via Emilia, in modo che prendesse tutta la strada e la si potesse
incendiare all'arrivo del corteo. Poi loro avrebbero fatto tutte le scritte, Ike = Hitler e così via.
Costruii questa svastica di 5 metri per
5, tutta ricoperta di stracci, con un gran bullone in mezzo, perché si potesse
ripiegare e aprire. La mattina presto andai a nasconderla lungo il muro di San
Giovanni e la inzuppai di nafta tutta quanta. Quando mi fecero segno io e il
mio amico Umberto Rana la portammo in mezzo alla strada. Avevo una scatola di
fiammiferi controvento, che tenevo come una reliquia per quelle occasioni. Accesi
il falò e mi tirai da parte.
In quelle manifestazioni lo schema era
sempre lo stesso. Da una parte arrivava il corteo, dall'altra la polizia. Si
fronteggiavano per un po', facevano muro uno contro l'altro, poi quasi sempre
scoppiava il tafferuglio.
Quel giorno il cuore dello scontro furono i
Forni.
Fu uno spettacolo, perché tutti quelli che
si rifugiavano dentro il cortile, ad ogni carica e controcarica uscivano lordi
di merda. Una donnona obesa nostra dirimpettaia si rifugiò nel cesso. Non c'era
mica la tazza, allora: due pietre con la forma del piede e un buco per terra.
Scivolò, ci cadde dentro col culone e non fu più in grado di rialzarsi. Alla
fine, dovettero chiamare i pompieri per tirarla su, perché nessuno ci riusciva,
il posto era stretto, tutto scivoloso di merda, e lei gigantesca.
A un certo punto, per riprendere fiato,
uscii dalla mischia e mi sedetti sul marciapiede. Di colpo, mi accorsi che
"Faina", un portaordini, mi stava venendo addosso con la moto. Mi
alzai in piedi, le gambe che tremavano, e rimasi immobile, con una mano in
tasca. Quel giorno non avevo la pistola, ma lui doveva pensare che l'avessi.
Infatti non ebbe il coraggio di venirmi addosso, virò bruscamente e il motore
gli scivolò via da sotto il culo. Cadde a terra, rialzandosi proprio di fronte
a me. Me lo trovai lì, ancora stordito, a gambe divaricate. Gli mollai un
calcio nelle palle, che cadde per terra mezzo svenuto.
Il commissario Massagrande, a venti metri,
vide la scena e urlò: «Quello là vuole fare l'eroe, addosso!»
Si precipitarono su di me, mi inseguirono e
ci trovammo vicino al cortile dei Forni da dove usciva la fiumana di gente
immerdata. I celerini mi raggiunsero e cominciarono a picchiarmi, ma ero
talmente eccitato che non le sentivo. Ne presi uno per il moschetto e per
strapparglielo cominciai a girare intorno, tanto da sollevarlo. Vidi Pucci di
fronte all'officina di Gallotti. Voleva aiutarmi, ma Ramero, il fabbro, lo
teneva stretto. Pucci doveva stare attento, perché da quando a Imola era
tornato Caprara, il fascista che aveva cercato di fucilarlo, era un sorvegliato
speciale.
Prima di perdere i sensi per le botte, mi
restò impressa l'immagine di Pucci che cercava di divincolarsi piangendo di
rabbia.
Mi risvegliai su un camion della polizia
insieme ad altri compagni. Non sentivo male, tanta era la rabbia che avevo in
corpo.
Se avessi portato via il moschetto al
celerino, avrei sparato.
Ma i più vecchi, anche quelli che erano
stati in Spagna, ci dicevano di stare calmi, che non era ancora il momento, e i
burocrati dicevano che la polizia ci provocava proprio per farci commettere un
passo falso e dare la scusa agli americani per invadere. Allora sarebbe finita
come in Grecia, dove i comunisti erano stati tutti massacrati.
Un funzionario cominciò a interrogarmi e a
minacciare mesi di galera.
«Cosa ci facevi in una manifestazione
politica? Come mai i tuoi genitori non ti hanno tenuto a casa?»
Non gradirono le mie risposte, e mi
mollarono molti ceffoni. Mi picchiavano in tre, mentre un quarto mi teneva
incollato alla sedia.
Proprio quel giorno mia madre aveva ottenuto
il permesso dal sanatorio di Budrio per passare qualche giorno in famiglia. Non
sapevo che l'avrei potuta rivedere, altrimenti sarei rimasto a casa ad
aspettarla.
I vicini le dissero che mi avevano bastonato
e arrestato.
La vidi entrare nell'ufficio del commissario
Massagrande con una violenza e con tali urla da spaventare chiunque.
«Caro commissario, non riuscirà mai a far
paura a mio figlio!»
«Signora, si calmi » provò a rispondere lui.
«Ne ha passate più lui di tutti voi messi
assieme. Se non lo fate venire a casa con me e riprendere il lavoro, vi porto
qui tutti i suoi fratelli con la tibicì, così potrete capire cos'è la
disperazione.»
Pochi attimi dopo mi riconsegnarono a mia
madre. Appena fuori ci abbracciammo, ma poi mi prese a pedate, perché ero uno
dei pochi sani della famiglia e dovevo pensare al lavoro, invece che alla
rivoluzione.
La situazione politica di quegli anni era
molto tesa, e in più occasioni si sfiorò il ritorno alla lotta armata.
Dalla sconfitta del Fronte Popolare in poi,
ogni settimana c'era uno sciopero o una manifestazione. In molte città italiane
la polizia non esitava a sparare sulla folla e uccidere. A Imola si rimediavano
un sacco di bastonate, ma pallottole mai, perché Bob aveva avvertito
Massagrande che se qualcuno dei suoi fosse morto, i responsabili
avrebbero pagato caro.
Lui era sempre davanti a tutti. Si metteva
in mezzo alla strada, mentre la Celere avanzava con le camionette e non si
spostava. In via Cavour gli arrivarono fino a dieci centimetri, ma lui non si
mosse. Se lo avessero toccato scoppiava un'insurrezione.
I poliziotti utilizzati per reprimere i
cortei e le dimostrazioni erano quasi tutti ex-fascisti. Lo stesso commissario
Massagrande era stato un repubblichino.
Con l'attentato a Togliatti si arrivò
davvero a un passo dalla guerra civile.
In due ore Imola era mobilitata. Stavo
lavorando quando arrivò uno a gridare: «Hanno ammazzato Togliatti, hanno
ammazzato Togliatti!»
Quelli che avevano nascosto delle armi
corsero a prenderle. Quasi tutti avevano almeno una pistola o un fucile.
Per i giorni successivi, le forze
dell'ordine e i preti non si fecero vedere.
I mucchi del pattume restavano sui
marciapiedi perché nessuno passava a prenderli. La città era paralizzata. Sulle
strade principali c'erano i posti di blocco dei partigiani.
Poi il partito disse di fermarsi.
Sarebbe stato un disastro, si rischiava di
prendere in mezzo anche chi col fascismo non aveva niente a che spartire. Le
cose più strampalate, infatti, le dicevano quelli che sotto il regime erano
stati zitti e adesso facevano i grandi compagni: «Mettiamo il ciocco in piazza
e tagliamo la testa a tutti!»
In quei giorni io ero per conto mio, troppo giovane
per essere inquadrato nel partito. Stavo con alcuni coetanei, amici che a
insurrezione finita, quando scattarono le perquisizioni, buttarono via le armi
e fecero finta di non conoscermi.
I vecchi antifascisti pensavano che si
sarebbe fatta la rivoluzione. Pirì Bérba quando lo andai a cercare era in
bottega che oliava le armi.
Se Togliatti fosse morto e non avesse fatto
in tempo a dire nulla, poteva succedere qualcosa di grosso. Poi certo,
sarebbero intervenuti gli anglo-americani, ma intanto avremmo grattato via un
bel po' di sporcizia.
In quel momento non mi sarebbe dispiaciuto
morire combattendo. L'alternativa, per me, era la tibicì e una vita di piattole
e fame.
Quelli del Partito continuavano a cercarmi.
Un bel giorno mi avvicinò uno che era stato alla battaglia di Ca' di Guzzo e mi
offrì di andare alla scuola di partito a Bologna. Venti giorni spesati e la
paga rimborsata.
Accettai.
Fino ad allora, avevo considerato Togliatti
come dio. Tutti i vecchi comunisti erano degli idoli. I problemi del partito
nascevano dai burocrati, dagli opportunisti e dalla base rammollita, non dai
vertici. In quei giorni vidi che c'erano anche altre cose che non funzionavano.
Prima di tutto fui separato da mio cognato
Vero, che era reduce da Mauthausen e ancora molto debole psicologicamente. Ci
misero in due classi diverse, perché dovevamo abituarci a "non ricevere
favoritismi".
Poi si riempivano sempre la bocca di Marx ed
Engels. Mi insegnavano la storia del marxismo, come era nata la classe operaia,
come si doveva difendere dal potere capitalista. E a me parevano già loro
capitalisti, tutti arrivati, tutti vestiti bene, ‘sti ragazzi, con la giacca e
la cravatta.
No, neanche quella era la mia strada: io ero
un diseredato.
Allora smisi di andare e rifiutai le tremila
lire di rimborso.
Continuavo a chiedermi quando avremmo
cominciato a fare sul serio, ma non succedeva niente.
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