II.
Le Visioni della prima categoria
si possono denominare non solo, rispetto alla forma, contemplative, ma
anche, quanto ai loro autori, monastiche, dappoichè sono ispirate da
quell'ardente zelo religioso che popolava gli eremi della Tebaide e i cenobj
dell'occidente, e che, durante i primi secoli del Cristianesimo, fino al sorger
dell'età moderna, generò sì gran copia di scritti claustrali. Se non che,
mentre i più grandi ingegni di tal lungo periodo scrivono, o per difendere la
fede dalle accuse dei pagani e dagli errori dei dissidenti, o per sottilmente
esplicare la dottrina di Cristo, degli Apostoli, dei Concilj, e mostrarne le
relazioni colla morale e colla storia, o per evangelizzar le turbe e convertire
i barbari, e' par quasi che le visioni vengano lasciate, come in proprio, ai
minori intelletti, e sieno letteratura particolare ai più oscuri anacoreti. In
un periodo così ferace di eloquenti apologisti, di acuti teologi, di efficaci
predicatori pareva forse indegno ai dotti il coltivare un genere, cui più che
le forze della mente davano origine quelle della fantasia. Ma nella solitudine
degli eremi e nel silenzio dei chiostri, coll'animo eccitato dalla trepidazione
del futuro, e qualche volta dal rimorso del passato, fra le privazioni e le
discipline, gli spiriti diventavano più agili e sottili, più paurose e lucide
le fantasie; e raro è che altronde che dal deserto o dal cenobio partano le
descrizioni dello stato delle anime dopo la morte32. Ma di qui traggono
ancora le visioni quell'indole gretta e puerile, quell'assenza di grandezza e
di vera poesia che in esse si ritrova, essendone autori uomini di angusto
ingegno e di assai scarsa cultura, nei quali l'immaginativa era dappiù che il
criterio, e lo zelo maggiore assai della conoscenza o del rispetto di quelle
norme dell'arte, che sole rendono immortali i frutti dell'umana fantasia. E,
del resto, questa stessa facoltà era chiusa in strettissimi confini: pari a
quelli tra' quali, fuggendo il secolo, volontariamente erasi ritratto
l'anacoreta e il monaco, nè poteva attingere forze e forme da un mondo, o
sconosciuto del tutto o dimenticato. Aggiungasi inoltre, che unico fine di
questi semplici narratori era l'altrui edificazione, e l'invitare alla
penitenza: e loro bastava gli animi duri e feroci rammollire, fortemente
commovendoli colla novità e col terrore delle immagini.
Hanno, per tali ragioni, tutte
queste leggende carattere ingenuo, anzi fanciullesco, che di necessità ce le fa
porre fuori della cerchia della vera poesia. La quale era bensì nell'argomento:
non già nel modo com'esso veniva trattato. Certo, percorrendole tutte, qua e là
troviamo qualche raggio di poetica luce, qualche forma che per dolce soavità o
per sublime orridezza ci sorprende e ci ferma; ma il racconto manca di
precisione: la descrizione difetta di quella virtù plastica, così propria di
Dante che a noi par quasi di conoscere graficamente e architettonicamente i
luoghi da lui rappresentati: tutta la tela è male ordita e peggio tessuta, con
frequenti strappi e mal congegnate riprese: il sistema delle pene e dei premj corrisponde
più al meschino intelletto dell'autore e alla mediocre casuistica conventuale,
che non ad una meditata o felice armonia dei principj filosofici coi dogmi
teologici, e le immagini e i paragoni che debbono aiutar le menti volgari a
comprendere i misteri della vita eterna, fanno chiaramente vedere che l'autore,
colla grossolana e corpulenta sua fantasia, non è molto da più di coloro che lo
ascolteranno. Ond'è che l'ingenuità spesso si tramuta in goffaggine; e il
candore in trivialità. Così, nella leggenda di Furseo, le teste dei diavoli
sono rassomigliate a «caldaie, ovvero pentole laidissime e grosse33»:
in quella di Tundalo, i peccatori da una specie di gran padella forata colano
strutti nel fuoco ove sono consumati34. Nei versi di fra Giacomino da
Verona, Belzebù è detto il gran cuoco dell'inferno, che a quel ghiottone di
Satana ammannisce cibo sanguinoso e palpitante di dannati confitti negli
schidioni: e il re dell'inferno ne palpa le carni, e brontolando, le rimanda ad
abbrustolire dell'altro35. Nè più alto e condegno è il comune concetto
della sede celeste; se, presso il medesimo sacro giullare, in paradiso Dio
stesso insegna solfeggiare ai suoi fedeli36, e, quasi in cristiano
Valhalla, si gustano i frutti della immortalità, e si bevono le onde della
gioventù sempiterna37. Si direbbe quasi che, per immaginare il gran
fuoco infernale, i semplici autori di quelle leggende non altro abbian saputo
se non centuplicare nella lor fantasia quello che arde nelle grandi cucine dei
popolosi cenobj, e per rappresentar le gioie del paradiso abbiano avuto ricorso
a raddoppiare di più che mille milia il coro od il refettorio38.
Le leggende monastiche dovettero
cominciare assai presto, sebbene non ne abbiamo copia di esempj nei primi
secoli del cristianesimo. Dal che non devesi inferire che mancassero,
sembrandoci tal fatto non ragionevolmente ammissibile: bensì piuttosto che la
maggior parte non ne sia giunta fino a noi. E di ciò può anche in questo
trovarsi la spiegazione, che la Chiesa non accettò mai tanto per sua taluna di
queste narrazioni, che si menomasse la fede in altre consimili, e se non ne
impedì la diffusione, neanche veramente la promosse e consacrò39. Di
più, l'umiltà stessa della origine monastica, dovette cagionarne la sollecita
disparizione, in una età che non ci ha conservato tanti altri monumenti di
maggior conto. Certo è questo, che le poche visioni dei primi secoli che si
sono salvate debbono tal fortuna all'essere state accolte in opere di santi e
dottori, i quali brevemente le intercalarono, o soltanto le citarono nelle loro
scritture. Per tal modo s. Dionisio areopagita ricorda la visione di s. Carpio,
trasportato in spirito sopra un'alta cima, dalla quale scorgeva, sul capo,
Cristo in gloria cogli angeli, e, ai suoi piedi, diavoli e serpenti che
cacciavano nell'inferno i pagani, ritrosi alla sua predicazione. Ed egli già si
apprestava a gioire del loro martirio, e ad accrescerlo, maledicendoli, quando
Cristo, più indulgente del suo seguace, a sè li attraeva, dicendosi pronto
ancora a soffrire per la salute degli uomini40. Così pure s. Agostino
ci narra che s. Saturo salisse fino al trono del Signore, raffîgurato in un
venerando vegliardo, a udire il santo, santo, santo che inneggiano i
beati; e che santa Perpetua vedesse, per effetto di fervide preghiere, un suo
minor fratello, sanato dalla lebbra che lo aveva spento anzi tempo, aggirarsi
pieno di salute e di bellezza in una splendente dimora, bevendo acque
miracolose entro una coppa d'oro: e una scala luminosa, ma stretta e circondata
d'armi insidiose e taglienti, condurla al sommo del paradiso, donde il Buon
Pastore le tendeva amorosamente le braccia, dandole a bere il latte delle sue
pecorelle41. E nel Dialogo di s. Gregorio troviamo la leggenda
del guerriero morto di peste che, ritornato in vita, narra di essere stato
condotto presso al ponte di un fiume nero e caliginoso, oltre il quale erano
prati di fiori odoriferi e alberi fronzuti e belle abitazioni fatte di pietre
aurate: ma lungo le acque, case fetide e di orrido aspetto. Quel ponte, tutti
dovevan passarlo, ma solo i buoni vi riuscivano, cadendo gli altri nelle onde
puzzolenti42. Altrove lo stesso santo pontefice brevemente riferisce la
leggenda di Reparato che fu «menato a vedere le pene dell'altra vita, e dissele
e poi morì43»; di Pietro monaco che «narrava e diceva molte pene
dell'inferno, le quali aveva vedute44»; di Stefano ferraio che,
scambiato dai diavoli malaccorti con altro Stefano suo vicino, fu per sbaglio
trascinato all'inferno, ove «vide molte cose le quali in prima non
credeva45»; nonchè di quel fanciullo che fu rapito in cielo, e ne
riportò il dono di intendere e parlare tutte le lingue46. Ma in queste
leggende, non sempre è ben chiaro ove sien collocati i regni della punizione:
se, secondo il santo pontefice, il purgatorio del cardinale diacono Pascasio,
fautore dell'antipapa Lorenzo, è posto nelle terme antoniane, in servizio di
quelli che vi si bagnavano47; e ad egual viltà di uffici è condannato,
in altro luogo di bagni, l'antico signore di essi48.
Ma tutte queste leggende, alle
quali potremmo aggiungere l'altra di santa Cristina, che, rapita al cielo, e
datale la scelta fra lo starvi o il ritornare al mondo a riscattare colla
penitenza le anime purganti, a questo partito misericordiosa si
attiene49, non che l'altra, assai posteriore, di s. Salvi che dalla
voce di Dio è rimandato in terra, perchè necessario al bene della sua Chiesa,
ed obbedisce piangendo50, sono tutte assai brevi, anche per questo, che
sembrano principalmente dirette a mostrar cogli esempj la possibilità di
ottenere sempre il perdono dei proprj peccati, e mirano più a rinvigorire le
virtù religiose, che non a contentare l'avida brama di conoscere ciò che
all'uomo è negato, parlando al cuore anzi che alla fantasia. Le Visioni sono in
questi libri soltanto parabole morali, come più tardi in altri diventeranno episodi
meravigliosi, intromettendosi, prima, nella Leggenda di Barlaam e
Josafat51, ed ivi consertandosi alla primitiva lezione indiana che
narra la santa vita del Budda52, poi, nel romanzo di Alessandro,
condotto dai favolatori innanzi alle soglie del terrestre paradiso53,
e, per ultimo, nel racconto cavalleresco di Guerrino il Meschino54.
Questi germi, intanto, si vanno
svolgendo col passar degli anni e dei secoli: la materia si accumula, e si
direbbe quasi che la fantasia umana, la quale da gran tempo ha aperto uno
spiraglio nel cielo e nell'inferno, e aiutata dalla non mai soddisfatta
curiosità vi tien fisso lo sguardo, lo vada sempre più allargando, e sempre
scuopra qualche cosa di nuovo. Tali meravigliose narrazioni non soffrono ormai
più, in quest'ultimo e ferace periodo della letteratura claustrale, di andare
commiste con altri scritti, e se ne separano; ma se acquistano maggiore
ampiezza, non sono però meno indistinte e confuse. Così tra il settimo e
l'ottavo secolo, già vediamo apparire la più lunga Leggenda di tre monaci
orientali, s. Teofilo, s. Sergio e s. Igino che, messisi in cuore di ritrovar
il luogo in che fu l'uom felice, posto dove il cielo, all'ultimo
orizzonte, combacia colla terra, dopo mille vicissitudini e mille pericoli,
traversata l'Africa e l'Asia, oltrepassati i segni piantati da Alessandro
all'estremo confine del mondo, giungono, ad un lago pieno di serpenti; donde
escono voci come di popolo innumerabile che piangesse ed urlasse: ed erano
coloro che negarono Cristo. Più oltre è un uomo di ben cento cubiti, legato ad
un monte con quattro catene, e circondato da fiamme; indi, una femmina «nuda e
laidissima e scapigliata» compressa da un sozzo dragone: per ultimo, una selva
di molti alberi che «avevano similitudine di fichi», su' rami dei quali erano
uccelli che con voce umana gridavano a Dio: «Perdonaci, messere, che ci
plasmasti». Ma, fuggendo di là e procedendo più oltre, giungevano i monaci ad
una chiesa, ove «uomini d'aspetto santissimo cantavano un canto celestiale con
mirabile armonia», e la Chiesa «parea quasi tutta di cristallo»; e dall'una
parte avea somiglianza di pietre preziose, dall'altro era colore di sangue, e
dalla terza bianca come neve; e il sole ivi risplendeva e scaldava «sette
cotanti più che nelle nostre contrade», e «l'alpe e i monti erano più alti», e
«gli alberi e i frutti più grandi e belli e migliori... e aveavi uccelli più
belli che facevano più dolci canti» che i nostri. Non però questo era il
Paradiso terrestre, che sta più là «venti miglia»; e un cherubino coi piedi
d'uomo, il petto di leone e le mani «come di cristallo» vieta l'appressarvisi,
secondo loro avverte s. Macario, che aveva avuto l'istesso loro intento, e che
dall'angelo n'era stato impedito. Or qui nulla è ben chiaro, nè persone nè
luoghi; e se il lettore dimandasse qualche spiegazione, forse si sentirebbe
rispondere come disse una voce a quei temerarj viaggiatori: «A voi non si
conviene cognoscere li segreti giudicj di Dio: andate alla via
vostra55».
E simil mancanza di precisa
determinazione ha pur la Leggenda di Furseo (m. 650), che, rapito dagli angeli,
vede nell'atmosfera i quattro gran fuochi di mendacio, di cupidigia, di
discordia e di empietà che ardono il mondo: e mentre è condotto per l'aria, i
diavoli combattono coi suoi custodi per toglierglielo, finchè, rimasti
perdenti, si fanno innanzi al trono di Dio, ove dialogizzando e sillogizzando,
tentano cogli argomenti aver quella preda che non seppero conquistar con la
forza56.
Ma queste ed altre sembrano non
già lucide visioni di estatici, bensì affannosi sogni d'infermi. Si vede chiaro
che la fantasia chiede la parte che le spetta in tali ascetici racconti, e li
dipinge dei57 suoi colori, ma essa è fiacca già prima di porsi
all'opera. Le immagini sono prive di contorno, e invece di persone e luoghi
abbiamo vuote allegorie e indefinite espressioni metaforiche. Il regno di
Satana e quello di Dio non sono in queste leggende ben distinti fra loro: i
diavoli non soltanto scorrazzano sulla terra, ma volano per l'aria, e penetrano
fin nella reggia celeste. Il mondo di là è così scomposto e sformato come il
mondo storico dove tutto è confusione, arbitrio, dissoluzione: ma allorchè
questo, dopo la grande anarchia feudale, comincia a ravviarsi, e gli animi,
passato il gran terrore dell'anno millesimo, principiano a ricomporsi, ecco
formarsi anche le maggiori leggende, ecco le sedi dell'eterna e della
temporanea dimora delle anime meglio configurarsi, e stabilirsi un ordine di
pene e di premj che, lievemente modificandosi, rimarrà nella coscienza, dei
fedeli e nelle tradizioni dei volghi. Dopo quei primi saggi, che quasi mai
oltrepassarono le mura dei monasteri o i confini delle provincie in che videro
la luce, vengono altre più ampie leggende che ci descrivono o taluna delle
eterne regioni, o tutte tre insieme, e largamente si spandono per tutta la
cristianità: veri abbozzi e prenunziamenti del poema dantesco, che presso i
credenti, ebbero allora tanta accoglienza, quanta presso tutti gli uomini educati
al culto dell'arte, ottenne più tardi la Divina Commedia.
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