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Alessandro D’Ancona
I precursori di Dante

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I.

 

Per rifarci innanzi alla mente quel mondo scomposto, anzi quasi ancor caos, dal quale Dante traeva fuori con mano sicura gli elementi del suo poema, non stimo dover risalire alle favole poetiche della età primitiva. In tutte le Teogonie, nelle indiane7 al pari che nelle scandinave8, in tutte le Mitologie, nelle persiane così come nelle germaniche, facilmente potremmo trovare, sia nel concetto generale, sia in alcune forme particolari qualche cosa di simile al tutto o alle parti della Divina Commedia. E come nei libri sacri delle antiche genti, così anche nelle primitive epopee popolari, è agevol cosa rinvenire tracce della credenza ad un luogo di pene e di ricompense, variamente raffigurato secondo le dottrine religiose, e più o meno particolarmente descritto dai teologi e dai poeti. ciò deve recar meraviglia: chi pensi alla identità dell'umana natura in ogni periodo della storia, sotto qualsiasi plaga del cielo, in qualunque condizione di civiltà: al salutar freno che l'umana ragione si è posto, e che le religioni hanno variamente consacrato, colla fede in una vita futura; e alla innata curiosità che spinge l'uomo a penetrare questo massimo fra i misteri della nostra esistenza. E se guardiamo soltanto la religione e la letteratura dei Greci e dei Romani, dovremo dire che per gli uomini del paganesimo o pei pagani poeti, facile era la discesa all'Averno9: facilis descensus Averno, dacchè lo vediamo volta a volta visitato da Bacco per dovere di figlio, da Ercole e da Teseo per carità d'amico, da Polluce per amor fraterno, da Orfeo per affetto coniugale10; e dai Semidei e dagli Eroi si scende giù sino agli animali: alla zanzara (culex) del poemetto attribuito a Virgilio11. La discesa all'Inferno diventa così necessario episodio di poema, di romanzo, di biografia: e come Omero e Virgilio vi conducono Ulisse ed Enea, così più tardi Apuleio la sconsolata Psiche, e Geronimo peripatetico il misterioso Pitagora. Col decorrer dei tempi e presso gli imitatori, essa diventa parte necessaria della macchina propria all'epopea: onde le evocazioni delle anime e le peregrinazioni all'Erebo nei poemi di Silio Italico, di Lucano, di Stazio, di Valerio Flacco, di Claudiano12: ma per altri versificatori, già questi erano rumores vacui verbaque inania13, e fiabe appena degne di fanciulletti in fasce14.

Presso i filosofi, però, tal sorta di racconti appare necessario complemento alla dottrina dell'immortalità dell'anima; come appunto vediamo in Platone, il quale, discorsa la salutare credenza, passa, nell'ultimo libro della Repubblica, a riferire la maravigliosa tradizione di Ero di Armenia. L'anima di questo soldato caduto in battaglia, narravasi esser tornata dopo dieci giorni al suo corpo, e aver detto di esser stata con altre condotta ad un luogo ove si aprono quattro porte: due verso il cielo, verso il Tartaro le altre. sedevano giudici, che mandavano a destra i buoni con una scritta sul petto, i malvagi a sinistra colla sentenza sul dorso. Ad Ero fu imposto di tornare al mondo e narrar ciò che avesse visto. Ed egli aveva scorto alcune anime salire all'Olimpo e discenderne, altre sprofondarsi nell'abisso o tornarne su coperte di bruttura: tutte poi fermarsi in quel luogo di comune riunione, raccontando le une con gemito, con riso le altre ciò che durante migliaia di anni avevan sofferto o gioito esse stesse, o di altre veduto. Così Ero aveva potuto conoscere, che ogni misfatto punivasi al decuplo, e la durata di ogni punizione era di un secolo: e al decuplo pure e per un secolo erano le ricompense date ai virtuosi. Ma a coloro che avevano onorato gli Dei e rispettati i genitori, maggiori erano i premj, come agli empj e ai parricidi maggiori le pene. E infatti un tiranno della Pamfilia, parricida e fratricida, sebbene già morto da mille anni, non aveva mai potuto risalire a quel prato, donde le anime partivano per andare a rivestire altri corpi15: perchè ogni volta l'uscita gli era contesa da spaventevoli forme, che sembravano come di uomini infiammati, e che, legatolo, lo battevano, lo scorticavano, lo trascinavano fra i triboli, gridando ad alta voce i suoi misfatti, e minacciando precipitarlo per sempre nel fondo dell'abisso16.

Qui già troviamo qualche prenunziamento dei diavoli dell'inferno secondo le opinioni cristiane; ma l'altra tradizione riferita da Plutarco nell'opuscolo Dei tardi puniti dall'eterna giustizia, ha con un vero sentore delle novelle credenze. Il greco moralista, dopo avere anch'esso discorso della immortalità dell'anima, narra la favola di Tespesio. Fu costui nativo della Cilicia, macchiato d'ogni vizio, maladetto dagli uomini e dagli Dei. Parve subitamente morto per una caduta, ma il terzo risuscitò e si diede a miglior vita, come un peccatore dei tempi cristiani: e chiesto della causa di tal mutamento, narrò di essersi trovato in un'atmosfera mediano, e gran numero di anime girava sopra la sua testa e sotto i suoi piedi: quelle liete e contente, piangenti queste, e paurose. L'anima di un parente lo riconobbe e seco lo condusse, facendogli notare la trasparente lucidezza delle buone, e le macchie ond'erano ottenebrate le anime malvagie. Nere quelle degli avari: sanguigne quelle dei crudeli: dei lascivi, gialle: degli invidiosi, livide; e il fine della purgazione e del castigo sarà quando tutte appaiano tornate di un colore solo e di una chiara luce. Da un prato pieno di odori e di molli aure, ove le anime stanno in festa e in giuoco, la sua guida lo mena ove si ode la voce di una Sibilla prenunziante la prossima morte dell'Imperatore: più innanzi è il padre stesso di Tespesio, che con amari supplizi sconta i commessi delitti: indi sono demoni che scorticano i simulatori: anime fra loro attorcigliate e mordentisi a guisa di serpe, e tre stagni, d'oro bollente, di piombo freddissimo e di ferro, ove gli avari sono successivamente sommersi, fra mezzo ad altissime strida de' tormentati e de' tormentatori. L'ultimo spettacolo è delle anime che ritornano alla seconda vita, variamente disposte da spietati demoni che le accomodano ai nuovi corpi cui sono destinate: Fra queste ei riconosce Nerone, scelto ad informare il corpiciattolo di una vipera; ma perchè fu amico alla Grecia e alla sua libertà, era condannato soltanto a diventare stridula ranocchia. Il pellegrino non andò più oltre: chè una donna di meravigliosa bellezza, toccatolo colla verga, lo fermò, ordinandogli di raccontare quanto aveva visto: e allora, come sospinto da un vento impetuoso, Tespesio ritornò sulla terra alla vuota sua spoglia17.

Così le Visioni del gran mistero che è al di dalla tomba, già di buon'ora cominciano a nascere, a diffondersi, a prender forme determinate: già abbiamo i rapimenti: già l'obbligo di riferire quel che si è veduto, a comune ammaestramento degli uomini: già un primo tentativo di stabilir certe pene, adattandole ai peccati: le visioni sono dunque ormai un patrimonio del genere umano, che attraverserà i secoli, sopravvivendo al mutar delle credenze, e che, cangiati alcuni particolari, resterà intatto in altre parti essenziali.

Qualche semplice accenno, dovuto forse a credenze diffuse fra il popolo, si aveva già nei sacri libri ebraici; come dove Giobbe parla della terra tenebrosa, ove sono ombre di morte ed orrore sempiterno18, e Daniele19 dell'eterno obbrobrio e dell'eterna gioia che sarà dopo l'ultimo dei giorni20. Ma egli è veramente col Cristianesimo soltanto, che si forma quella lunga serie di scritture, quell'ampio ciclo leggendario che fa capo alla Divina Commedia, la quale tutte le chiude e comprende. Col Cristianesimo soltanto, il regno di Dio e quello di Satana principiano ad avere forma reale, e, nella loro specifica determinazione, si contrappongono l'uno all'altro. E se la tradizione dei volghi pagani, accolta da qualche filosofo o poeta, aveva cominciato a configurare le due regioni, e stabilito diverse sorta di premj e di pene, tuttavia, nel dogma religioso del paganesimo, il Tartaro null'altro è se non regno di ombre e di tenebre21, e, salvo casi particolari22, privo di corporei patimenti; mentre in regione appartata e verdeggiante stanno i saggi e gli eroi, che non però godono, anzi rimpiangono la perduta esistenza23, e quasi se ne formano una immagine, continuando in quegli esercizi che predilessero in vita24.

Ma col Cristianesimo questo aspetto dei regni della morte cangia del tutto. Le anime dei defunti vanno o ai gaudj del Paradiso o ai tormenti della geenna, secondo il merito o il demerito. La bontà o la reità delle opere, non la fama o l'oscurità del nome, determina la diversità della loro sorte. Un rigido sentimento di giustizia, un profondo concetto dei compensi dovuti all'uomo che ha sofferto in vita i capricci della fortuna, detta a Cristo la sentenza che il regno dei cieli è pei poveri di spirito, e che sarà più facile ad un camello passare per la cruna di un ago, che ad un ricco entrare nel regno di Dio, ed anima la nota parabola del ricco epulone e di Lazzaro mendico25. Cristo apre il regno dei cieli ai giusti, e discende all'Inferno a tôrne le anime dei patriarchi, rompendo le porte e le sbarre che invano gli si oppongono26. Poi, al Paradiso e all'Inferno si aggiungono il Purgatorio e il Limbo: s. Dionigi determina il numero e la gerarchia delle schiere degli angeli27: indi si ordinano, per contrapposto, le legioni dei diavoli28: e degli uni e degli altri si sanno i nomi, de' principali almeno. I Mistici e i Teologi non lasciano così se non ben poco d'ignoto rispetto ai regni eterni; e a compier l'opera sopravvengono i Taumaturghi e i Visionarj, continuando per lunga età l'opera cominciata dal rapito di Patmo.

S. Grisostomo ebbe a dire che se qualcuno tornasse dai regni della morte, ogni suo racconto sarebbe creduto29; e molti infatti dissero di esservi andati, e le loro narrazioni ottennero fede presso i contemporanei. E tale sempre crescente produzione di visioni facilmente s'intende, considerata la natura di quell'età, in che il taumaturgo diveniva oggetto di terrifica ammirazione e di santa invidia, e il privilegio avuto lo rendeva venerabile al volgo, temibile ai possenti e ai malvagi. Poi, perchè i pensieri e i sentimenti predominanti in una età, sono insieme causa ed effetto dell'indole propria ai monumenti della parola, un istinto di inconsapevole imitazione faceva sì che una visione ne generasse altre in gran copia30: dappoichè ogni religioso chiedeva istantemente nelle sue preci31 di veder ciò che, sotto forma di sogno o di estasi, era stato concesso ad altro più fortunato confratello. La macerazione continua, le dure astinenze, il poco cibo, il sonno scarso e affannoso, la permanenza dell'intelletto in uno stesso pensiero, la tendenza della volontà ad un solo desiderio, generavano la visione; al modo di quelle illusioni ottiche che nascono dal costante fissare della pupilla sopra uno stesso oggetto. Date le particolari disposizioni di certi intelletti e le generali condizioni del tempo, il prodursi delle visioni fu, dunque, un fatto spontaneo e necessario.

Ecco in qual modo si andarono accumulando nei primi secoli del Cristianesimo, e durante tutta l'età media, le descrizioni dell'inferno e del paradiso. Noi non le prenderemo tutte in esame, ma ci basterà sceglierne talune, le quali possono darci idea sufficiente di quel mondo meraviglioso che stava innanzi la fantasia dei contemporanei del poeta nostro, e che, colla speranza e col timore, già aveva preoccupato tutte le anteriori generazioni. E per meglio procedere in questo nostro studio, e ritrovare tutti gli elementi possibili dell'epopea dantesca, vedremo adesso quante forme nel decorso dei secoli e nel cangiar dei costumi, avesse assunto la visione. Distingueremo, adunque, tre forme diverse: delle quali diremo contemplativa la prima, politica la seconda, l'ultima poetica.




7 Vedi nell' Ozanam, op. cit., p. 456, un episodio dell'Atarva-veda.



8 Vedi, ad es., il Canto del Sole nell'Edda, ricordato dal Wright, p. 177, e dall' Ozanam, p. 378, 457.



9 Labitte, op. cit., p. 95.



10 Si potuit manis accersere conjugis Orpheus Threicia fretus cithara fidibusque canoris, Si fratrem Pollux alterna morte redemit, Itque reditque viam totiens: quid Thesea, magnum Quid memorem Aiciden? Aeneid. VI, 119-23.



11 Labitte, op. cit., p. 96.



12 Ozanam, op cit., p. 445.



13 Senec. Troad. II.



14 Juvenal, II, 152. -- Ved. Labitte, op. cit., p. 96.



15 Confr. Æneid. VI, 724 e segg.



16 Vedi anche il Fedone, ove, secondo nota il Labitte, p. 91, trovasi già la triplice divisione che il cristianesimo ha fatta dell'altro mondo; il lago Acherusíade, dove le pene sono temporanee, corrisponde al Purgatorio: il Tartaro, donde i reprobi non usciranno mai, all'Inferno: mentre poi il Paradiso rassomiglia all'alta e serena dimora dove vivranno eternamente e senza corpo, le anime purificate dal culto della filosofia.



17 Traduzione dell'Adriani, Firenze, Piatti, 1820, II, 457-e segg.



18 X, 21-22. Confr, Psalm, LXXXVIII, 6.



19 XII, 2.



20 Più espliciti sono, in questo proposito, i libri apocrifi degli ultimi tempi del Giudaismo, primi del Cristianesimo: vedi, ad esempio, una descrizione del paradiso e dell'inferno nel Libro d'Enoch, c. -XXII (in Migne, Diction. des Apocryphes, 1856, I, 442). Ma la più parte delle leggende ebraiche sull'inferno e sul paradiso sono posteriori all'età cristiana, e si direbbe avessero sentito l'efficacia del nuovo dogma, adattandolo alle tradizioni mosaiche e rabbiniche. Vedi, ad esempio, la Storia di Rabbi Giosuè figlio di Levi (IX o X sec.) trad. dal prof. S. De-Benedetti (nell'Annuario Societ. Ital. Stud. Orient. I. 93). Essa è tratta dall'opera di Jellinek, Betha-Midrasch, Samml. klein. Midraschim, Leipzig, 1853-57, II, 48-51. Un'altra leggenda, Ordine del paradiso deliciano tratta dalla stessa opera, II, 53, è stata pur tradotta e aggiunta alla succitata dal mio collega ed amico, che fra breve pubblicherà altre due consimili leggende della raccolta del Jellinek, cioè il Trattato della Geenna, I, 147, e un altro Ordine del paradiso deliciano, 111, 131, 194. - Il Paradiso descritto nei Mechaberot di Emanuele Romano è posteriore alla D. C. Vedilo tradotto da M. Soave, Venezia, 1863, e parafrasato poeticamente da S. Sipilli, Ancona, 1874. Sulle relazioni fra Dante ed Emanuele è da consultare un artic. di T. Paur nel Jahrbuch f. Dant. gesellsch., III, 423.



21 Æned. VI, 638.



22 Per es. Tizio, Sisifo ecc. Ma già nell'Eneide cominciano ad apparire le pene speciali (VI, 557 e segg) e le classificazioni dei peccatori (VI, 608 e segg.) e dei giusti (VI, 660 e segg.).



23 Vedi il discorso di Achille nell'Odissea, XI.



24 Vedi, ad esempio, Orione nell'Odissea, XI . E nell'Eneide, VI, 642 e segg.



25 Marc. X, 25, Luc. XVI, 20. Il concetto fondamentale di questa parabola: recordare quia recepisti bona in vita tua, et Lazarus similiter mala: nunc autem hic consolatur, tu vero cruciaris, (v. 25), trovasi anche in una parabola talmudica, la quale narra' phe Rabbi Josef, essendo stato rapito in estasi durante una malattia, al padre che gli dimandava che cosa avesse veduto, rispose: un mondo alla rovescia, ove i superiori stanno sotto, e gli inferiori sopra: onde il padre gli replicò: figlio mio, tu hai veduto un mondo puro. (Talm. babilon. Pesahim f. 50, a. Rabà Patrà, 106).



26 Vangelo di Nicodemo, trad. del buon secolo. Bologna, Romagnoli, 1862, p. 42. Secondo una posteriore credenza popolare, il Salvatore ogni anno ridiscende al limbo a liberarne le anime (Ozanam, p. 388): vedi la Visione di Ansellus Scholasticus in Du Méril, Poes. popul. latin. anter. au XII siècl. Paris. Brockhaus, 1843, p. 200.



27 La critica moderna nega a s. Dionigi la paternità di quest'opera, della quale un compendio trovasi in un testo siriaco del Testamento d'Adamo (Dict. des Apocryph. 1, 293), e apocrifa si considera anche l'opera De situ paradisi attribuita all'altro Dionigi, l'Alessandrino.



28 Una enumerazione e nomenclatura dei principali angeli decaduti trovasi nel Libro d'Enoch (Dict. des Apocr. I, 469). Uno di essi è Tenemue, il quale «scoprì agli uomini i segreti della falsa sapienza, e insegnò loro la scrittura e l'uso dell'inchiostro e della carta»: azione che il pensar dei moderni, salvo certuni che tutti sanno, non giudicherà criminosa diabolica.



29 Serm. LXVI.



30 Il monaco Vettino prima di aver l'estasi, durante la quale gli sembrò d'esser condotto a vedere l'inferno, si era fatto dare da leggere, secondo narra egli stesso, i Dialoghi di S. Gregorio, i quali, pieni com'erano di cotali visioni, dovevano necessariamente volgere in codesta parte la sua immaginazione.



31 Di tali preghiere per ottenere la grazia di qualche mistica visione, sono frequenti gli esempi nelle Vite dei SS. PP.: vedi anche il Dialogus Miraculorum di Cesario d'Heisterbach, edid. Strange, Colonia, 1861, distinct. VIII, c. 5, 8.






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