III.
Queste maggiori Leggende sono la Visione di S. Paolo, il Viaggio di S. Brandano, la Visione di Tundalo, il Purgatorio di S. Patrizio, e la Visione di Alberico, delle quali parlerò partitamente, ma rapidamente.
Apocrifa, ma forse fondata su
antiche tradizioni, è la Visione di S. Paolo appartenente
all'undecimo secolo. Di essa abbiamo un testo latino ancora inedito una
versione francese del trovero Adam de Ros, e traduzioni in varie lingue
europee58. Nell'Epistola ai Corinti l'Apostolo avea
scritto: Io conosco un uomo in Cristo, il quale sono già passati quattordici
anni, fu rapito (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol so, Iddio il sa) sino
al terzo cielo. E so che quel tal uomo (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol
so, Iddio il sa) fu rapito in Paradiso, ed udì parole ineffabili, le quali non
è lecito ad uomo alcuno di proferire59. Sarebbe forse ardito
affermare che da questo testo ove l'autore parla di sè, la fantasia popolare
derivasse un rapimento di Paolo non che al cielo, anche all'inferno: certo è
però esser questa la sola leggenda anteriore alla Divina Commedia che
Dante mostri aver conosciuta, chiaramente alludendovi nel c. II. dell'Inferno,
quando, dubitando di fidarsi all'alto passo, rammenta due sole discese d'uomini
viventi nel regno dei morti: quella cioè virgiliana di Enea e l'altra di S.
Paolo: andovvi poi lo Vas d'elezione, Per recare conforto a quella
fede Ch'è principio alla via di salvazione. Ma io perchè andarvi? e chi
'l concede? Io non Enea, io non Paolo sono.
Secondo questa Visione, Paolo è
condotto da un angelo a vedere le pene infernali, che dureranno a detta
dell'ingenuo autore, al quale cotesto numero rappresentava l'infinito60,
quarantaquattromila e cento anni. E prima, egli scorge un albero immenso al
quale pei piedi, per la lingua, per gli orecchi stanno sospesi gli avari. Più
oltre è una ardente fornace destinata agli impenitenti: quindi un torbido
fiume, attraversato da un ponte «sottile colpe un capello». Questo ponte che
già trovammo, e che ritroveremo ancora in altre leggende61, è dapprima
mentovato62 nelle tradizioni persiane, donde passò ai credenti di
Maometto, e dall'Oriente poi venne nella letteratura cristiana dell'età
media63. A capo del ponte sta Belzebù, colla immane bocca spalancata,
entro la quale sono attratte le anime dei peccatori, che ne escono poi
infiammate come zolfo, annerite come carbone64. Nel fiume i dannati
stanno alcuni sino al ginocchio, altri sino alle ciglia, come i tiranni e i
traditori di Dante, secondo la gravità dei loro misfatti. Seguono altri
tormenti e altri tormentati, che tralasciamo di ricordare; finchè, per ultimo,
l'Apostolo giunge a un pozzo suggellato da sette suggelli, ove son sepolti
coloro che negarono la divinità di Cristo. Ma questa terribile leggenda
s'illumina in fondo di un raggio di luce celeste. Alzando gli occhi, s. Paolo
vede gli angeli menare in paradiso l'anima di un giusto65, mentre i
demoni ghermiscono quella di un dannato. Quest'inferno dal quale si vede il
cielo, certo rassomiglia poco a quello di Dante; e se la visione dantesca ha
tutta l'indole di un viaggio, questa di s. Paolo potrebbe ben dirsi un sogno immaginoso.
Ma intanto i reprobi sollevati a speranza dal grido di gioia che echeggia
nell'alto, pregano umilmente l'Apostolo che interceda per loro, e il Miserere
proferito da milioni di bocche passa i quattro cieli, e giunge sino al trono di
Cristo. Il quale, scendendo giù, e duramente rampognando quei miseri, pure, per
amore del suo discepolo, concede loro requie ebdomadaria, dalla ora nona del
sabato alla prima del lunedì; e, in mezzo alle recriminazioni dei demoni e alle
benedizioni dei dannati, la santificazione della Domenica, che sembra esser il
concetto animatore di tutta la leggenda66, si estende fino ai regni di
Satana; e la cessazione del lavoro sopra la terra corrisponde, sotto terra,
alla interruzione delle pene.
Allo stesso secolo spetta probabilmente67
anche il Viaggio di S. Brandano68 che l'Ozanam, con arguta
frase, chiama odissea monastica69. È desso il parto della fantasia di
un monaco, le cui forze però erano miseramente circoscritte dall'angustia della
vita cenobitica. Nata in Irlanda questa leggenda si diffuse per ogni parte
d'Europa, e fu via via raffazzonata da' varj volgarizzatori, che credettero
accrescerne il pregio allungandola, e infarcendola sempre di altri episodj. Ma
nella povertà della loro immaginazione, costoro non sepper far altro se non
amplificare e ripetere gli stessi racconti; e i monaci viaggiatori, secondo ben
nota il Villari, «incontrando un gran numero di isole, ripetono sempre le
stesse operazioni: mangiano, bevono, si lavano i piedi, sentono la messa,
dormono e ripartono70». Tuttavia la leggenda, come quella che narrava
fatti meravigliosi e descriveva regioni sconosciute, meschiando i colori
ascetici coi romanzeschi, e insieme consertando le tradizioni
dell'antichità71 colle favole orientali72 e le pie narrazioni
dei chiostri, non solo incontrò favore presso le plebi, ma fu generalmente
ritenuta vera anche rispetto alle condizioni dei luoghi descritti. L'isola di
s. Brandano, sulla sola asserzione di questa scrittura, venne segnata sulle
carte73, e menzionata nei libri geografici del tempo74: ne è
fatta parola perfino in pubblici trattati, e in quello di Evora dalla corona di
Portogallo, che avrebbe dovuta possederla, fu ceduta a quella di Castiglia, che
non seppe mai trovarla, tanto che fino nel 1721 dalla Spagna partivano navi
alla ricerca di essa. Fatto strano, ma non meraviglioso: chi ricordi almeno,
come ai dì nostri, dopo che Stefano Cabet ebbe descritto il suo immaginario
viaggio in Icaria, sede beata dell'uomo nello stato di natura non pochi
infelici credettero alle sue parole, e andarono cercando di là dall'Oceano una
regione e una felicità introvabili. Così nulla si cangia nel mondo, se non
l'apparenza delle cose, perchè l'uomo resta sempre il medesimo: e se nei secoli
scorsi, anelando alla spirituale perfezione, ei pensò, nel suo orgoglio, di
occupare prima del tempo il celeste paradiso, ora follemente prosegue la
chimera di una società perfetta, nella quale il paradiso sia su questa terra. Eterne
illusioni, che, come il vento della vanità; descritto dal nostro poeta, mutano
nome perchè mutan lato!
Fra mezzo a molte inezie; che or
destano il riso or conciliano il sonno, questa leggenda racconta come S.
Brandano; messosi in mare con altri compagni, dopo una navigazione piena di
avventure, maravigliose talora, tal'altra triviali, approdasse ad un'isola
detta il Paradiso degli uccelli, perchè ivi appunto dimoravano,
trasformati in volatili, quegli angeli pusillanimi che, nel dì della lotta, non
fur ribelli nè fur fedeli a Dio, ma per sè foro. Essi cantano le lodi di
Dio, e sono angeli per tutta la settimana; ma la Domenica sentono rinascersi le bianche piume sul dorso. Navigando più oltre, il nuovo Ulisse
giunge ad altra isola della quale vedonsi da lunge le ardenti fucine, e odonsi
i colpi dei pesanti martelli, che, come quelli dei ciclòpi omerici, battono
incessanti sulle incudini. È questa l'isola dell'Inferno, ove i diavoli giorno
e notte tormentano le anime, che gridano sotto le percosse dei ferri spietati.
I viaggiatori non osano, spaventati dai fieri abitatori e dall'orrore dei
tormenti, approdare all'isola; ma, allontanandosene, trovano in uno scoglio
deserto un uomo villoso e deforme; e qui abbiamo il solo notevole episodio
della leggenda.
Questi è Giuda Scariotte, il
traditore del maestro ed amico, sul capo del quale la immaginazione popolare ha
aggravato, come su quello di Edipo, le maledizioni di parricida e di
incestuoso75, ma cui la misericordia divina concede di aver requie dai
tormenti ogni domenica, più il Natale e le feste di Maria, e su codesto
scoglio, sebbene divorato da un'intima fiamma, gli par d'essere in
Paradiso76. Così l'infinita pietà discende mitigatrice sul massimo dei
peccatori, e con questo esempio fa chiaro come niuno debba mai disperarsi di
conseguirla. Ma qui lasceremo andare i monaci al loro viaggio, che s'intreccia
di maraviglie naturali e soprannaturali, finchè, visitata la terra di
ripromissione e il Paradiso delle delizie, ritornano al loro
monastero nella verde Erina.
E in Irlanda e nei cenobj
dell'isola devota siamo sempre colla Leggenda di Tundalo77. Di
costui narrasi che, vivesse nel 1149, e fosse vizioso e violento, come il
Tespesio di Plutarco, e al pari di lui morisse di morte subitanea. Ma l'anima,
dopo una mirabile peregrinazione al mondo di là in compagnia di un angelo, fece
ritorno al suo corpo. Intanto gran cose aveva visto: nel fuoco e nel ghiaccio
gli insidiatori, in un fiume di zolfo i superbi, e a capo del solito
strettissimo ponte, varcato felicemente, fra molti che cadono, da un solo
prete, una bestia mostruosa colla bocca spalancata, nella quale potrebbero
entrare a un tratto nove mila uomini armati di tutto punto. Il
nome di questo mostro è Acheronte, e divora gli avari: e qui è da notarsi come
già le denominazioni dell'inferno classico entrino a far parte dell'inferno
cristiano78: il che avverrà poi ancor più largamente nel libro del
nostro maggior poeta. Più oltre, è altra bestia con due piedi e due ali, collo
lunghissimo, ferreo rostro e unghie ferrate, dalla cui bocca escono fiamme
inestinguibili, e che siede sopra un lago congelato, e le anime le entrano in
corpo, ed essa ingravida di loro e loro di essa, generando serpi che poi le
tormentano. Or non par di vedere in questo mostro un lontano progenitore del
Lucifero dantesco, confitto nella ghiaccia, che si forma dal ventilare delle
sue ali sulle acque di Cocito79? Ma il Lucifero della leggenda di
Tundalo è rappresentato sopra una gratella ardente, e i dèmoni stessi,
soffiando, attizzano il fuoco che tutto lo consuma. Legato per tutte le membra,
ei si volge dolorando fieramente, or sur un lato or sull'altro: e, per lenire
il tormento, colle cento sue mani abbranca migliaia di anime che gli stanno
attorno: e come fa il villano assetato coi pieni grappoli, le stringe e
comprime, e a chi tronca il capo e a chi i piedi, e poi sospirando e sbuffando,
le sparge, come, faville, per diverse parti della geenna; ma quando ritrae a sè
il fiato, quelle gli son attratte nella bocca orribile, ed ei le maciulla e
divora80.
Nella invenzione dei tormenti
infernali mai forse la umana immaginazione fu così varia e potente, come quella
dell'anonimo monaco autore di questa leggenda. L'inferno di Tundalo è ben più
tetro di quello di Dante, ove almeno l'autore e il lettore a volta a volta si
commuovono ai casi di Francesca e di Ugolino, si esaltano dinanzi ai grandi
spiriti dell'antichità, sentono la nobiltà delle opere magnanime con Farinata,
e il valore di quelle dell'ingegno con Brunetto Latini. Nella leggenda di
Tundalo il solo sentimento eccitato è quello del terrore; con barbaro e
veramente medievale raffinamento di martirio, le anime dei dannati sono prima
condotte a vedere i gaudj degli eletti, perchè si addoppi loro la pena: ut
magis doleant; i diavoli sono armati di spiedi e di tridenti infiammati,
neri come carbone, con occhi come lampade ardenti, e code di scorpioni e ali di
avvoltoio, e fatta al fuoco massa di molte anime, se le gettano, quasi
giuocando alla palla, riparandole sui forconi81; ma le lagrime
dell'anima peregrina, che già presente e in parte prova gli orribili tormenti
infernali, paiono riserbate soltanto ai suoi proprj dolori. E se qui, come
nella Divina Commedia, l'autore parla di sè e dei suoi fatti, noi
perdoniamo a Dante, già prima che l'angelo gliela cancelli, la colpa della
superbia, ch'ei magnanimo confessa: ma che diremo di Tundalo, che si accusa di
aver rubato al suo compare una vacca82, e l'angelo lo obbliga a passar
con quella, divenuta selvaggia e feroce, lo stretto ponte dell'abisso? Sul
quale a grande stento passano finalmente la bestia e Tundalo; che, dopo molto
girare nel buio infernale, giunge ai purganti e agli eletti, d'onde l'angelo lo
rimanda alla spoglia abbandonata, ordinandogli di narrare ciò che ha visto.
E pur sempre da un chiostro
irlandese venne alle plebi cristiane di tutta Europa l'altra Leggenda del Purgatorio
di s. Patrizio83. Una antica tradizione recava che nel sesto
secolo, per convincere gli Irlandesi ancora pagani, s. Patrizio avesse aperto
una miracolosa caverna che menava all'altro mondo, e nella quale più tardi, nel
duodecimo, volle entrare un cavaliere di nome Ovven o Ivano84.
Preparato acconciamente con digiuni e preghiere, ei si avventura in questa
specie di antro di Trofonio85, e dopo aver camminato lungamente nelle
tenebre, giunge ad una vasta e luminosa corte, simile ad un chiostro, ove trova
appunto alcuni frati che lo confortano dei loro ammonimenti pel difficil
viaggio. Ma ecco, spariti i monaci, sopraggiungere legioni di diavoli che
vorrebbero precipitarlo nell'abisso, e dai quali si libera invocando il nome
del Signore. Così percorre tutti i campi sotterranei: sempre ghermito dai
diavoli, e sempre allo stesso modo sfuggendo alle unghie loro. Vede taluni
crocifissi in terra, come il Caifasso dantesco: altri divorati dai serpenti,
come i ladri della Divina Commedia: altri, come i lussuriosi del quinto
dell'Inferno, esposti nudi ai buffi di un vento ghiaccio e impetuoso, e,
come Farinata, altri ancora gettati in fosse infuocate. Vi sono dannati
confitti nel ghiaccio, come Ugolino, o immersi in fiume di metallo liquefatto e
uncinati dai diavoli quando alzino la testa, come i barattieri. Anche quì il
ponte stretto e sdrucciolevole: anche quì la bocca mostruosa che colle folate
dei sospiri rigetta le anime, che riddan per l'aria, e poi di nuovo sono
aspirate, come in altre leggende86. I visionarj, cominciano a copiarsi
fra loro87, ed è naturale; perchè l'immaginazione umana si isterilisce
e si stanca, e quella dei visionari era già piena delle forme trovate dai loro
predecessori, sicchè rivedevano quello che già altri aveva visto; nè forse quì
vi ha di nuovo, o almeno di molto terribile, se non una immensa ruota uncinata
e ardente, che girando continua e velocissima, stritola e macina i peccatori:
Ma dalle altre questa leggenda diversifica nel non dir mai le varie sorta di
peccatori, e nel fare che il ponte anzichè all'inferno guidi al paradiso
deliziano: luogo di riposo alle anime già purgate d'ogni macula e degne di
entrare in cielo, ed ove, come in quello di Dante, si presenta innanzi agli
occhi del pellegrino una gran processione divotamente salmeggiante. Due arcivescovi
lo accompagnano su un monte, dond'ei scorge la porta del paradiso simile
all'oro fine ch'è nella fornace ardente. Allora una fiamma di fuoco celeste
gli scende sul capo, e congedato dalle sue guide, ripassando per la via già
percorsa, a malincuore Ivano ritorna nel mondo88.
Sono quasi cinquant'anni dacchè
fra noi si agitò la questione se Dante avesse tolta la materia del suo poema da
una Visione, quella di Frate Alberico, che venne diseppellita
dagli archivj del cenobio cassinese89. Ma è assai dubbio se cotesta
narrazione varcasse mai le soglie della badia benedettina, ove poi è quasi
certo che Dante non ponesse mai il piede. Come tutte le altre, la Visione di Frate Alberico è in gran parte congesta di elementi tradizionali,
con qualche episodio in proprio; e pur di essa daremo un rapido sunto. Rapito
per le chiome da un colombo e guidato dall'apostolo s. Pietro e da due angeli,
Alberico ancor fanciullo, vien condotto a visitare l'inferno e il paradiso.
Dopo il Purgatorio dei parvoli90, egli scorge all'inferno i lascivi,
sepolti nel ghiaccio, ma or più or meno, come i traditori di Dante, secondo il
grado del peccato: infisse per le mammelle a lunghi e spinosi rami le donne che
negarono il latte ai fanciulli, e su roghi ardenti sospese le adultere; poi i
violatori dei giorni festivi, costretti a salire e scendere una scala
infuocata: i tiranni avviluppati, come Ulisse e Diomede, entro globi di fuoco:
gli omicidj in un lago di sangue bollente, come i violenti della Divina
Commedia, colla quale Alberico concorda mettendo nel fuoco i simoniaci.
Coloro che lasciarono l'ordine ecclesiastico o la regola monastica, soffrono,
come i ladri danteschi, i morsi di atroci serpenti; nel liquido metallo ardente
sono i sacrileghi. Tralasciando altri episodj, che nella ripetizione di pene
quasi consimili, mostrano nell'autore più buona volontà che vera forza di
fantasia, diremo che nel mezzo dell'inferno, ove stanno già condannati senza
necessità di giudicio, Giuda, Anna, Càifas ed Erode, è Lucifero legato da una
gran catena, e confitto entro un gran pozzo. Come i diavoli di Dante, quelli di
Alberico tentano acciuffarlo cogli uncini, allorquando s. Pietro lo lascia solo
un momento, per correre in fretta a fare il suo ufficio di portinaio, e aprir
le regge del paradiso ad un'anima che, passando per l'inferno e assaggiandone
per un istante le fiamme, deve entrare nel soggiorno degli eletti. Al quale poi
giunge anche, traversato il consueto ponte sottile, il nostro fraticello, e lo
vede pieno di luce e di fragranze; e intorno ad esso, le anime dei giusti che
attendono il giudizio finale; dopo il quale saliranno alla beatifica visione di
Dio, concessa ora soltanto agli Angeli e a' Santi. Fra' quali è già gran numero
di cenobiti seguaci di s. Benedetto: e l'Apostolo che guida Alberico fa lunga
apologia del monachismo: la quale, se può parer fuori di luogo, serve però a
meglio chiarire l'origine e l'indole della scrittura. Dopo averlo rapito al
primo cielo, donde gli espone l'ordine degli altri, s. Pietro mostra ad
Alberico le cinquantuna regioni nelle quali è diviso il mondo, e che non
sapremmo bene a qual geografia corrispondano: indi, messagli una carticella
scritta in bocca91, lo rimanda al suo chiostro, ingiungendogli di
riferire le cose vedute, e di offrirgli ogni anno un cero benedetto, alto
quanto la sua statura (ad mensuram staturae tuae): e così puerilmente ha
termine la Visione.
Della quale già via via abbiamo
notate alcune rassomiglianze col poema di Dante, e altre potrebbero
aggiungersene. Così fu osservato che ambedue i viaggiatori hanno una guida
nell'arduo viaggio: che Lucifero è da ambedue chiamato col nome di verme92:
che la selva dei suicidj danteschi somiglia a quella di Alberico, plena
subtilissimis arboribus.... quarum omnium capita acutissima erant et
spinosa: che Pietro ambedue ammaestra nelle cose della fede, e così
via93. Ma fossero anche maggiori e più strette le corrispondenze, non
diremo che, più che da altra, da questa leggenda, la quale del resto, nel suo
disordine, dà prova del volgare ingegno di chi la scrisse, abbia tolto Dante
forme ed elementi al suo poema. Tutte le notate visioni sono anelli di una gran
catena che risale a tempi antichissimi: e, fors'anche, Dante potè ignorare
alcuno di questi non sapidi frutti della letteratura claustrale94; ma
ben conosceva egli, senz'altro, come la coscienza e l'immaginazione dei suoi
coetanei fosser replete di così fatte rappresentazioni della vita futura.
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