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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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  • PRIMA PARTE
    • 35 Imola, 5 marzo 2000
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Imola, 5 marzo 2000

 

 

Elio Gollini, nome di battaglia "Sole", è bonario e disponibile. Ma dietro le lenti spesse e l'aria innocua si cela uno dei capi delle SAP di Imola, oggi dirigente dell'ANPI locale e presidente del CIDRA, archivio e museo della Resistenza e dell'antifascismo.

Una mente temprata da anni di meticolosa archiviazione: libri, opuscoli, manifesti, reperti bellici, uniformi. Quando preme l'interruttore e i neon illuminano le sale, si scopre un piccolo tesoro di storia.

Siamo da soli, ad aggirarci nel museo.

«Qui vengono soprattutto le scuole.» mi dice «Tante. E io racconto i fatti della lotta di liberazione e del Novecento.»

Su una parete è riprodotto un plastico della Linea Gotica, con le battaglie e le linee di avanzata degli Alleati e dei partigiani.

Ci sono vecchie radio e macchine ciclostile, con cui Sole stampava clandestinamente il bollettino del Partito Comunista. Nelle teche: bombe a mano, mine anticarro, pistole, fazzoletti rossi, divise dei campi di concentramento. Poi i manifesti della propaganda fascista, editti che incitano alla delazione contro i "ribelli" e i "banditi", mappe e fotografie, tantissime.

Si aggira per le stanze illustrandomi tutto con perizia assoluta: se al telefono ha esordito con un "non so se potrò esserle d'aiuto", sono bastate poche domande per farlo partire a briglia sciolta e adesso non si ferma più. Il taccuino si riempie di appunti e annotazioni, tanto che decido di ricorrere al registratore.

 

«Sono entrato nel Partito Comunista nel '43, in conseguenza di un fatto successo alla Cogne. Io lavoravo lì come fresatore e la Cogne era una fabbrica di produzione bellica, quindi sottoposta all'ordine militare. Fui protagonista di uno sciopero individuale. Allora non avevo ancora coscienza politica, avevo appena diciannove anni, ma quando il caporeparto cominciò a insultarmi e a lagnarsi del ritmo di produzione, e tarò la mia macchina perché andasse più veloce, io incrociai le braccia. Avrei dovuto lavorare a un ritmo disumano, era inaccettabile. Rimasero tutti sconvolti da quel gesto, gli altri operai e i sorveglianti, perché nessuno lo riteneva possibile. "Come? Come puoi sottrarti al lavoro? Sei matto? Guarda che finisci male!", e così via. Invece io rimasi proprio lì, in piedi, accanto alla macchina, con le braccia incrociate per tutte le otto ore.

Pochi giorni dopo arrivarono i carabinieri a casa e mi arrestarono. Finii nel carcere di San Giovanni in Monte, a Bologna, con l'accusa di "rivolta in stabilimento militare" e "offese al caporeparto". Per fortuna trovai un buon avvocato, che mi fece assolvere per insufficienza di prove: non potevano dimostrare che avessi incitato ii compagni a seguire il mio esempio, né che avessi maltrattato il caporeparto. Semplicemente mi ero sottratto al lavoro. Era stata una rivolta personale. Così dovettero rilasciarmi.

Quando tornai a Imola, fui avvicinato da Francesco Sangiorgi, che di lì a poco sarebbe diventato uno dei promotori della Resistenza imolese, insieme a Giovanni Nardi "Caio". Sangiorgi mi diede una copia di estratti da Il Capitale e una del Manifesto del Partito Comunista e mi disse che se li trovavo interessanti avrei potuto aderire al partito. Provai a leggere Il Capitale, ma era troppo complicato per me. Invece trovai molto interessante Il Manifesto. Così, dissi a Sangiorgi che se i comunisti volevano combattere i tedeschi e realizzare quello che c'era scritto lì dentro, a me poteva stare bene e avrei aderito al loro partito.

Subito dopo l'8 settembre, la prima operazione a cui partecipai fu il recupero delle armi abbandonate dall'esercito italiano che si disfaceva. Le nascondemmo per quando ci sarebbero servite. I tedeschi occuparono Imola quasi subito e il 14 settembre '43, guidati dagli informatori fascisti, fecero il primo rastrellamento di antifascisti in città. Nardi e Sangiorgi erano in cima alla lista, ma riuscirono a scappare. Decisero che sarebbero andati in Istria, a combattere con i partigiani jugoslavi e così fu.

L'esperienza però durò poco. Sangiorgi morì lassù e Nardi tornò con la convinzione che ognuno doveva fare il partigiano a casa sua, dove conosceva bene il territorio e aveva contatti tra la popolazione.

Il 4 novembre, un gappista uccide un Seniore della Milizia fascista, in via Sassi a Imola. I tedeschi scatenano la rappresaglia, arrestando cinquanta persone. Da quel momento è conflitto aperto. Cinque antifascisti imolesi vengono fucilati al Poligono di tiro di Bologna.

Nello stesso mese il primo nucleo di partigiani, guidato da Caio, sale verso il monte Faggiola, e s'insedia a Cortecchio, in un casolare chiamato "Albergo". Nelle intenzioni di Caio doveva diventare il centro di reclutamento per la brigata partigiana. Ma l'inverno è troppo rigido e il gruppo, guidato da Andrea Gualandi, si trasferisce sulle montagne romagnole dove c'è l'VIIIa Brigata. Caio ritorna a Imola e a gennaio risale con un secondo gruppo, insediandosi di nuovo all'Albergo.

Con lui ci sono Luigi Tinti "Bob", Graziano Zappi "Mirco" e Dante Cassani "Gario" di Bubano, "Libero" da Riolo Bagni e Orlando Rampolli "Teo" da Sesto Imolese, che poi si distinguerà nella battaglia di Ca' di Guzzo.

Il 23 febbraio una spiata provoca un rastrellamento. Duecento fascisti circondano la casa in cui si trovano venti partigiani e un cagnolino di nome Tito. Gario e Libero rimangono uccisi. Due giovani bolognesi sono fatti prigionieri e portati in un lager. Tra i fascisti viene colpito a morte Brina, uno dei loro capi, uno squadrista che aveva fatto la marcia su Roma.

 I partigiani superstiti, guidati da Caio e da Bob, si ritrovano a Monte Mauro e raggiungono l'8a Brigata sul Falterona e sul Fumaiolo.

Tornati sulla Faggiola a metà aprile, vi troveranno il raggruppamento partigiano della 4a Brigata comandato da Libero Lossanti "Lorenzini".

In maggio, fascisti e tedeschi organizzano un rastrellamento nella zona. Caio viene ucciso in combattimento e poco dopo anche Lorenzini muore in un agguato. Il comando militare della brigata, ridenominata "Trentaseiesima", passa a Bob, mentre Guido Gualandi "Il Moro" assume le funzioni di commissario politico.

Ma intanto anche in città e nella bassa avevamo cominciato a darci da fare. Dall'inizio dell'anno stampavamo clandestinamente il giornale La Comune e lo diffondevamo nelle fabbriche o lo affiggevamo per le strade di notte. I gap facevano azioni.

Il 29 aprile i Gruppi di Difesa della Donna organizzano una manifestazione per il pane e per la pace. I militi della Guardia Nazionale Repubblicana sparano sulla folla uccidendo Maria Rosa Zanotti e Livia Venturini. I tedeschi mettono la città in stato d'assedio.

Sulle montagne, Bob e i suoi continuano gli attacchi ai convogli tedeschi, le incursioni nei paesi, il sequestro e la ridistribuzione dei raccolti tra i contadini, oltre a sostenere vere e proprie battaglie con i tedeschi e i fascisti. Allo scadere del termine di presentazione per i renitenti alla leva della rsi, un sacco di giovani salgono in montagna con loro e le fila si ingrossano. La Trentaseiesima arriva a contare 1600 effettivi.

In città potenziamo l'azione dei gap prima, e delle sap, poi. Quando pensi ai partigiani, pensi subito alla guerriglia sui monti, ma noialtri rischiavamo più di tutti. Dovevi agire nella segretezza più assoluta, continuando a vivere gomito a gomito col nemico. Pensa solo che potevano scoprirti in ogni momento e prelevarti in un attimo. Era pericolosissimo: attentati dinamitardi, uccisione di capi fascisti, sabotaggio delle macchine e delle vie di comunicazione, organizzazione di scioperi nelle fabbriche. Poi, quando gli Alleati sono stati vicini, abbiamo svolto compiti informativi molto importanti. Molte delle mappe che vedi appese di là, le ho disegnate io. Erano per il comando alleato, li informavo sugli obiettivi da colpire e su quelli già colpiti, relazionavo sugli spostamenti di truppe tedesche, eccetera, eccetera.»

 

Sole è un fiume in piena. Lo interrompo: «Potresti parlarmi dei partigiani che hai conosciuto meglio o di cui conosci più particolari?

«Vieni, te li faccio vedere.»

Mi accompagna davanti alle fotografie in bianco e nero.

«Questo è "e Mór", il Moro, Guido Gualandi. Il commissario politico della Trentaseiesima.»

Fisso il ritratto: profilo aguzzo, capelli folti corvini, sparati in alto, occhiali da sole tondi e fazzoletto al collo sulla divisa militare. L'aria dell'intellettuale parigino, ma con la grinta del partigiano romagnolo. In un'altra foto è in tenuta "estiva", maniche arrotolate, pantaloncini corti, pistola in pugno e sguardo in macchina. Un mezzo sorriso e i capelli dritti sulla testa.

«E questo è Bob.»

Sole indica una foto di gruppo. Una dozzina di partigiani magri e stazzonati che cercano di sorridere. Dietro, una casa colonica col tetto di pietre.

«Quale?»

«Questo» mi indica il più basso e mingherlino di tutti. E' a torso nudo, un fascio di nervi, mani infilate nelle tasche dei pantaloncini, testa leggermente inclinata a lanciare uno sguardo torvo, determinato, sotto il ciuffo ribelle. Un duro. Un James Dean pistolero e comunista.

«Bob era uno che non andava tanto per il sottile. Aveva ventiquattro-venticinque anni e in brigata era uno dei più vecchi. Andava avanti con la forza di volontà, perché era di salute cagionevole. Aveva la tibicì e in montagna prese anche la malaria. Ma aveva il diavolo in corpo. E' stato un capo carismatico.»

Passa al pannello successivo e indica altre foto: «E poi c'erano le donne.» un sospiro e il tono di chi vuole sottintendere molte cose: «Senza le donne saremmo stati persi… Non avremmo combinato niente.

Nella foto il Moro è al centro di un gruppo di ragazze. "Le staffette della 36a Brigata". Ai due lati del gruppo i partigiani chiudono il quadretto. Colpisce la cura per l'aspetto che dimostrano le ragazze, al contrario dei compagni, trasandatissimi. Vestiti modesti, ma puliti, tutte pettinate e dignitose. Nessuna dimostra più di vent'anni.

Mi volto per chiedere a Sole se conosce qualche nome, ma è sparito. Ritorna con un libro tra le mani.

«Ecco, guarda, in questo libro si parla delle donne nella Resistenza imolese.» Mi mostra una foto: Imola, centro cittadino, fine anni Quaranta. La strada è occupata da uno schieramento marziale. Davanti, disposte su sei file, le staffette, coi fazzoletti al collo e molte con gli occhiali scuri da "dure". Dietro, nello stesso ordine, gli uomini, guidati da Bob e dal Moro, anche lui con le immancabili lenti nere. Impressionante.

«Sai, soprattutto noialtri in città, ci siamo avvalsi moltissimo delle donne, perché insospettivano meno, non avevano il problema della renitenza alla leva e della clandestinità. Per trasportare le armi e gli esplosivi erano fenomenali. Quando poi stampavamo La Comune e i volantini, erano sempre loro a portarli in giro e a distribuirli.» Mi lascia il volume e torna nella biblioteca a cercare altro materiale.

Sfoglio il libro, Per essere libere di Livia Morini. Le immagini e i pensieri arrivano da un'altra era, e sono talmente tanti e affastellati, da travolgerti.

Leggo stralci a caso.

 

… Il giorno che mi è rimasto più impresso di tutta la mia partecipazione alla Resistenza - continua Maria - è stato il 29 aprile 1944 quando, nella piazza di Imola vi fu la manifestazione delle donne che Nella Baroncini e Prima Vespignani avevano preparato con tanta cura. Ricordo che quella mattina c'erano tutte le  bancarelle in piazza. Gli ambulanti si erano fatti coraggio: "Quante donne ci sono stamattina!". Una donna cominciò a chiamare il responsabile dell'Ufficio Annonario e tutte a gran voce cominciammo a urlare: "Fuori! Fuori!". Io e due compagne di Bologna eravamo assieme, lì in mezzo. Sentimmo degli spari: i fascisti avevano ucciso Rosa Zanotti ma non ce ne accorgemmo. I pompieri avevano avuto l'ordine di darci addosso l'acqua ma uno di loro ci disse: "Lascio libero il tubo, prendetelo voi". C'era tutta la fila dei fascisti davanti. Ci buttammo sul tubo e lo rovesciammo indietro contro la ganga. I fascisti spararono ancora e ferirono Livia Venturini che mi cadde sui piedi. Tutte le donne cominciarono a urlare e disperdersi. Noi eravamo rimaste là in mezzo e non ci eravamo accorte che i tedeschi avevano circondato la piazza. Il 13 giugno Livia morì.

 

Sfoglio ancora.

 

Ermelinda: la mia casa divenne una base. Era il ritrovo di tutti. Venivano i giovani, venivano i partigiani. Un giorno Ezio mi disse: "Bisogna formare i Gruppi di Difesa della Donna". E così assieme a Ines, Lea, Iris e a tante altre compagne che purtroppo sono morte, riuscimmo a formare un buon gruppo organizzato: il nostro primo compito fu quello di procurare indumenti di lana, medicinali, viveri, denaro. Eravamo un buon gruppo; le riunioni le tenevamo un po' a casa dell'una e un po' a casa dell'altra. Molte giovani, delle ragazzine addirittura, furono organizzate da Enea Dallavalle nel gruppo delle Sappiste. Le ragazze avevano il compito di distribuire i volantini di propaganda antifascista e di attaccarli fuori.

[…]

In Rocca mi fecero subire la tortura del "bagno". Mi portavano su nel torrione e mi facevano fare il bagno, nuda, in una vasca. Figurati, eravamo in febbraio! Faceva tanto freddo e l'acqua era gelata al punto che rompevo il ghiaccio con il sedere. Poi mi lasciavano tutta la notte così bagnata e nuda in cella e sai cosa facevo per scaldarmi? Mi raggomitolavo tutta e mi mettevo il materasso addosso, piegato in due: metà sopra e metà sotto.

[…]

…mi portò un'altra volta dentro la sala che chiamavano "e scurgatori" perché era lì che interrogavano, torturavano, massacravano. Là c'era Ravaioli. […]. Ravaioli mi fece svestire ancora…

[…]

Una mattina, dopo che mi avevano interrogata a lungo ed ero sfinita dalle botte, accomodata male dalla fame e dalla paura, venne in cella Lorenzo il muratore che credo fosse anarchico e lavorava in Rocca. Mi disse: "Lea, mi manda tuo padre" e allora io gli dissi: "Dite a babbo che stia tranquillo che non ho detto niente" e allora lui disse: "Brava". "E poi ditegli che se io muoio sappia che quello che ho fatto l'ho fatto perché ero convinta che fosse giusto".

 

Quando richiudo il libro ho la sensazione di aver toccato della carne viva, di essermi intromesso in qualcosa di privato, di intimo.

Distolgo la mente. Penso che in effetti l'immagine istituzionale e manualistica del partigiano è quella del guerrigliero montanaro, cara anche all'immaginario "guevariano" della generazione successiva. Non ti viene da pensare ai gap e ai sap e tanto meno alle donne. Devi fare uno sforzo, devi fare mente locale e pensarci.

Lo sguardo cade sul pannello successivo. Corpi straziati, di fianco alle fotografie di come erano da vivi. Rabbrividisco.

«Il Pozzo di Becca » mi dice Sole.

«Sono i corpi degli antifascisti presi dalla Rocca e gettati nel pozzo? Mirco mi ha raccontato la storia. E' per questo che la folla linciò la Brigata Nera di Imola.»

Sole annuisce, lo sguardo sfuggente: «Quella è stata una storia cruda. Ci sono ancora dei punti oscuri.»

«Dei punti oscuri?»

«Sì, insomma, nel corso degli anni io ho fatto fare varie ricerche, anche a Venezia, a Verona, a Roma, perfino a Washington, per consultare archivi, non tutti disponibili, e un'idea alla fine me la sono fatta.»

 





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