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Alessandro D’Ancona
I precursori di Dante

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II.

 

Le Visioni della prima categoria si possono denominare non solo, rispetto alla forma, contemplative, ma anche, quanto ai loro autori, monastiche, dappoichè sono ispirate da quell'ardente zelo religioso che popolava gli eremi della Tebaide e i cenobj dell'occidente, e che, durante i primi secoli del Cristianesimo, fino al sorger dell'età moderna, generò sì gran copia di scritti claustrali. Se non che, mentre i più grandi ingegni di tal lungo periodo scrivono, o per difendere la fede dalle accuse dei pagani e dagli errori dei dissidenti, o per sottilmente esplicare la dottrina di Cristo, degli Apostoli, dei Concilj, e mostrarne le relazioni colla morale e colla storia, o per evangelizzar le turbe e convertire i barbari, e' par quasi che le visioni vengano lasciate, come in proprio, ai minori intelletti, e sieno letteratura particolare ai più oscuri anacoreti. In un periodo così ferace di eloquenti apologisti, di acuti teologi, di efficaci predicatori pareva forse indegno ai dotti il coltivare un genere, cui più che le forze della mente davano origine quelle della fantasia. Ma nella solitudine degli eremi e nel silenzio dei chiostri, coll'animo eccitato dalla trepidazione del futuro, e qualche volta dal rimorso del passato, fra le privazioni e le discipline, gli spiriti diventavano più agili e sottili, più paurose e lucide le fantasie; e raro è che altronde che dal deserto o dal cenobio partano le descrizioni dello stato delle anime dopo la morte32. Ma di qui traggono ancora le visioni quell'indole gretta e puerile, quell'assenza di grandezza e di vera poesia che in esse si ritrova, essendone autori uomini di angusto ingegno e di assai scarsa cultura, nei quali l'immaginativa era dappiù che il criterio, e lo zelo maggiore assai della conoscenza o del rispetto di quelle norme dell'arte, che sole rendono immortali i frutti dell'umana fantasia. E, del resto, questa stessa facoltà era chiusa in strettissimi confini: pari a quelli tra' quali, fuggendo il secolo, volontariamente erasi ritratto l'anacoreta e il monaco, poteva attingere forze e forme da un mondo, o sconosciuto del tutto o dimenticato. Aggiungasi inoltre, che unico fine di questi semplici narratori era l'altrui edificazione, e l'invitare alla penitenza: e loro bastava gli animi duri e feroci rammollire, fortemente commovendoli colla novità e col terrore delle immagini.

Hanno, per tali ragioni, tutte queste leggende carattere ingenuo, anzi fanciullesco, che di necessità ce le fa porre fuori della cerchia della vera poesia. La quale era bensì nell'argomento: non già nel modo com'esso veniva trattato. Certo, percorrendole tutte, qua e troviamo qualche raggio di poetica luce, qualche forma che per dolce soavità o per sublime orridezza ci sorprende e ci ferma; ma il racconto manca di precisione: la descrizione difetta di quella virtù plastica, così propria di Dante che a noi par quasi di conoscere graficamente e architettonicamente i luoghi da lui rappresentati: tutta la tela è male ordita e peggio tessuta, con frequenti strappi e mal congegnate riprese: il sistema delle pene e dei premj corrisponde più al meschino intelletto dell'autore e alla mediocre casuistica conventuale, che non ad una meditata o felice armonia dei principj filosofici coi dogmi teologici, e le immagini e i paragoni che debbono aiutar le menti volgari a comprendere i misteri della vita eterna, fanno chiaramente vedere che l'autore, colla grossolana e corpulenta sua fantasia, non è molto da più di coloro che lo ascolteranno. Ond'è che l'ingenuità spesso si tramuta in goffaggine; e il candore in trivialità. Così, nella leggenda di Furseo, le teste dei diavoli sono rassomigliate a «caldaie, ovvero pentole laidissime e grosse33»: in quella di Tundalo, i peccatori da una specie di gran padella forata colano strutti nel fuoco ove sono consumati34. Nei versi di fra Giacomino da Verona, Belzebù è detto il gran cuoco dell'inferno, che a quel ghiottone di Satana ammannisce cibo sanguinoso e palpitante di dannati confitti negli schidioni: e il re dell'inferno ne palpa le carni, e brontolando, le rimanda ad abbrustolire dell'altro35. più alto e condegno è il comune concetto della sede celeste; se, presso il medesimo sacro giullare, in paradiso Dio stesso insegna solfeggiare ai suoi fedeli36, e, quasi in cristiano Valhalla, si gustano i frutti della immortalità, e si bevono le onde della gioventù sempiterna37. Si direbbe quasi che, per immaginare il gran fuoco infernale, i semplici autori di quelle leggende non altro abbian saputo se non centuplicare nella lor fantasia quello che arde nelle grandi cucine dei popolosi cenobj, e per rappresentar le gioie del paradiso abbiano avuto ricorso a raddoppiare di più che mille milia il coro od il refettorio38.

Le leggende monastiche dovettero cominciare assai presto, sebbene non ne abbiamo copia di esempj nei primi secoli del cristianesimo. Dal che non devesi inferire che mancassero, sembrandoci tal fatto non ragionevolmente ammissibile: bensì piuttosto che la maggior parte non ne sia giunta fino a noi. E di ciò può anche in questo trovarsi la spiegazione, che la Chiesa non accettò mai tanto per sua taluna di queste narrazioni, che si menomasse la fede in altre consimili, e se non ne impedì la diffusione, neanche veramente la promosse e consacrò39. Di più, l'umiltà stessa della origine monastica, dovette cagionarne la sollecita disparizione, in una età che non ci ha conservato tanti altri monumenti di maggior conto. Certo è questo, che le poche visioni dei primi secoli che si sono salvate debbono tal fortuna all'essere state accolte in opere di santi e dottori, i quali brevemente le intercalarono, o soltanto le citarono nelle loro scritture. Per tal modo s. Dionisio areopagita ricorda la visione di s. Carpio, trasportato in spirito sopra un'alta cima, dalla quale scorgeva, sul capo, Cristo in gloria cogli angeli, e, ai suoi piedi, diavoli e serpenti che cacciavano nell'inferno i pagani, ritrosi alla sua predicazione. Ed egli già si apprestava a gioire del loro martirio, e ad accrescerlo, maledicendoli, quando Cristo, più indulgente del suo seguace, a li attraeva, dicendosi pronto ancora a soffrire per la salute degli uomini40. Così pure s. Agostino ci narra che s. Saturo salisse fino al trono del Signore, raffîgurato in un venerando vegliardo, a udire il santo, santo, santo che inneggiano i beati; e che santa Perpetua vedesse, per effetto di fervide preghiere, un suo minor fratello, sanato dalla lebbra che lo aveva spento anzi tempo, aggirarsi pieno di salute e di bellezza in una splendente dimora, bevendo acque miracolose entro una coppa d'oro: e una scala luminosa, ma stretta e circondata d'armi insidiose e taglienti, condurla al sommo del paradiso, donde il Buon Pastore le tendeva amorosamente le braccia, dandole a bere il latte delle sue pecorelle41. E nel Dialogo di s. Gregorio troviamo la leggenda del guerriero morto di peste che, ritornato in vita, narra di essere stato condotto presso al ponte di un fiume nero e caliginoso, oltre il quale erano prati di fiori odoriferi e alberi fronzuti e belle abitazioni fatte di pietre aurate: ma lungo le acque, case fetide e di orrido aspetto. Quel ponte, tutti dovevan passarlo, ma solo i buoni vi riuscivano, cadendo gli altri nelle onde puzzolenti42. Altrove lo stesso santo pontefice brevemente riferisce la leggenda di Reparato che fu «menato a vedere le pene dell'altra vita, e dissele e poi morì43»; di Pietro monaco che «narrava e diceva molte pene dell'inferno, le quali aveva vedute44»; di Stefano ferraio che, scambiato dai diavoli malaccorti con altro Stefano suo vicino, fu per sbaglio trascinato all'inferno, ove «vide molte cose le quali in prima non credeva45»; nonchè di quel fanciullo che fu rapito in cielo, e ne riportò il dono di intendere e parlare tutte le lingue46. Ma in queste leggende, non sempre è ben chiaro ove sien collocati i regni della punizione: se, secondo il santo pontefice, il purgatorio del cardinale diacono Pascasio, fautore dell'antipapa Lorenzo, è posto nelle terme antoniane, in servizio di quelli che vi si bagnavano47; e ad egual viltà di uffici è condannato, in altro luogo di bagni, l'antico signore di essi48.

Ma tutte queste leggende, alle quali potremmo aggiungere l'altra di santa Cristina, che, rapita al cielo, e datale la scelta fra lo starvi o il ritornare al mondo a riscattare colla penitenza le anime purganti, a questo partito misericordiosa si attiene49, non che l'altra, assai posteriore, di s. Salvi che dalla voce di Dio è rimandato in terra, perchè necessario al bene della sua Chiesa, ed obbedisce piangendo50, sono tutte assai brevi, anche per questo, che sembrano principalmente dirette a mostrar cogli esempj la possibilità di ottenere sempre il perdono dei proprj peccati, e mirano più a rinvigorire le virtù religiose, che non a contentare l'avida brama di conoscere ciò che all'uomo è negato, parlando al cuore anzi che alla fantasia. Le Visioni sono in questi libri soltanto parabole morali, come più tardi in altri diventeranno episodi meravigliosi, intromettendosi, prima, nella Leggenda di Barlaam e Josafat51, ed ivi consertandosi alla primitiva lezione indiana che narra la santa vita del Budda52, poi, nel romanzo di Alessandro, condotto dai favolatori innanzi alle soglie del terrestre paradiso53, e, per ultimo, nel racconto cavalleresco di Guerrino il Meschino54.

Questi germi, intanto, si vanno svolgendo col passar degli anni e dei secoli: la materia si accumula, e si direbbe quasi che la fantasia umana, la quale da gran tempo ha aperto uno spiraglio nel cielo e nell'inferno, e aiutata dalla non mai soddisfatta curiosità vi tien fisso lo sguardo, lo vada sempre più allargando, e sempre scuopra qualche cosa di nuovo. Tali meravigliose narrazioni non soffrono ormai più, in quest'ultimo e ferace periodo della letteratura claustrale, di andare commiste con altri scritti, e se ne separano; ma se acquistano maggiore ampiezza, non sono però meno indistinte e confuse. Così tra il settimo e l'ottavo secolo, già vediamo apparire la più lunga Leggenda di tre monaci orientali, s. Teofilo, s. Sergio e s. Igino che, messisi in cuore di ritrovar il luogo in che fu l'uom felice, posto dove il cielo, all'ultimo orizzonte, combacia colla terra, dopo mille vicissitudini e mille pericoli, traversata l'Africa e l'Asia, oltrepassati i segni piantati da Alessandro all'estremo confine del mondo, giungono, ad un lago pieno di serpenti; donde escono voci come di popolo innumerabile che piangesse ed urlasse: ed erano coloro che negarono Cristo. Più oltre è un uomo di ben cento cubiti, legato ad un monte con quattro catene, e circondato da fiamme; indi, una femmina «nuda e laidissima e scapigliata» compressa da un sozzo dragone: per ultimo, una selva di molti alberi che «avevano similitudine di fichi», su' rami dei quali erano uccelli che con voce umana gridavano a Dio: «Perdonaci, messere, che ci plasmasti». Ma, fuggendo di e procedendo più oltre, giungevano i monaci ad una chiesa, ove «uomini d'aspetto santissimo cantavano un canto celestiale con mirabile armonia», e la Chiesa «parea quasi tutta di cristallo»; e dall'una parte avea somiglianza di pietre preziose, dall'altro era colore di sangue, e dalla terza bianca come neve; e il sole ivi risplendeva e scaldava «sette cotanti più che nelle nostre contrade», e «l'alpe e i monti erano più alti», e «gli alberi e i frutti più grandi e belli e migliori... e aveavi uccelli più belli che facevano più dolci canti» che i nostri. Non però questo era il Paradiso terrestre, che sta più «venti miglia»; e un cherubino coi piedi d'uomo, il petto di leone e le mani «come di cristallo» vieta l'appressarvisi, secondo loro avverte s. Macario, che aveva avuto l'istesso loro intento, e che dall'angelo n'era stato impedito. Or qui nulla è ben chiaro, persone luoghi; e se il lettore dimandasse qualche spiegazione, forse si sentirebbe rispondere come disse una voce a quei temerarj viaggiatori: «A voi non si conviene cognoscere li segreti giudicj di Dio: andate alla via vostra55».

E simil mancanza di precisa determinazione ha pur la Leggenda di Furseo (m. 650), che, rapito dagli angeli, vede nell'atmosfera i quattro gran fuochi di mendacio, di cupidigia, di discordia e di empietà che ardono il mondo: e mentre è condotto per l'aria, i diavoli combattono coi suoi custodi per toglierglielo, finchè, rimasti perdenti, si fanno innanzi al trono di Dio, ove dialogizzando e sillogizzando, tentano cogli argomenti aver quella preda che non seppero conquistar con la forza56.

Ma queste ed altre sembrano non già lucide visioni di estatici, bensì affannosi sogni d'infermi. Si vede chiaro che la fantasia chiede la parte che le spetta in tali ascetici racconti, e li dipinge dei57 suoi colori, ma essa è fiacca già prima di porsi all'opera. Le immagini sono prive di contorno, e invece di persone e luoghi abbiamo vuote allegorie e indefinite espressioni metaforiche. Il regno di Satana e quello di Dio non sono in queste leggende ben distinti fra loro: i diavoli non soltanto scorrazzano sulla terra, ma volano per l'aria, e penetrano fin nella reggia celeste. Il mondo di è così scomposto e sformato come il mondo storico dove tutto è confusione, arbitrio, dissoluzione: ma allorchè questo, dopo la grande anarchia feudale, comincia a ravviarsi, e gli animi, passato il gran terrore dell'anno millesimo, principiano a ricomporsi, ecco formarsi anche le maggiori leggende, ecco le sedi dell'eterna e della temporanea dimora delle anime meglio configurarsi, e stabilirsi un ordine di pene e di premj che, lievemente modificandosi, rimarrà nella coscienza, dei fedeli e nelle tradizioni dei volghi. Dopo quei primi saggi, che quasi mai oltrepassarono le mura dei monasteri o i confini delle provincie in che videro la luce, vengono altre più ampie leggende che ci descrivono o taluna delle eterne regioni, o tutte tre insieme, e largamente si spandono per tutta la cristianità: veri abbozzi e prenunziamenti del poema dantesco, che presso i credenti, ebbero allora tanta accoglienza, quanta presso tutti gli uomini educati al culto dell'arte, ottenne più tardi la Divina Commedia.




32 Di queste primitive visioni monastiche, vedi esempio nella Vita di S. Antonio (Vite SS. PP. I, 18, II, 9), nella narrazione di un reo frate giunto presso a morte (Id. III, 35), di un santo padre che vide quattro ordini onorabili al cospetto di Dio (Id. III, 111), e di una fanciulla che vide il padre in paradiso e la madre all'inferno (Id. IV, 44: Cfr. con il Conto XI, dei Dodici conti morali di anonimo senese, Bologna, Romagnoli, 1862, e col Fabliau de la bou yeoise qui fu dampnée etc. in Hist. Litt. de la France XXIII, 119). Aggiungi le Visioni di tre uomini resuscitati nella Leggenda di s. Girolamo: quella della badessa. nella Vita di s. Eufrasia: di Elia monaco (Vita di s. Girolamo), di S. Mariano e S. Giacomo (III sec.) che alla stessa ora ebbero una stessa visione del tribunale di Dio (Goerres, Mystiq. divín., Paris,1863, I, c. IV), e di s. Andrea Sali condotto da un angelo, il quale, come la sibilla virgiliana, praeferebat ramum aureum, nel regno delle tenebre, e poi di cielo in cielo al trono di Cristo (Bolland., XXVIII Mai, Coroll., V).



33 Vite SS. PP., IV, 79.



34 Il testo: Et illic crcmabantur donec ad modum cremij in sartagine concremati omnino liquescerent. La versione italiana secondo il testo Corazzini reca: grattugia, e la veronese del Giuliari: grattacaxola.



35 ...un cogo, ço è Baçabu... Ke lo meto a rostir, com un bel porco, al fogo En un gran spe de fer per farlo tosto cosro. E po prendo aqua e sal e caluçen e vin E fel e forte aseo, tosego e venin E si ne faso un solso. Vedi il poemetto de Babilonia civitate infernali, in Mussafia, Monum, antichi di dial. ital., Vienna, 1864, p. 38.



36 Enperço k'el Re ke se' su lo tron santo Si ge monstra a solfar et a servir quel canto. De Jerusalem celesti, in Mussafia,op, cit, p. 30.



37 De le quale (onde) çascauna si à tanta vertu K'elle fa tornar l'omo veclo in çoventu. Id., id., p. 28.



38 Anche l'Inferno dantesco ha certamente, qua e , pitture oscene o triviali, ma nella varia unità del gran poema celeste descrizioni non stuonano; anzi, fatte con somma arte e consapevolezza, diventano forme del comico, come nella bolgia degli adulatori, nel diverbio di maestro Adamo ecc. E Dante così sapeva a qual fine erano destinate, che chiude il c XVIII col verso: E quinci sien le nostre viste sazie, e il XXX coll'altro: Chè voler ciò udire è bassa voglia.



39 Il Bottari (Lett. ad un Accad. Crusc.) ci fa sapere come la leggenda del Purgatorio di s. Patrizio fosse inserita nel Breviario dei Giunti di Venezia del 1522; ma tolta nelle successive impressioni, credo per ordine di Roma... avendovi sempre repugnato la congregazione dei Riti, e credutola una fola di Romanzi. Per questo il gran Baronio non ne ha fatto parola nel Martirologio negli Annali, e Urbano VIII non volle permettere se non la commemorazione di questo santo.



40 Dyon. Areop., Ep. VIII.



41 August. De orig. anim. I, l. Vedi anche i Bolland., VII Mart., I, 635-5; Goerres. op. cit., I. 4.



42 L. IV, cap. 38. Cito la traduzione del Cavalca. - Confr. Vincent. Bellovacens., :Spec. hist., XXII, 91. Vedine anche una traduzione francese, tratta da un'opera di Roberto Testagrossa, nel Jubinal, Nouv. recueil de Fabliaux etc., Paris; Challamel, 1842. II, 304.



43 L. IV, c. 29.



44 L. IV, c. 36.



45 L. IV, c. 37.



46 L. IV, c. 26.



47 L. IV, c. 44.



48 L. IV, c. 55.



49 Bolland., XXI August. Vedi Labitte, p. 100.



50 Greg. di Tours, Hist., VII, 1, trad. Guizot, Didier, 1862, I, 414.



51 Legenda aurea, e Storia dei SS. Barlaam e Josafat. testo del Bottari, Roma, 1816, p. 110.



52 Vedi la dissertazione del Liebrecut, nelle Sacre Rappresentazioni, Firenze, Le Monnier, 1872, II, 146.



53 Alexandri Magni Iter ad Paradisum, ex codd. mss. latinis. primuse did. J. Zacher, Regimonti, Theile,1858. Vedi anche Favre, Hist. fabul. d'Alex. ne' Melanges etc., II, 86, Géneve, 1856, e la prefazione del prof. Grion ai Nobili fatti di Alessandro Magno, Bologna, Romagnoli, 1872, p. XCVI e seg. Una traduzione di questa leggenda di Alessandro dal testo talmudico è in Levi, Parab. e leggende talmudiche, Firenze, Le Monnier, 1861, p. 218.



54 Mancando tuttavia una buona edizione del romanzo in prosa, rimanderemo al rifacimento poetico di Tullia d'Aragona, c. XXVII e segg.



55 Vite SS. PP., IV, 64 e segg. Diversa da questa è la Leggenda del viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre pubbl. dallo Zambrini nella Miscellanea di Opuscoli inediti o rari dei secoli XIV e XV, Torino, Unione tip. edit., 1861, I, 163, la quale ai tre monaci appropria la maggior parte delle avventure meravigliose dell'Iter di Alessandro.



56 Bolland,. X Jan., II, 44; Mabillon, Ac. Sanct. ord. S. Bened. saec. II, p. 307; Vinc. Bellovac. Specul. Hist., XXIII, 81-3; Wright and Halliwell, Reliq. antiq., I, 276. In Italia la leggenda di Furseo si trova nelle Vite dei SS. PP., IV, 78 e seg. Un testo a parte è nel cod. magliab., II, 2, 89, p. 115.



57 Nell'originale "del suoi colori" che sembra evidente refuso tipografico [nota per l'edizione elettronica Manuzio]






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