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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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4 Bologna, 20 gennaio 2000, 3.55 a.m.
Il dopoguerra. Gli anni Cinquanta. Avrei sempre voluto intervistare mio nonno. Ho rimandato fino a che non è stato troppo tardi. E così, a trent'anni, ti ritrovi con la sensazione di aver perso qualcosa, come smarrire il filo del discorso durante un'arringa. La stessa sensazione. Gli anni Cinquanta. Il cinema mi trascina in un buco nero. Esistono altri film come La banda Casaroli? Sicuramente poca roba. Fantasmi. Di quel decennio, l'uso politico della memoria ci ha consegnato un'immagine piatta, lontana, distorta. La decade ingenua e scanzonata di Poveri ma belli. Quella melensa e dalla lacrima facile dei film di Matarazzo con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson. L'Italietta onesta, laboriosa, che si crede alleata delle grandi potenze occidentali mentre ne diviene colonia. Italietta stupida, con un piede ancora nel fascismo (stessi codici, stessi prefetti, stessi questori) e uno a mezz'aria, sul ciglio di nuovi baratri chiamati «modernità». Bella Italia da cartolina, forse un po' ammorbata dalla presenza dei comunisti, guastafeste che rovinano l'atmosfera di concordia generale. Ma anche su di loro si può spargere abbondante melassa ridanciana. Il compagno Peppone da Brescello. L'intero ciclo di Don Camillo viene riproposto con cadenza ossessionante sui canali Mediaset, a ogni campagna elettorale. Curiosa coincidenza. Un esplicito intento anti-"comunista"? Può darsi. Ma il messaggio recepito è diverso, se possibile ancor più reazionario. Com'era semplice e bonario, il conflitto. Com'era... rustico. La guerra fredda si poteva sempre riscaldarla con un bicchiere di Lambrusco in osteria. Le ideologie passano, ma noi italiani sempre Brava Gente, la mamma, la famiglia, il bar e un prete nelle immediate vicinanze. Condannati a un eterno democristianismo, qualunque accozzaglia si trovi al governo. Don Camillo e Peppone li si riguarda sempre volentieri. Fanno ridere.
Dal ‘48 al ‘54, le forze dell'ordine uccisero circa un centinaio di persone (la maggior parte scioperanti e manifestanti, ma anche semplici passanti), ne ferirono migliaia, ne arrestarono o fermarono più di centomila. Di questi, i tribunali ne condannarono circa la metà, per un totale di decine di migliaia di anni di carcere, tra cui molti ergastoli. E' stato il bisogno di tranquillità, di figure rassicuranti, di pace sociale e politica a cristallizzarsi nel cinema, mentre tutto ciò che non assecondava quel desiderio veniva rimosso, censurato? Perché non era l'Italia di Peppone e don Camillo ma quella "con più armi sotto terra che patate". Un paese che sognava Peppone, ma aveva i morti per le strade, sognava don Camillo, mentre scomunicava i comunisti. Il cinema assecondò i sogni e ignorò il resto: era troppo duro perché il pubblico aspirasse a sentirselo raccontare, oltre che a viverlo. Certo, la censura clericale e di stato picchiava duro: Totò e Carolina di Monicelli non venne distribuito perché accusato di vilipendere le forze di polizia. Non era facile esprimersi. C'era la commedia satirica, ma col tempo la satira ha perso incisività, anche i film più caustici sono ormai elementi del fondale, l'ennesima rassicurante presenza degli Italiani Brava Gente.
Quando m'imbatto nel conflitto, fatico a riconoscerlo. Il «neorealismo». Ripenso ai film di Rossellini, De Sica e compagnia. Pezzi di storia del cinema, d'accordo, ma non mi restituiscono nulla del far west che trovo nelle cronache. La messa in scena di una miseria che oggi appare poetica, glamourizzata. La povertà non è poetica. E' squallida, anti-estetica, puzza. Francescanesimo e zdanovismo hanno inquinato l'immaginario. Non solo. Lo scorrere degli anni modifica il senso degli enunciati. Dolce vita oggi è sinonimo di spensieratezza. Il film di Fellini invece non è certo un grido d'amore per una società squallida e zuccherosa, e Roma è una puttana di quart'ordine. E allora? Allora è successo che nel ricordare, chi era giovane in quel decennio si è lasciato prendere dalla nostalgia. Quando sei vecchio gli anni della giovinezza ti sembrano sempre belli, e li rimpiangi qualunque cosa sia successa. Così, con i loro sospiri, i nostri nonni e genitori ci hanno raccontato un'altra storia e nessun film, qualche libro, hanno provato a smentirli. Anche per questo l'intervista al padre di mio padre è un'occasione mancata. Perché quello che i vecchi ci raccontano dipende anche dalle domande che gli rivolgiamo. «E' vero che si ballava il mambo? E' vero che ci si trovava tutti insieme a vedere la tv nel bar sotto casa? E' vero che baciarsi in pubblico era sconveniente?». Mancano gli altri interrogativi, a cui forse avrebbero risposto con pochi rimpianti. «E' vero che la polizia sparava sugli scioperanti? E' vero che se uno era comunista non gli davano il passaporto? E' vero che gli americani volevano tirare l'atomica sull'Indocina?».
Nel decennio successivo, il paese venne percorso e squassato da una febbre cementizia di cui continua a pagare le conseguenze. Il Paese democristiano doveva dare di sé un'immagine positiva, rampante, proiettata verso il boom economico. Ma in tanti abitavano ancora nei tuguri, non avevano il bagno in casa, molti nemmeno l'acqua corrente. Però si costruivano le autostrade. Chiudiamo gli occhi e vediamo il maritino e la mogliettina di fronte ai conti del mese che si fanno coraggio a vicenda: vedrai che ce la facciamo, fra un paio d'anni avremo i soldi per la Seicento. L'immaginario borghese ci ha consegnato questi piccoli eroi. Qualcuno avrebbe dovuto scovarne degli altri, tra la massa silenziosa degli sconfitti. Bisognerebbe guadare fiumi di sangue e bile, affondare nelle frattaglie umane fino al ginocchio, per capire cosa ci è stato sottratto, cosa è stato rimosso, cosa ad un certo punto è diventato ineffabile, indicibile ancora e soprattutto oggi. In fondo, hanno vinto i cattivi, cioè "i buoni".
Prima di tornare a letto e tentare di dormire afferro un foglio di carta. Scrivo ai miei futuri nipoti: se un giorno vi parlerò bene degli anni Ottanta, provate a farmi delle domande diverse. Se insisto, avvertite la mamma che il nonno si è rincoglionito. Ripongo la busta e spengo la luce. Mi giro nelle coperte. Ho ancora davanti agli occhi quelle sbarre. Facce dure di tagliagole stanchi, di miserabili, di bestie reiette. Animali "cattivi" in gabbia. E lo sguardo insostenibile di Kadisha che mi scava dentro. Cosa abbiamo fatto per meritarci questa merda? Qual è il Grande Tradimento? O è piuttosto un accumularsi nel tempo di piccoli tradimenti, ciascuno perfettamente giustificabile, anche se il risultato finale è l'orrore? Qual è il punto d'origine? E' possibile rintracciarne uno? Uno qualsiasi, che aiuti a capire. Sì, avrei proprio dovuto farle quelle domande al vecchio "Soviet".
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