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Vitaliano Ravagli -Wu Ming Asce di guerra IntraText CT - Lettura del testo |
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22Sentieri dell'odio(Ritorno a casa)
Il ritorno a Imola non fu come me l'aspettavo. Durante quei mesi di sofferenza, sempre esposti al pericolo, con tre membri della famiglia dispersi, pensavo che a guerra finita tutto sarebbe cambiato. Sarebbe cominciata una vita nuova, più felice e serena. I fascisti erano stati sconfitti, niente sarebbe stato più come prima. Tornammo a casa. La stessa casa. Per ironia del destino i Forni erano rimasti in piedi, pronti ad accoglierci. Anche Pietro tornò. Dopo la partenza da Cuffiano aveva raggiunto le linee alleate e gli inglesi gli avevano dato qualche soldo e un lasciapassare per un campo profughi, dove aveva atteso la fine del conflitto. Mancava solo Maggiorana di cui non avevamo notizie da mesi. Ogni sera, nel rifugio, avevamo recitato il rosario per lei. Mia madre si mise alla sua ricerca non appena ci fummo sistemati. Scoprì che il sanatorio di Maggiorana era stato evacuato dai tedeschi per farci un ospedale militare. I pazienti erano stati smistati altrove o avevano dovuto arrangiarsi alla meglio. Solo dopo mesi scoprì che una ragazza di Imola viveva con un'amica in una casa abbandonata della zona. Fu così che rintracciò nostra sorella. Quando la riportò a casa, nella primavera del '46, Maggiorana era sfinita. Pelle e ossa, pallida, sputava sangue. La ricordavamo come la più bella tra noi, già una signorina, a cui lasciavamo volentieri la stoffa e i vestiti più decenti; ed era ancora molto bella, ma di una bellezza sfiorita. Il suo fisico era ormai fiaccato. Dopo lo sgombro del sanatorio aveva vissuto di stenti, insieme a un'altra malata. Più di una volta domandai a mia madre come Maggiorana avesse resistito in tutti quei mesi. Non volle mai rispondere. Maggiorana morì il 20 settembre del ‘46. Aveva diciotto anni.
Nel frattempo, era nato mio fratello Marco. La gravidanza peggiorò la salute di mia madre. Diventò anche lei tibicì e insieme a Domenico venne ricoverata al sanatorio di Budrio. I medici informarono mio padre che non c'erano molte speranze. Potevano giusto tentare un nuovo tipo di operazione, la "plastica polmonare", cioè l'asportazione della parte malata dei polmoni. Ma il rischio era comunque molto alto. Quando mia madre lo seppe disse: «Se dobbiamo morire tanto vale tentare l'operazione, almeno moriremo addormentati, in fretta e senza soffrire, piuttosto che attendere tra mille spasimi.» Così mio padre firmò l'assunzione di responsabilità per l'intervento. Mia madre convinse Domenico, dicendogli di aver sognato Dio sulle rive del Senio, che le aveva promesso la salvezza sua e del figlio per il bene che aveva fatto in quel luogo. Forse fu davvero un miracolo: si salvarono entrambi. Ma quella salvezza costò loro altri cinque anni di sanatorio. Senza mia madre la vita della famiglia peggiorò. Nel ‘47, a soli tredici anni, assieme a mia sorella Natalia, mi ritrovai sulle spalle le faccende di casa. Mio padre e Pietro infatti furono riassunti alla Cogne, riconvertita in fabbrica tessile, e dovevano lavorare tutto il giorno. Fummo aiutati da un altro abitante dei Forni, "Gigì e Fastigi" (Gigi il Fastidio), che ci fece da donna di servizio in cambio di un piatto di minestra. Era un disgraziato come noi, un "busone" molto effemminato. Ci divertivamo a pizzicarlo, per sentirgli strillare: «M'dé fastigi!» ("Mi date fastidio!"), da cui il soprannome. Di lì a poco, fui costretto anch'io a trovare lavoro. Nel '46 avevo già lavorato per sei mesi come stagnino da Niceto "e duzér" (il docciaio), ma speravo di tornare dal vecchio Toni. Lui però non poté riassumermi, per via di un torto che avevo fatto alla sua seconda moglie, che da allora non poteva sopportarmi. Fu Vito, il padrone della segheria, a trovarmi un lavoro adatto. Mi fece assumere da Manè, un falegname che aveva una bottega avviata e che non seppe dirgli di no. A Imola la prassi burocratica per l'assunzione di un fattorino era la seguente: «Babì, amaracmènd, tè d'avé òci, busdecùl e memoria, la tu péga l'è ed vèt scùd àla smèna, vàla bè acsè? » «Sé.» [«Bambino, mi raccomando, devi avere occhio, buco di culo e memoria, la tua paga è di cento lire alla settimana, va bene così?» «Sì.»] In realtà Manè aveva già chi gli faceva da fattorino, quindi mi "parcheggiò" da un collega, un altro bravo falegname, Pirì Bèrba. Pirì Bèrba era un uomo possente e villoso, aveva peli dappertutto. Era un comunista della prima ora, di grande altruismo. Aveva partecipato alla Resistenza e corso molti pericoli. Mi insegnò a fare i primi lavori di falegnameria e nella sua bottega venni a contatto con quelli che non si erano rassegnati al compromesso politico del dopoguerra. La nuova parola d'ordine lanciata da Togliatti era "democrazia progressiva". Il cosiddetto "Partito Nuovo" rinunciava all'ipotesi dell'insurrezione e della dittatura del proletariato, per dialogare con tutte le masse popolari, compresi i cattolici. Pirì diceva che di fascisti carogne ce n'erano ancora molti in circolazione e bisognava stare in guardia. Ce l'aveva a morte con papa Pio XII che aveva appena scomunicato i "rossi". «Av'la dag mè la scumonica cun questa què!» [Ve la do io la scomunica, con questa qui!] e tirava fuori da dietro la cintola una P-38 tedesca, rincarando la dose con una sfilza di bestemmie. Poi concludeva rivolgendosi direttamente a Dio: «E te t'putivi fermé tota la cativéria cu jera, vest che i dis tot che sei onnipotente!» [E tu potevi fermarla, tutta la cattiveria che c'era, visto che dicono tutti che sei onnipotente!]. Io non potevo che condividere quelle idee. Mettendo al bando i comunisti, il papa aveva scomunicato chi si era battuto contro i fascisti: Toni e i suoi amici, mio padre, mio fratello Pietro e i ragazzi della Trentaseiesima che avevano dato la vita per la liberazione. La bottega di Pirì era il luogo di ritrovo di molti personaggi bizzarri, ma convinti comunisti, che non avevano consegnato tutte le armi quando gli era stato ordinato di farlo. Quando era agitato Pirì Bèrba si esercitava al tiro a segno in fondo alla bottega, assieme al suo amico Gardelli, detto "Gardlìna". Gardlìna aveva fatto anni di confino ed era stato anche partigiano. Ogni tre o quattro giorni arrivava con la sua Beretta e insieme a Pirì sparavano interi caricatori sulle assi di noce. Era l'unico modo che avevano per sfogarsi. Ma quell'abitudine faceva incazzare Vito, il padrone della segheria, che quando metteva il legno sulla sega a nastro vedeva uscire le scintille e sbottava: «Ecco che Pirì e Gardlìna jà fàt ancòra la rivoluziò. ‘Av' la dag mé la rivoluzió cun un stazò t'la còpa sàn smìtì d'arviném tòt i svéj.» [Ecco che Pirì e Gardlina hanno fatto ancora la rivoluzione. Ve la do io la rivoluzione con uno scapaccione sulla nuca se non la smettete di rovinarmi gli attrezzi]. Gardlìna era un omettino minuto a cui non si addiceva gran che la parte del rivoluzionario. Era tutto in scala ridotta, sempre pulito e profumato, con i capelli troppo lucidi di brillantina Linetti, pettinati indietro alla Rodolfo Valentino. La sua pistola era una calibro 6,35, la più piccola esistente e Vito lo sfotteva: «Cun cla pistulina alè t'fé poca rivoluziò» [Con quella pistolina lì fai poca rivoluzione] poi aggiungeva: «La su pistulina la piaséva poc èch a su mujer, cla pinsè bè ed truvén ona piò gròsa.» [La sua pistolina piaceva poco anche a sua moglie che ha pensato bene di trovarne una più grossa]. Al che Gardlìna ribatteva: «Mè a so picì, ma ajò fat béch un moci d'imbezél piò grènd ed mè.» [Io sono piccolino ma ho cornificato un mucchio di imbecilli più grandi di me]. A volte Gino Cornetti, dalla finestra spalancata di fronte alla segheria, cantava la romanza preferita di Vito. Aveva studiato al conservatorio e per qualche tempo aveva anche calcato le scene, ma la salute gli aveva impedito di proseguire. Era rispettato in quanto comunista "colto" e perché era stato uno degli organizzatori della Resistenza. Era un ambiente di lavoro formidabile, per la prima volta mi sentivo considerato, senza dovermi vergognare di niente. Ero il più giovane della compagnia, un bambino cresciuto in fretta per via della guerra e della miseria. Pirì e gli altri capivano la mia rabbia e la delusione per il fatto che la mia famiglia stava peggio di prima. Apprezzavano anche il mio carattere: ero sveglio, molto più sveglio di ogni mio coetaneo. Con quelli della mia età avevo poco da spartire, erano ancora bambinetti, mentre io, con quello che avevo passato, avevo già le responsabilità di un adulto, e mi sentivo più grande. Anche la mia statura poteva trarre in inganno: ero molto alto per quell'età, tant'è che mi chiamavano Vitaliano "e Zighént" (il Gigante). Volevo essere come Pirì e gli altri. Capivo la loro frustrazione meglio di chiunque, perché era anche la mia. Avevano, anzi, avevamo vinto, e cosa era cambiato? I preti erano peggio di prima, il papa alzava la testa, tanti avevano nascosto la camicia nera per riciclarsi in mille modi, i ricchi erano ancora lì e noi facevamo la fame. Decisi che avrei avuto anch'io la mia arma personale. La ottenni ricattando mio fratello Pietro. Era da molto che facevo la posta a una delle sue pistole. Un giorno lo spiai mentre chiavava con una donna dei Forni e minacciai di dirlo alla sua fidanzata se non mi regalava una pistola, la Steyr calibro 8. Così cominciai anch'io ad affinare la mira. La pistola in tasca mi faceva sentire più forte. Mi avevano sempre sputato addosso, ero sempre stato una nullità, un ragazzino con le pezze al culo, figlio di una famiglia di tisici, uno da cui stare alla larga. E continuavo ad esserlo. Ma ora avevo la pistola. Il mio odio faceva paura. Presi a girare armato, a sparare tra i piedi di chi mi dava fastidio, del contadino a cui rubavamo le ciliegie o anche solo così, per gioco, per far ballare un amico al ritmo delle pallottole. Se non volevano rispettarmi, almeno dovevano temermi.
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