V
Ma l'abuso che per politici
intenti e per fini mondani erasi fatto della visione, aprì la via, come suole
accadere, ad altro abuso: e questa forma non fu quasi più altro se non tema di poesia
e modo di satira. Già non credevasi più alle visioni se non fossero raccontate
da uomini che indi a poco fossero venuti a morire, come se il gran passo
all'eternità fosse riprova del vero, e l'anima allora presentisse i suoi futuri
destini e la vita avvenire114; nè tutti potevano addurre a testimone
dei loro racconti quella pelle color di fuoco che il tedesco Evervaco riportò
dai tormenti infernali115. Intanto ai monaci solitarj ed agli
inframettenti prelati succedono lieti e giocondi poeti laici. La famiglia dei
Troveri, dei Giullari e dei Menestrelli, allegri e spensierati quanto severi e
cupi erano stati quei loro antecessori nell'uso della visione, venne a sorgere
quando appunto più erasi della visione abusato.
Posti quasi sempre in lotta e in
antagonismo coll'ordine sacerdotale, questi poeti vollero anch'essi provarsi ad
un soggetto così spesso trattato, e divenuto ormai popolare e comune; e ad
occhi aperti e con aperto intelletto, finsero anch'essi un inferno e un
paradiso. Ma se il clero aveva confitto nell'abisso i re e i baroni che gli
erano stati aperti nemici o non lo avevano favorito, e glorificato in cielo
quelli che gli si erano mostrati ligi, i poeti tennero altro modo e fecero
altra scelta, ed ebbero agio di mordere acremente l'avarizia, la simonia, la
scostumatezza del clero. E così, l'arma che il sacerdozio aveva maneggiato a
sua difesa, eragli volta contro ad offesa; e quei racconti dei quali fino
allora il popolo aveva avuto terrore, davano occasione alle grasse risate dei
borghesi, che si rinfrancavano della sofferta paura.
Anche qui il campo è assai
vasto, e debbo contentarmi di alcuni esempj, tratti da quelle letterature che i
Trovatori e i Cantores francigenarum diffusero ben presto nelle corti e
nelle piazze della nostra penisola.
Taluna volta il soggetto
dell'inferno e del paradiso e la forma della visione porgono modo al poeta di
esporre, per mezzo di simboliche personificazioni, com'era vezzo di quell'età,
un certo ordine di morali dottrine; e in tal caso si direbbe ch'ei voglia
soltanto provare le forze della sua fantasia e la copia della scienza. A questa
categoria di poemi didattici appartiene, fra gli altri, la Voye du Paradis di Baudouin de Condé116. Egli comincia colla
descrizione della primavera, solita ed obbligata introduzione di ogni poesia,
lirica o narrativa di quel primo risvegliarsi del mondo e del pensiero moderno
e a cui neanche Dante ha saputo rinunziare, ponendo il suo pellegrinaggio nella
dolce stagione, in che l'amor divino mosse dapprima le sfere del
cielo. Sogna allora il poeta di essersi trovato ad un bivio; per un sentiero
tortuoso ma largo, si avviano a gran furia principi, baroni, prelati e
borghesi; e l'altro, dritto ma aspro, è lasciato deserto117. Senza
curare le spine ed i bronchi che gli impediscono il passo, Baldovino si pone
per questa via; e i versi coi quali ne descrive le difficoltà: En la fin
entre en une sente, Si aspre ne cuic mes c'om sente Et avoec ce qu'iert .aspre
et dure, Si qu'a mout grat meschief l'endure118, rammentano assai
da vicino quelli con che Dante descriverà la selva selvaggia ed aspra e
forte che nel pensier rinnova la paura119. A capo della via sta una
croce, dinnanzi alla quale il poeta si prostra e devotamente prega Dio, che gli
manda un venerabile vecchio. Questi gli fa parte di molti e nobili insegnamenti
morali, finchè Baldovino, contrito e confesso, e passando dalle case di
Disciplina, Astinenza e Silenzio, è portato dagli angeli in paradiso: e la
gioia che prova, gli rompe il sonno.
Ecco dunque il laicato e la
poesia che cominciano a impadronirsi di temi, e quel che è più, di regioni già
possedute dal solo sacerdozio. Ma il più delle volte, il poeta non si contenta
di mere considerazioni filosofiche e religiose, sì vi unisce beffarde allusioni
e vi mesce satirico sale, come nel favolello di Ruteboeuf, intitolato anch'esso
la Voye du Paradis120, ove troviamo assai felicemente
personificati i vizj e le virtù, e descritte le loro consuetudini e residenze;
e meglio ancora in altro poemetto121, pur dallo stesso titolo, che
rifrusta la consueta favola del sogno e della peregrinazione nei regni di enti
allegorici, ma l'avviva con amari lamenti sulla decadenza degli ordini
monastici, terminando col benigno discorso che Dio stesso fa al poeta, e colla
promessa di chiamarlo a suo tempo in cielo.
Più ardite sono le descrizioni
del soggiorno degli eletti e di quello dei reprobi, nè il poeta prova sgomento
o paura, anzi tratta quasi familiarmente soggetti siffatti122. La Cour du Paradis123 di anonimo trovero, descrive una festa che il
Signore offre a tutti i beati nel giorno stesso in che tutti sono in terra
festeggiati dagli uomini. Ma questa corte celeste nella fantasia del poeta
diventa la corte plenaria di un signore feudale. Il re del cielo chiama dunque
s. Simone e il suo inseparabile compagno s. Giuda, e loro commette di andare
per tutte le celle e i dormitorj del paradiso, e invitare alla prossima festa.
S. Simone e s. Giuda munitisi di una raganella, si mettono in giro, passando
via via dalle stanze degli angeli, dei patriarchi, degli apostoli, dei martiri,
dei confessori, dei pargoli innocenti, delle vergini e delle vedove. Quando la
festa incomincia, tutti i santi drappelli vengono un dopo l'altro, cantando
canzonette amorose, che dall'umano sono alla meglio trasportate a significare
il divino affetto: e in cielo si fanno le danze stesse che allora più erano in
voga nelle baronali residenze. Maria e la Maddalena cantano e danzano124, e sulla intercessione della regina del cielo viene ordinato a s.
Pietro125 di conceder l'entrata anche alle anime soffrenti nel
purgatorio. Scrivendo questo strano poemetto, l'autore era egli in buona fede,
o voleva empiamente satireggiare le cose appartenenti alla religione? È egli o
no un precursore di Rabelais, di Voltaire, di Parny? Gli autori della Histoire
littéraire de la France126 pensano che senza aver mire irreligiose,
il poeta ingenuamente si dipingesse nella fantasia le gioie celesti sull'esempio
degli spassi mondani. A noi basta notare quanto da questo argomento siasi
allontanato il primitivo spirito, e come il paradiso, descritto nelle leggende
monastiche quasi luogo di continua preghiera e di melanconica contemplazione,
in questo ritornare del genere umano, dopo i terrori medievali, al riso, al
canto, alla cavalleria, si modelli sullo stampo di una corte d'amore, allegrata
dallo spettacolo della bellezza, dagli esempi di leggiadro costume, dai diletti
della gaia scienza. E così l'inferma fantasia dell'uomo, si foggia a sua posta
le cose invisibili: e immaginando il paradiso ora come un coro
monastico127, ora come una corte bandita, segue sempre, e quasi
inconsapevole, preoccupazioni variabili e momentanee.
Nel poemetto di Baldovino abbiamo
visto i laici, i poeti, che acquistano il loro seggio nel paradiso: ma ben
presto vorranno entrarvi anche genti di più basso stato, preludendo ai maggiori
avanzamenti e alle definitive conquiste della plebe nell'ordine politico. Nel
favolello du Vilain qui gagna Paradis en plaidant128, costui si
pone a disputare con s. Pietro che vuol negargli accesso129, e gli
dimostra che il paradiso è fatto anche per gli umili e pei poveri, quando sieno
uomini da bene e leali, come non fu certo l'apostolo che tre volte rinnegò il
maestro. In aiuto di s. Pietro vien s. Tommaso, irato contro il villano, il
quale, di rimando, lo rimprovera della sua poca fede, quando ebbe bisogno, per
credere, di toccare la piaga del costato. A questi succede s. Paolo, e anche a
lui è ricordato che perseguitò i primi credenti, e fece lapidare s. Stefano. Il
villano allora si prostra innanzi a Dio; e poichè non lo rinnegò mai, e fu
largo ai poveri, e obbediente ai precetti di santa Chiesa, dimanda di non
essere scacciato; e il Signore benevolo gliel concede130.
Dalle descrizioni del cielo,
passiamo ai pellegrinaggi nell'inferno, e prima diciamo del Songe d'Enfer
di Raoul d'Houdan131. Il viaggio comincia colle solite personificazioni
di enti astratti: il poeta alloggia successivamente presso Cupidigia nel paese
di Slealtà, presso Invidia che ha per compagne e cugine Frode, Rapina e
Avarizia, indi presso Ubriachezza che ha seco un figlio nato in Inghilterra, e
presso Ladroneccio che ha molti amici in Parigi, specialmente fra i tavernieri,
indicati per nome dall'autore. Finalmente giunge alle porte infernali, guardate
da Disperazione e da Morte subitanea. In cotesto giorno appunto, Belzebù tien
corte bandita ai suoi vassalli, e il poeta vi assiste, riconoscendo fra quelli
molti chierici e abati e vescovi: dopo di che si imbandisce un gran pranzo, al
quale anche il trovero è invitato. L'immaginazione bizzarra del poeta si sfrena
qui con intera licenza, e ci dice che la tovaglia è fatta di pelle di
pubblicani, e le salviette di cuojo di peccatrici incallite nel vizio.
Vengono poi i cibi, e sono carni
di usuraj ingrassati del ben degli altri, e ladri nudriti dell'altrui sangue:
poi eretici in spiedo, lingue fritte di avvocati132, berrovieri in
pasticcio, monache nere in cibreo, e così via133. Alla fine del pranzo,
Belzebù fa portare il gran libro dei peccati, e ne concede la lettura al suo
ospite, che corre subito alla rubrica dei menestrelli, e vi legge le colpe di
tutti i suoi compagni di professione. Io ho tenuto a mente, dice il poeta, i
nomi, i fatti e i detti, e posso ripeterveli per filo e per segno. - Ma Raoul a
questo punto si sveglia; e il poemetto ha termine con siffatta maligna
reticenza134.
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