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Vitaliano Ravagli -Wu Ming
Asce di guerra

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Prologo

 

 

 

 

Europa orientale, località ignota, 1956.

 

L'ordine di imbarco arriva a notte alta. Un quadrimotore di fabbricazione sovietica, residuato della guerra mondiale. Proveniente dall'Albania. Forse.

Ci stipiamo alla meglio tra casse di medicinali, croce rossa su un lato, stella rossa dall'altro. Niente oblò.

Nessuno parla. Ognuno avvolto nei propri pensieri.

Lotto con il senso di colpa. Penso a cosa lascio alle spalle, mia madre e mio padre, i miei fratelli. Non sapranno più niente di me, né io di loro. Ufficialmente non siamo mai saliti su questo aereo, non siamo mai stati addestrati, non esistiamo. Quindi non possiamo morire. Nessuno comunicherà ai familiari la nostra morte: è la regola.

L'aereo divora la pista lanciandosi nel buio.

 

Si gela, trattengo il vomito. Mi accascio vinto dalla pressione e dal frastuono dei motori.

Oltre i vetri della cabina intravedo le luci di una grande città.

Imola è lontana, un altro mondo.

La stanchezza degli ultimi giorni pesa nella testa e sugli occhi. Tutt'intorno, sguardi fissi, puntati su niente.

Gli eroi che ho sempre desiderato imitare sembrano più vicini. Il paese è diverso, lontano come Marte, ma lo spirito è lo stesso. Ragazzi che alla mia età hanno imbracciato le armi e combattuto da partigiani.

Teo, il maggior responsabile di questa avventura, ha resistito con pochi altri contro un battaglione di tedeschi, con tanti compagni paralizzati dal terrore, incapaci di reagire.

Geppi è sfuggito alle Brigate Nere grazie al piccolo gregge che pascolavo dalle parti di Cuffiano. Pietro, mio fratello, se l'è fatta sotto e dice di aver sparato si e no dieci volte, ma c'è stato anche lui, lassù, nell'inverno del '44.

Il Moro e Bob, vere e proprie leggende.

Al Bar Nicola, detto il Cremlino, restano quelli con la rivoluzione sulle labbra e le armi in giardino, sempre pronte a sparare, ma buoni soltanto di sfogliare l'Unità, accusare i punti del tresette e buttar giù un bicchiere di Albana tra le risate. Dicono di aver conosciuto la fame anche loro, ma a mala pena sanno cosa sia l'appetito.

Ora sono più vicini quel bambino di dieci anni e quella donnina, always to go, sempre andare, in mezzo alla neve e alle granate. Mia madre ed io, nel lungo inverno sul nostro Little Big River, a cercare viveri per le larve umane strette insieme a noi nel rifugio. Oggi torno ad essere qualcuno.

I carabinieri saranno già passati più volte. Vostro figlio è fuggito dalla caserma del 9° CAR di Bari, avete idea di dove possa trovarsi ora? No, niente. Non immaginano neppure. Forse non rivedranno nemmeno il mio corpo,  neppure un pezzetto.

Il corpo straziato di Minghiné, trucidato dalle Brigate Nere nel pozzo di Becca.

Aggiusto lo zaino sotto la testa e chiudo gli occhi.

L'agitazione si spegne, sopraffatta dal sonno.

 

 

Asia centrale, località ignota (steppa del Kirghizistan?), 1956.

 

Metà mattina. Il quadrimotore rolla su una pista malmessa in mezzo a una sterminata pianura arida.

Ci fanno scendere e ci portano in un hangar, dove ci accolgono soldati russi. Ci ordinano di spogliarci e lasciare i vestiti borghesi in un sacco col nostro nome. Forse per darci l'illusione che torneremo a prenderli.

Dopo una doccia fredda, ci incolonnano nudi uno dietro l'altro, fino a un lungo tavolo su cui sono ammassati indumenti militari. Gli addetti alla distribuzione sono gentili, ci rivestono con divise estive molto belle: pantaloni di tessuto grigio scuro, camicia verde e giubbotto mimetico, scarponi anfibi, robusti ma leggeri, alti fino a mezza gamba. I pantaloni sono imbottiti fino al ginocchio, con sfiatatoi ai lati che permettono all'aria di circolare.

Poi ci portano alla mensa e finalmente mangiamo a volontà. Il cibo è servito su vassoi di acciaio con molti scomparti. Verdure, margarina, caviale e vodka in abbondanza.

 

E' sera. Bisogna riprendere il viaggio. In fila indiana ci avviamo verso la sagoma scura dell'aereo. Soldati dell'Armata Rossa, schierati in perfetto ordine, a un cenno del comandante ci presentano le armi e intonano l'Internazionale assieme ai civili della base.

Piango di commozione, e con me gli altri: diciassette italiani, quattro spagnoli e nove tedeschi in viaggio verso il nulla. Qualcuno cerca di parlare, per sciogliere la tensione, ma la lingua è incerta e i pensieri troppo diversi, comunicare è difficile.

Nei giorni dell'addestramento militare ci è stato consigliato di non fare amicizia tra noi, perché giunti a destinazione verremo separati. Inoltre se un compagno dovesse caderci al fianco in combattimento, non potremo prestargli soccorso. Questa la direttiva.

Montare e rimontare il caricatore, infilare i proiettili, sostituire la canna rovente del Bren, sparare. In pochi giorni ci hanno trasmesso le nozioni elementari sull'uso delle armi. Nient'altro.

Il vero addestramento lo faremo combattendo.

 

 

Asia centrale, località ignota, 1956

 

L'aereo si è fermato di nuovo.

Dove siamo?

Quanto tempo è passato?

Brucio di febbre, la nausea mi squassa.

Pensieri e volti si accavallano nel dormiveglia.

Il viso di Pucci, straziato dalle lacrime, mentre i compagni lo trattengono a forza. Tra la selva di gambe dei celerini, quell'immagine si imprime nel cervello. Le casse dei moschetti colpiscono più forte, corvi neri su una piccola preda.

Il partigiano sconosciuto che col calcio del fucile rompe la faccia alla suora che nascondeva le provviste.

Toni il falegname, che mi ha insegnato l'odio per i fascisti.

Pirì e Gardlìna che fanno il tiro a segno dietro la bottega e si allenano alla rivoluzione.

Le armi. Le prime armi.

E Cornetti e Mezanòt.

E Cito che non ha parlato. Non ha fatto quei nomi e si è salvato per miracolo.

Ora anch'io sarò messo alla prova. Potrò dimostrare di essere all'altezza.

 

 

Asia centrale, località ignota, 1956

 

Scendiamo dall'aereo. Un caldo torrido. Ci portano al bagno, poi veniamo riforniti di cibo e bevande. Dobbiamo sottoporci a una breve visita medica, per valutare stato di salute e forma fisica. Un infermiere ci pratica un'iniezione nella mammella sinistra. Febbre gialla o qualcosa di simile. Nelle prossime ore dovremo rimanere a riposo per smaltire gli effetti della "bomba".

Davanti a me nella fila c'è un ragazzo delle mie parti, Budrio lo chiamiamo, teso. Si comporta strano, non parla e quando tocca a lui pare debba salire al patibolo. La visita è breve: i medici riconoscono subito i sintomi della tibicì. Il clima umido non gli darà scampo, e anche se dovesse sopravvivere alle insidie della guerra, in capo a pochi mesi i polmoni lo condannerebbero. Non può proseguire, sarebbe un suicidio, deve tornare a casa.

Si rivolge a me: «Diglielo te Gap, che sai un po' d'inglese, diglielo che non voglio tornare indietro. Digli che non mi importa di morire, che sono fatti miei!»

«Ma perché? Torna a casa a curarti, si può guarire, i miei sono guariti.»

Il volto irregolare, spaventoso, stravolto in un'espressione disperata: «Non mi ci fanno tornare a casa. Cosa gliene importa di uno come me? Appena partite mi buttano in un fosso e buona notte. Non voglio morire così, Gap. E poi, anche se torno indietro, a casa non ho nessuno. Vado a crepare in un letto d'ospedale…»

So cosa significa: plastica polmonare e anni di sanatorio. Come mia madre e mio fratello Domenico. L'immagine delle loro schiene straziate e deformi. Lo guardo con pena infinita. Nemmeno lui vuole morire come un patacca, reietto nel proprio paesino.

Meglio con le armi in pugno.

Dico qualche parola nel mio inglese stentato: «He want die in the war. » Fatelo morire combattendo.

Il medico si commuove, e anche tutti noi. Sguardi bassi.

Budrio può continuare.

 

Ho dormito quasi tutto il tempo. Una notte e un giorno. Adesso mi sento bene, niente più angoscia né agitazione, il respiro è regolare. Sono sereno e provo un senso di profonda soddisfazione per avere fatto questa scelta. La famiglia, il bar Nicola e le fighe sono molto lontani, non mi mancano più. Buon segno. Da adesso in poi non ci sarà tempo per la nostalgia.

Ci chiamano all'imbarco. Bisogna andare.

 

La voce dell'istruttore squilla sopra il rombo dei motori in alta quota. S'arrangia poco con le lingue, ma la lezione è soprattutto pratica. Smonta e rimonta il fucile mitragliatore facendolo volteggiare con naturalezza. Quando i proiettili traccianti cominciano a impennarsi significa che la canna si è surriscaldata e va sostituita. Nei combattimenti prolungati sarà indispensabile farlo con rapidità, ma con tutta l'abilità del mondo non è possibile in meno di sessanta secondi. In quel minuto non si potranno appoggiare i compagni, dunque è fondamentale scegliere il momento giusto, ne va della vita di tutti.

Entro pochi giorni ci troveremo di fronte nemici di varie nazionalità: soldati francesi, legionari tedeschi, marocchini e senegalesi. Veterani con anni di guerra alle spalle. Non potremo permetterci errori.

Soprattutto non possiamo sperare nella Convenzione di Ginevra. Ci attende una guerra senza regole né prigionieri, alla quale ufficialmente non partecipa nessuno. Una guerra che non esiste.

Discorsi che tolgono il sonno, ma non scalfiscono il senso di pace che ho acquisito. Ormai la scelta è fatta. Ed è quella giusta.

Budrio sogghigna nella penombra.





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