Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Alessandro D’Ancona
I precursori di Dante

IntraText CT - Lettura del testo

  • III
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

III.

 

Queste maggiori Leggende sono la Visione di S. Paolo, il Viaggio di S. Brandano, la Visione di Tundalo, il Purgatorio di S. Patrizio, e la Visione di Alberico, delle quali parlerò partitamente, ma rapidamente.

Apocrifa, ma forse fondata su antiche tradizioni, è la Visione di S. Paolo appartenente all'undecimo secolo. Di essa abbiamo un testo latino ancora inedito una versione francese del trovero Adam de Ros, e traduzioni in varie lingue europee58. Nell'Epistola ai Corinti l'Apostolo avea scritto: Io conosco un uomo in Cristo, il quale sono già passati quattordici anni, fu rapito (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol so, Iddio il sa) sino al terzo cielo. E so che quel tal uomo (se fu in corpo o fuor del corpo, io nol so, Iddio il sa) fu rapito in Paradiso, ed udì parole ineffabili, le quali non è lecito ad uomo alcuno di proferire59. Sarebbe forse ardito affermare che da questo testo ove l'autore parla di sè, la fantasia popolare derivasse un rapimento di Paolo non che al cielo, anche all'inferno: certo è però esser questa la sola leggenda anteriore alla Divina Commedia che Dante mostri aver conosciuta, chiaramente alludendovi nel c. II. dell'Inferno, quando, dubitando di fidarsi all'alto passo, rammenta due sole discese d'uomini viventi nel regno dei morti: quella cioè virgiliana di Enea e l'altra di S. Paolo: andovvi poi lo Vas d'elezione, Per recare conforto a quella fede Ch'è principio alla via di salvazione. Ma io perchè andarvi? e chi 'l concede? Io non Enea, io non Paolo sono.

Secondo questa Visione, Paolo è condotto da un angelo a vedere le pene infernali, che dureranno a detta dell'ingenuo autore, al quale cotesto numero rappresentava l'infinito60, quarantaquattromila e cento anni. E prima, egli scorge un albero immenso al quale pei piedi, per la lingua, per gli orecchi stanno sospesi gli avari. Più oltre è una ardente fornace destinata agli impenitenti: quindi un torbido fiume, attraversato da un ponte «sottile colpe un capello». Questo ponte che già trovammo, e che ritroveremo ancora in altre leggende61, è dapprima mentovato62 nelle tradizioni persiane, donde passò ai credenti di Maometto, e dall'Oriente poi venne nella letteratura cristiana dell'età media63. A capo del ponte sta Belzebù, colla immane bocca spalancata, entro la quale sono attratte le anime dei peccatori, che ne escono poi infiammate come zolfo, annerite come carbone64. Nel fiume i dannati stanno alcuni sino al ginocchio, altri sino alle ciglia, come i tiranni e i traditori di Dante, secondo la gravità dei loro misfatti. Seguono altri tormenti e altri tormentati, che tralasciamo di ricordare; finchè, per ultimo, l'Apostolo giunge a un pozzo suggellato da sette suggelli, ove son sepolti coloro che negarono la divinità di Cristo. Ma questa terribile leggenda s'illumina in fondo di un raggio di luce celeste. Alzando gli occhi, s. Paolo vede gli angeli menare in paradiso l'anima di un giusto65, mentre i demoni ghermiscono quella di un dannato. Quest'inferno dal quale si vede il cielo, certo rassomiglia poco a quello di Dante; e se la visione dantesca ha tutta l'indole di un viaggio, questa di s. Paolo potrebbe ben dirsi un sogno immaginoso. Ma intanto i reprobi sollevati a speranza dal grido di gioia che echeggia nell'alto, pregano umilmente l'Apostolo che interceda per loro, e il Miserere proferito da milioni di bocche passa i quattro cieli, e giunge sino al trono di Cristo. Il quale, scendendo giù, e duramente rampognando quei miseri, pure, per amore del suo discepolo, concede loro requie ebdomadaria, dalla ora nona del sabato alla prima del lunedì; e, in mezzo alle recriminazioni dei demoni e alle benedizioni dei dannati, la santificazione della Domenica, che sembra esser il concetto animatore di tutta la leggenda66, si estende fino ai regni di Satana; e la cessazione del lavoro sopra la terra corrisponde, sotto terra, alla interruzione delle pene.

Allo stesso secolo spetta probabilmente67 anche il Viaggio di S. Brandano68 che l'Ozanam, con arguta frase, chiama odissea monastica69. È desso il parto della fantasia di un monaco, le cui forze però erano miseramente circoscritte dall'angustia della vita cenobitica. Nata in Irlanda questa leggenda si diffuse per ogni parte d'Europa, e fu via via raffazzonata da' varj volgarizzatori, che credettero accrescerne il pregio allungandola, e infarcendola sempre di altri episodj. Ma nella povertà della loro immaginazione, costoro non sepper far altro se non amplificare e ripetere gli stessi racconti; e i monaci viaggiatori, secondo ben nota il Villari, «incontrando un gran numero di isole, ripetono sempre le stesse operazioni: mangiano, bevono, si lavano i piedi, sentono la messa, dormono e ripartono70». Tuttavia la leggenda, come quella che narrava fatti meravigliosi e descriveva regioni sconosciute, meschiando i colori ascetici coi romanzeschi, e insieme consertando le tradizioni dell'antichità71 colle favole orientali72 e le pie narrazioni dei chiostri, non solo incontrò favore presso le plebi, ma fu generalmente ritenuta vera anche rispetto alle condizioni dei luoghi descritti. L'isola di s. Brandano, sulla sola asserzione di questa scrittura, venne segnata sulle carte73, e menzionata nei libri geografici del tempo74: ne è fatta parola perfino in pubblici trattati, e in quello di Evora dalla corona di Portogallo, che avrebbe dovuta possederla, fu ceduta a quella di Castiglia, che non seppe mai trovarla, tanto che fino nel 1721 dalla Spagna partivano navi alla ricerca di essa. Fatto strano, ma non meraviglioso: chi ricordi almeno, come ai dì nostri, dopo che Stefano Cabet ebbe descritto il suo immaginario viaggio in Icaria, sede beata dell'uomo nello stato di natura non pochi infelici credettero alle sue parole, e andarono cercando di là dall'Oceano una regione e una felicità introvabili. Così nulla si cangia nel mondo, se non l'apparenza delle cose, perchè l'uomo resta sempre il medesimo: e se nei secoli scorsi, anelando alla spirituale perfezione, ei pensò, nel suo orgoglio, di occupare prima del tempo il celeste paradiso, ora follemente prosegue la chimera di una società perfetta, nella quale il paradiso sia su questa terra. Eterne illusioni, che, come il vento della vanità; descritto dal nostro poeta, mutano nome perchè mutan lato!

Fra mezzo a molte inezie; che or destano il riso or conciliano il sonno, questa leggenda racconta come S. Brandano; messosi in mare con altri compagni, dopo una navigazione piena di avventure, maravigliose talora, tal'altra triviali, approdasse ad un'isola detta il Paradiso degli uccelli, perchè ivi appunto dimoravano, trasformati in volatili, quegli angeli pusillanimi che, nel dì della lotta, non fur ribelli nè fur fedeli a Dio, ma per sè foro. Essi cantano le lodi di Dio, e sono angeli per tutta la settimana; ma la Domenica sentono rinascersi le bianche piume sul dorso. Navigando più oltre, il nuovo Ulisse giunge ad altra isola della quale vedonsi da lunge le ardenti fucine, e odonsi i colpi dei pesanti martelli, che, come quelli dei ciclòpi omerici, battono incessanti sulle incudini. È questa l'isola dell'Inferno, ove i diavoli giorno e notte tormentano le anime, che gridano sotto le percosse dei ferri spietati. I viaggiatori non osano, spaventati dai fieri abitatori e dall'orrore dei tormenti, approdare all'isola; ma, allontanandosene, trovano in uno scoglio deserto un uomo villoso e deforme; e qui abbiamo il solo notevole episodio della leggenda.

Questi è Giuda Scariotte, il traditore del maestro ed amico, sul capo del quale la immaginazione popolare ha aggravato, come su quello di Edipo, le maledizioni di parricida e di incestuoso75, ma cui la misericordia divina concede di aver requie dai tormenti ogni domenica, più il Natale e le feste di Maria, e su codesto scoglio, sebbene divorato da un'intima fiamma, gli par d'essere in Paradiso76. Così l'infinita pietà discende mitigatrice sul massimo dei peccatori, e con questo esempio fa chiaro come niuno debba mai disperarsi di conseguirla. Ma qui lasceremo andare i monaci al loro viaggio, che s'intreccia di maraviglie naturali e soprannaturali, finchè, visitata la terra di ripromissione e il Paradiso delle delizie, ritornano al loro monastero nella verde Erina.

E in Irlanda e nei cenobj dell'isola devota siamo sempre colla Leggenda di Tundalo77. Di costui narrasi che, vivesse nel 1149, e fosse vizioso e violento, come il Tespesio di Plutarco, e al pari di lui morisse di morte subitanea. Ma l'anima, dopo una mirabile peregrinazione al mondo di là in compagnia di un angelo, fece ritorno al suo corpo. Intanto gran cose aveva visto: nel fuoco e nel ghiaccio gli insidiatori, in un fiume di zolfo i superbi, e a capo del solito strettissimo ponte, varcato felicemente, fra molti che cadono, da un solo prete, una bestia mostruosa colla bocca spalancata, nella quale potrebbero entrare a un tratto nove mila uomini armati di tutto punto. Il nome di questo mostro è Acheronte, e divora gli avari: e qui è da notarsi come già le denominazioni dell'inferno classico entrino a far parte dell'inferno cristiano78: il che avverrà poi ancor più largamente nel libro del nostro maggior poeta. Più oltre, è altra bestia con due piedi e due ali, collo lunghissimo, ferreo rostro e unghie ferrate, dalla cui bocca escono fiamme inestinguibili, e che siede sopra un lago congelato, e le anime le entrano in corpo, ed essa ingravida di loro e loro di essa, generando serpi che poi le tormentano. Or non par di vedere in questo mostro un lontano progenitore del Lucifero dantesco, confitto nella ghiaccia, che si forma dal ventilare delle sue ali sulle acque di Cocito79? Ma il Lucifero della leggenda di Tundalo è rappresentato sopra una gratella ardente, e i dèmoni stessi, soffiando, attizzano il fuoco che tutto lo consuma. Legato per tutte le membra, ei si volge dolorando fieramente, or sur un lato or sull'altro: e, per lenire il tormento, colle cento sue mani abbranca migliaia di anime che gli stanno attorno: e come fa il villano assetato coi pieni grappoli, le stringe e comprime, e a chi tronca il capo e a chi i piedi, e poi sospirando e sbuffando, le sparge, come, faville, per diverse parti della geenna; ma quando ritrae a sè il fiato, quelle gli son attratte nella bocca orribile, ed ei le maciulla e divora80.

Nella invenzione dei tormenti infernali mai forse la umana immaginazione fu così varia e potente, come quella dell'anonimo monaco autore di questa leggenda. L'inferno di Tundalo è ben più tetro di quello di Dante, ove almeno l'autore e il lettore a volta a volta si commuovono ai casi di Francesca e di Ugolino, si esaltano dinanzi ai grandi spiriti dell'antichità, sentono la nobiltà delle opere magnanime con Farinata, e il valore di quelle dell'ingegno con Brunetto Latini. Nella leggenda di Tundalo il solo sentimento eccitato è quello del terrore; con barbaro e veramente medievale raffinamento di martirio, le anime dei dannati sono prima condotte a vedere i gaudj degli eletti, perchè si addoppi loro la pena: ut magis doleant; i diavoli sono armati di spiedi e di tridenti infiammati, neri come carbone, con occhi come lampade ardenti, e code di scorpioni e ali di avvoltoio, e fatta al fuoco massa di molte anime, se le gettano, quasi giuocando alla palla, riparandole sui forconi81; ma le lagrime dell'anima peregrina, che già presente e in parte prova gli orribili tormenti infernali, paiono riserbate soltanto ai suoi proprj dolori. E se qui, come nella Divina Commedia, l'autore parla di sè e dei suoi fatti, noi perdoniamo a Dante, già prima che l'angelo gliela cancelli, la colpa della superbia, ch'ei magnanimo confessa: ma che diremo di Tundalo, che si accusa di aver rubato al suo compare una vacca82, e l'angelo lo obbliga a passar con quella, divenuta selvaggia e feroce, lo stretto ponte dell'abisso? Sul quale a grande stento passano finalmente la bestia e Tundalo; che, dopo molto girare nel buio infernale, giunge ai purganti e agli eletti, d'onde l'angelo lo rimanda alla spoglia abbandonata, ordinandogli di narrare ciò che ha visto.

E pur sempre da un chiostro irlandese venne alle plebi cristiane di tutta Europa l'altra Leggenda del Purgatorio di s. Patrizio83. Una antica tradizione recava che nel sesto secolo, per convincere gli Irlandesi ancora pagani, s. Patrizio avesse aperto una miracolosa caverna che menava all'altro mondo, e nella quale più tardi, nel duodecimo, volle entrare un cavaliere di nome Ovven o Ivano84. Preparato acconciamente con digiuni e preghiere, ei si avventura in questa specie di antro di Trofonio85, e dopo aver camminato lungamente nelle tenebre, giunge ad una vasta e luminosa corte, simile ad un chiostro, ove trova appunto alcuni frati che lo confortano dei loro ammonimenti pel difficil viaggio. Ma ecco, spariti i monaci, sopraggiungere legioni di diavoli che vorrebbero precipitarlo nell'abisso, e dai quali si libera invocando il nome del Signore. Così percorre tutti i campi sotterranei: sempre ghermito dai diavoli, e sempre allo stesso modo sfuggendo alle unghie loro. Vede taluni crocifissi in terra, come il Caifasso dantesco: altri divorati dai serpenti, come i ladri della Divina Commedia: altri, come i lussuriosi del quinto dell'Inferno, esposti nudi ai buffi di un vento ghiaccio e impetuoso, e, come Farinata, altri ancora gettati in fosse infuocate. Vi sono dannati confitti nel ghiaccio, come Ugolino, o immersi in fiume di metallo liquefatto e uncinati dai diavoli quando alzino la testa, come i barattieri. Anche quì il ponte stretto e sdrucciolevole: anche quì la bocca mostruosa che colle folate dei sospiri rigetta le anime, che riddan per l'aria, e poi di nuovo sono aspirate, come in altre leggende86. I visionarj, cominciano a copiarsi fra loro87, ed è naturale; perchè l'immaginazione umana si isterilisce e si stanca, e quella dei visionari era già piena delle forme trovate dai loro predecessori, sicchè rivedevano quello che già altri aveva visto; nè forse quì vi ha di nuovo, o almeno di molto terribile, se non una immensa ruota uncinata e ardente, che girando continua e velocissima, stritola e macina i peccatori: Ma dalle altre questa leggenda diversifica nel non dir mai le varie sorta di peccatori, e nel fare che il ponte anzichè all'inferno guidi al paradiso deliziano: luogo di riposo alle anime già purgate d'ogni macula e degne di entrare in cielo, ed ove, come in quello di Dante, si presenta innanzi agli occhi del pellegrino una gran processione divotamente salmeggiante. Due arcivescovi lo accompagnano su un monte, dond'ei scorge la porta del paradiso simile all'oro fine ch'è nella fornace ardente. Allora una fiamma di fuoco celeste gli scende sul capo, e congedato dalle sue guide, ripassando per la via già percorsa, a malincuore Ivano ritorna nel mondo88.

Sono quasi cinquant'anni dacchè fra noi si agitò la questione se Dante avesse tolta la materia del suo poema da una Visione, quella di Frate Alberico, che venne diseppellita dagli archivj del cenobio cassinese89. Ma è assai dubbio se cotesta narrazione varcasse mai le soglie della badia benedettina, ove poi è quasi certo che Dante non ponesse mai il piede. Come tutte le altre, la Visione di Frate Alberico è in gran parte congesta di elementi tradizionali, con qualche episodio in proprio; e pur di essa daremo un rapido sunto. Rapito per le chiome da un colombo e guidato dall'apostolo s. Pietro e da due angeli, Alberico ancor fanciullo, vien condotto a visitare l'inferno e il paradiso. Dopo il Purgatorio dei parvoli90, egli scorge all'inferno i lascivi, sepolti nel ghiaccio, ma or più or meno, come i traditori di Dante, secondo il grado del peccato: infisse per le mammelle a lunghi e spinosi rami le donne che negarono il latte ai fanciulli, e su roghi ardenti sospese le adultere; poi i violatori dei giorni festivi, costretti a salire e scendere una scala infuocata: i tiranni avviluppati, come Ulisse e Diomede, entro globi di fuoco: gli omicidj in un lago di sangue bollente, come i violenti della Divina Commedia, colla quale Alberico concorda mettendo nel fuoco i simoniaci. Coloro che lasciarono l'ordine ecclesiastico o la regola monastica, soffrono, come i ladri danteschi, i morsi di atroci serpenti; nel liquido metallo ardente sono i sacrileghi. Tralasciando altri episodj, che nella ripetizione di pene quasi consimili, mostrano nell'autore più buona volontà che vera forza di fantasia, diremo che nel mezzo dell'inferno, ove stanno già condannati senza necessità di giudicio, Giuda, Anna, Càifas ed Erode, è Lucifero legato da una gran catena, e confitto entro un gran pozzo. Come i diavoli di Dante, quelli di Alberico tentano acciuffarlo cogli uncini, allorquando s. Pietro lo lascia solo un momento, per correre in fretta a fare il suo ufficio di portinaio, e aprir le regge del paradiso ad un'anima che, passando per l'inferno e assaggiandone per un istante le fiamme, deve entrare nel soggiorno degli eletti. Al quale poi giunge anche, traversato il consueto ponte sottile, il nostro fraticello, e lo vede pieno di luce e di fragranze; e intorno ad esso, le anime dei giusti che attendono il giudizio finale; dopo il quale saliranno alla beatifica visione di Dio, concessa ora soltanto agli Angeli e a' Santi. Fra' quali è già gran numero di cenobiti seguaci di s. Benedetto: e l'Apostolo che guida Alberico fa lunga apologia del monachismo: la quale, se può parer fuori di luogo, serve però a meglio chiarire l'origine e l'indole della scrittura. Dopo averlo rapito al primo cielo, donde gli espone l'ordine degli altri, s. Pietro mostra ad Alberico le cinquantuna regioni nelle quali è diviso il mondo, e che non sapremmo bene a qual geografia corrispondano: indi, messagli una carticella scritta in bocca91, lo rimanda al suo chiostro, ingiungendogli di riferire le cose vedute, e di offrirgli ogni anno un cero benedetto, alto quanto la sua statura (ad mensuram staturae tuae): e così puerilmente ha termine la Visione.

Della quale già via via abbiamo notate alcune rassomiglianze col poema di Dante, e altre potrebbero aggiungersene. Così fu osservato che ambedue i viaggiatori hanno una guida nell'arduo viaggio: che Lucifero è da ambedue chiamato col nome di verme92: che la selva dei suicidj danteschi somiglia a quella di Alberico, plena subtilissimis arboribus.... quarum omnium capita acutissima erant et spinosa: che Pietro ambedue ammaestra nelle cose della fede, e così via93. Ma fossero anche maggiori e più strette le corrispondenze, non diremo che, più che da altra, da questa leggenda, la quale del resto, nel suo disordine, dà prova del volgare ingegno di chi la scrisse, abbia tolto Dante forme ed elementi al suo poema. Tutte le notate visioni sono anelli di una gran catena che risale a tempi antichissimi: e, fors'anche, Dante potè ignorare alcuno di questi non sapidi frutti della letteratura claustrale94; ma ben conosceva egli, senz'altro, come la coscienza e l'immaginazione dei suoi coetanei fosser replete di così fatte rappresentazioni della vita futura.




58 Pei manoscritti latini di questa leggenda vedi il Catal. des Mss. des Dèpartem., III, 171; Wright, op. cit. p. 8; Du Meril. op. cit., p. 298; Bartsch, Grundr. z. gesch. d. prov. literat., p. 57. Per le versioni francesi, il De la Rue, Essai sur les Bardes etc., III, 139; il Michel, Rapport, ec. 1837, p. 93: noi ci gioviamo del testo di Adamo il trovero, pubbl. dall'Ozanam, Dante et la phil. cathol., p. 413. Per le inglesi, il Warthon, Hist. of engl. poetr. I, 19, e Wright, p. 8; per le provenzali, il Fauriel, Hist. litterat. provenç. I, 260, e il Bartsch, Deukm. d. prov. litterat., 310. Oltre quella pubblicata dal Villari se ne hanno altre versioni italiane inedite: p. es. nella Palatina, II, IV, 56: nella Riccardiana (Cital. Lami, p. 314 ecc.). - Un frammento di leggenda copta nel quale si narra di una visita di s. Paolo all'Inferno, ove ei trova Giuda, fu pubbl. dal Dulaurier: ved. Dict. des Legendes, Migne, 1855, col. 720 e 1040.



59 II, 12, 2-4. - Un libro apocrifo perduto conteneva la narrazione di questo rapimento di s. Paolo. Vedi August. Haeres., XVIII; Tertull., De praescript. XLII, Epiphan., Haeres., XXXVIII; Dictionn. des apocriph., II, 635.



60 Così il Labitte, p. 133. Ma nel verso Quarante et quatre milliers et cent parmi trovare una reminiscenza del centum quadraginta quator millia dell'Apocalis., XIV, 1.



61 Trovasi, ad es., nella visione del ladro convertito (Fioretti di S. Francesco, c. XXVI), la quale si direbbe un plagio malamente fatto a memoria, della visione di Tondalo; nella Visio Esdrae pubblicata dal Mussafia in appendice agli Studj su Tondalo, in quella del calavrese ab. Giovachino di spirito profetico dotato, riferita dall'Ozanam, p. 418, etc.



62 Questo ponte nei libri zendici (Vendidat, XIII, 3, 9, XVIII, 6, XIX, 29, Yacna, XLV, 10, 11, L, 13, LXX, 71, nonché nel Bundehesh, XXII, 15) si chiama cinvat, e le anime buone, cui sembra della larghezza di una parasanga, lo passano felicemente, guidate dall'angiolo Çraosha, mentre le malvagie, tratte dal demone Vizareshô, lo trovano stretto, e precipitano nell'abisso. Nelle tradizioni musulmane questo ponte, più acuto di una spada e più sottile di un capello, è detto siràt (ved. Sprenger, Das Leben d. Mohammed, II, 62-5). Qualche cosa di simile si può trovare, risalendo alle prime tradizioni ariane, nel setu (ponte) ricordato dal Rigveda, IX, 41, 2 e dal Sàmaveda II, 3, 1, 3, 2.



63 È notevole che di questo ponte, comunissimo ai leggendarj dell'età media, non vi sia menzione nella Divina Commedia: e malamente l'Ozanam, p. 372, vi raffronta il sasso rotto che dalla gran cerchia si move, e varca tutti i vallon feri. Si direbbe che Dante abbia voluto qui separarsi da tutti i suoi predecessori nella descrizione delle regioni infernali.



64 Ediz. Villari, p. 78. Manca nel testo francese. Così più sotto nel testo italiano, gli immersi fino al ginocchio sono gli avari, che nel poemetto francese sono invece sospesi agli alberi. Fra i due testi, le variazioni e le trasposizioni sono continue, fornendoci sicura prova che il popolo si era reso padrone di questi racconti, e li mutava forse per ignoranza, fors'anco per cangiata opinione sulla convenienza delle pene coi peccati.



65 Et vit deus angres en l'eir voler (Ozanam, 420). Più sotto il testo fr. è mancante, ma si rimedia alla lacuna colla lezione italiana, p. 80.



66 Lo die della domenica, così comincia il testo italiano, è grande da temere e da guardare di tutte le rie opere: p. 77.



67 Secondo Albericus Triumfontium, il viaggio risalirebbe al 561, e della leggenda si avrebbero secondo il Greith (Spicileg. vatic., p. 145) testi del IX sec. I più tuttavia, l'assegnano all'XI.



68 Il testo latino trovasi nella pubblicazione intitolata: Légende latine de S. Brandaines avec une traduction inedite en prose et en poesie romanes.... publ. par Ach. Jubinal, Paris, Techener, 1836: nonchè nella pîu recente: Sanct Brandan; eine lateinische u. drei deutsche texte, herausgg. v. C. Schröder, Erlangen, Besold, 1872. Altri mss. contenenti il testo latino sono indicati nel Catal. des mss. des Départem., I, 191, II, 777. Per le varie versioni, vedi Dohuet, Dict. des Légendes, Paris, Migne, col. 277 e la Prefazione dello Schröder. Un testo italiano, non però nella sua integrità, a causa delle sue molte lungaggini, fu pubbl. dal Villari, op. cit., p. 82-109.



69 P. 373. I Bollandisti lo designano col nome di deliramenta apocrypha.



70 Op. cit., p. XXXI.



71 Cfr. l'ira di Polifemo nel IX dell'Odissea con quella di un diavolo dell'isola infernale: Ecce-predictus barbarus occurrit ad litus illis a regione portans forcipem in manibus cum massa ignea de scorio immense magnitudinis ac fervoris, qui statim super famulos Christi jactavit praedictam massam, set illis non nocuit, transivit enim illo: quasi spacium unius stadii, ultra, nam ubi cecidit in mare, cepit fervere mare quasi ruina montis ignei fuisset ibi, et ascendebat fumus de mari sicut de clibano ignis: ediz. Schroder, p. 28.



72 Il gran pesce Jasconius preso dai monaci per un'isola sulla quale discendono, si trova, come nota lo Schröder (p. 39), nei romanzi di Alessandro e nelle Mille e una notte.



73 Santarem, Atlas des monum. geograph. dum. age. Paris, 1842.



74 I racconti della leggenda sono, come ha osservato il Reinaud, Geogr. d'Abulfed. II, 263, passati in parte nella Geografia di Edrisi: vedi Denis, Le monde enchantè, Paris, 1843, p. 265.



75 Vedi La leggenda di Vergogna e di Giuda, testi del buon secolo, Bologna, Romagnoli, 1869.



76 Villari, op. cit., p. 97. Quest'episodio di Giuda trovasi, passatovi dalla leggenda di S. Brandano, anche nella Image du Monde di Gautier de Metz (Du Meril, Poes. popul. latin. du moy. age, Paris, Franck, 1847, p. 336), e nel poema di Baudouin de Sebourg (V. Hist. litt. de la Fr. XXV, 595).



77 Di questa leggenda vedi il testo latino pubbl. dallo Schade: Visio Tnugdali, Halis saxonum, 1869, e dal Villari, p. 3-22. Le varie redazioni e le versioni in tedesco, olandese, inglese, svedese, irlandese, spagnuolo, provenzale, francese e italiano sono indicate nel pregevole opuscolo del Mussafia; appunti sulla Visione di Tundolo, Vienna, Gerold, 1871. Le versioni italiane sono, quella ripubblic. dal Villari, op. cit., p. 23-50, quella in dialetto veronese del Giuliari,. Il libro di Theodolo, Bologna, Romagnoli, 1870, e l'altra del Corazzini, La Visione di Tugdalo, Bologna, Romagnoli, 1872, ove nella Prefazione sono indicati parecchi altri testi volgari.



78 Vi è anche una fabrica fabrorum diretta da Vulcanus. § 11, ediz. Schade; § 8, ediz. Villari.



79 Altre rassomiglianze con Dante potrebbersi notare in questa leggenda. Così in Tundalo l'angelo a longe venientem quasi stellam lucidissimam, ricorda quello del Purgat. XII che venia bianco vestito e nella faccia quale Par tremolando mattutina stella. La disputa che fanno i diavoli cogli angeli sul corpo di Tundalo, ricorda quella per Guido e per Buonconte da Montefeltro: se non che, tutte più probabilmente risalgono a tradizioni anteriori, di cui trovansi traccie anche nelle Vite dei SS. PP., e che poi diventeranno il popolarissimo Contrasto dell'angelo e del demonio. In Tundalo, il mostruoso Acheronte divora due peccatori (i giganti Fergusius e Conallus) sicchè la sua bocca è in similitudinem triarum portarum: il che rammenta il Lucifero dantesco che maciulla Giuda, Bruto e Cassio, e le sue tre bocche. Così anche l'antipurgatorio di Dante potrebbe compararsi alle regioni della leggenda irlandese, ove stanno senza troppo gravi tormenti coloro che furono mali sed non valde, e i boni non valde, qui de inferni cruciatibus erepti, nondum merentur sanctorum consorcio conjungi.



80 Jacet... super cratem ferream, suppositis ardentibus prunis ab innumerabili multitudine demonum follibus sufflatis (sulflantium?).... ligatus.... cathenis ferreis atque ereis ignitis et valde grossis. Cum autem sic versatur in carbonibus, et undique conburitur, nimia ira exarsus vertit se de latere uno in aliud latus, et omnes manus suas in illam animarum multitudinem extendit, eisque repletis omnibus, constringit, et ut sitiens racemos exprimit. (Altro testo: sicut rusticus sitiens racemos comprimit ut inde vinum elitiat), ita ut nulla sit anima que vel non divisa, ut ita dixerim, vel capite, pedibus manibusque privata, evadere possit illesa... Tunc etiam quasi suspirans, sufflat et spargit omnes animas in diversas Gehenne partes, et statim eructat puteus fetidam flammam, et cum retrahit anhelitum suum dira bestia revocat ad se omnes animas, quas ante sparserat, et cum fumo ac sculphure in os ejus cadentes, devorat. § 14, ediz. Schade: § 10, ediz. Villari.



81 Questo pallegio diabolico delle anime trovasi anche in una visione dell'ab. Morimondo, in Cesario, dist. I, c. 22.



82 La vacca trovasi anche in una visione di Godescalco usuraio, riferita da Cesario, II, 7, ove il burgravio Elia di Rininge è condannato ad esser travolto e straziato da una vacca furente, che già fu da lui carpita a una povera vedova. Anche altrove gli oggetti materiali del peccato commesso diventano strumento di punizione. Nella citata visione del ladrone convertito (Fioretti di Franc. XXVI) la comare del visionario sta in inferno entro una misura di ferro tutta infuocata, perchè a tempo di carestia falsò con quella il prezzo delle biade. Nella visione di S. Vettino (Ozanam, p. 393) i potenti del mondo sono obbligati a mangiare ed ingoiare tutte le cose che altrui usurparono vivendo. In una leggenda di Cesario (XI, 34) l'anima di un monaco morente è impedita nel suo volo al cielo da un mezzo danaro, ch'egli dimenticò di pagare per mercede a un navichiere, e che a poco a poco cresce tanto ut mundo major videtur. In altra (XII, 42) i demoni sbattono in viso a un chierico, cui fu lasciata in legato, purchè suffragasse l'anima del defunto, una schiavina, e gli abbruciano così la pelle e i capelli.



83 Le maggiori notizie su questa leggenda si trovano nel citato libro del Wright, nonchè nel Diction. des Legend. col. 951, e nella Appendice di Philomneste Junior (Gust. Brunet?) al libro Le voyagc du puys sainct Patrice, Genève, Gay, 1867. Testi latini ne sono indicati nel Catal. des Ms. des Dèpart. I, 189, 473, II, 777. Il testo attribuito, a Enrico di Sutrey (Henricus Salteriensis) monaco benedettino vissuto circa il 1150 (v. Fabricius, Biblioth., ediz. Galletti, II, 211) è stampato nel Massinger, Floril. insul. sanctor. Hibern. Parigi, 1626. La leggenda è anche riferita nello Specul. di Vinc. di Beauvais e in Matt. Paris: (a. 1153). Pel francese, oltre il testo pubbl. del Gay, vedine uno molto più ampliato e moderno nel Dict. des Legend., col. 957. Testi in versi trovansi in Tarbè , Le Purgatoire de S. Patrice, Reims, 1862, e in Marie de France, ediz. Roquefort, II, 403: vedi anche De la Rue, Essai, III, 245, e P. Paris, Mss. franç., VI, 398. Pel provenzale, vedi Du Mège, Voyage au Purgatoire de s. P. par Perilhos et lo libre de Tindal, Toulouse, 1832. In italiano, trovasene un testo assai breve nelle Vite dei SS. PP., IV, 88. Più ampio e il testo pubbl. dal Villari, op. cit., 51-76. Una lezione veneziana ne ha stampata il prof. Grion nel Propugnatore, III, 116. Vedi anche il Teatro delle Glorie e Purgatorio di s. P. di C. Faleoni, Bologna, 1657, e la Vita del prodigioso s. P. con la relazione del rinomato suo Purgatorio scritta da Mario Parisiense, e la veridica storia di Luigi Ennio, Venezia, 1757. È noto il dramma spagnuolo El Purgatorio de s. Patricio di Calderon.



84 Secondo i vari testi si chiama Ovven, Olaus, Ennius, Esleves, Lodovicue, Nicolaio, Alvise, etc.



85 Le Grand d'Aussy, Fabliaux, ed. Renonard, 1829, V. 93; Labitte, op. cit., p. 127; Wright, op. cit., p. 68.



86 Ediz. Villari, p. 64. Anche nella Visione di Alberico: Ante os ipsius vermis animarum stabat multitudo, quas omnes quasi muscas simul absorbebat, ita ut cum flatum traheret, omnes simul deglutiret, cum flatum emitteret, omnes in favillarum modum rejiceret exustas: § 9. E nella Visio Esdrae: Ante os ejus stabant multi peccatores et cum duxit flatum ingrediebant in os ejus quasi muscae, cum autem respirabit, exibant omnes alio colore.



87 Così, secondo osserva l'Ozanam, p. 404, rassomiglianti fra loro il Purgatorio di s. Patrizio e la Visione di Dritelmo monaco inglese (raccontata da Beda, Hist. Eccles. V, 13), che pure ha qualche cosa di comune con quella di Tundalo (Wright, p. 18); e, a me pare che non differiscano molto fra loro, la Visione di Furseo e quella del monaco di Milbourg.riferita da S. Bonifazio, Epist. XXI. Quella di Roteario è, secondo il Wright (p. 106), un plagio della visione di Vettino.



88 Posteriori, e veramente storiche discese nella caverna di S. Patrizio, sono menzionate dal Wright, p. 135.



89 Vedila nel vol. V. della D. C. nelle edizioni del De Romanis, della Minerva e del Ciardetti, con a piè di pag., paralleli continui di passi danteschi. Alberico visse sul principio del sec. XII, e fu rapito in estasi essendo fanciullo di dieci anni. La visione da lui narrata corse per le bocche dei confratelli, mescolandosi col falso, finchè l'abate Girardo ordinò al monaco Guido di ridurla in scritto; ma avendo egli tralasciato molte cose, l'abate Signoretto (1127) commise a Pietro Diacono di unirsi con Alberico, e correggere e compiere la narrazione. Ciò si espone nel proemio che è fatto in nome di Alberico, e ove si danno i titoli di alcuni capitoli erroneamente interpolati nella leggenda.



90 Seguendo e ampliando una opinione di S. Agostino, Confess., I, 7, Alberico danna agli igneis prunis incendiosisque vaporibus i fanciulli, quia nec unius diei infans sine peccato est, et saepe tales, aut matrem contristando vel in faciem caedendo, vel aliquibus humane fragilitatis casibus, peccato omnino carere non possunt.



91 Cfr. Ezech. II, 8; III, 3; Jerem. XV, 16; Apocal. X, 9.



92 Su questa denominazione, ved. Maury, Essai sur lee Legendes,Paris, Ladrange, 1843, p. 152.



93 Vedi su ciò le Lettere del Bottari e del P. Costanzo. Ma non tutte le rassomiglianze che voglionsi stabilire fra Alberico e Dante ci sembrano giuste: per es., altra cosa è il letto che Alberico vede in paradiso ove giace uno cujus nomen ab Apostolo audivi, sed prohibuit dicere, ed altra è il seggio vuoto preparato per l'anima augusta di Arrigo VII. Sarebbe piuttosto da paragonare quest'ultimo con quel sedile mirabiliter ornatum in quo nemo sedebat della leggenda di Tundalo, destinato a un frate irlandese; qui non migravit a corpore, sed dum migravit, in tali sede sedebit. Anche nel Liber visionum beatae Aczelinae citato in Cesario, VI, 10, sii trova in coelesti mansione sedem vacuam mirae pulchritudinis et gloriae, destinata a un frate Engilberto. E qui cade in acconcio notare come del caso contrario, cioè di un'anima anticipatamente dannata alle pene infernali, che sembra audacissima invenzione di Dante a proposito di Branca Doria, già eravi esempio in Cesario stesso (XII, 3), per Ermanno langravio, l'anima del quale in profundo inferno dimersa erat, e anno integro antequam sepeliretur mortuus erat, cuius corpus malignus spiritus loco animae vegetabat, secondo in visione asserì un santo a un sacerdote che pregava per la conversione del potente signore.



94 A questa categoria di Visioni, oltre quelle già ricordate qua e là nelle note, sarebbero da aggiungersene altre ancora, cioè I: La visione di s. Anscario nella vita che ne ha lasciato s. Ramberto (Bolland. Febr. III) ove il santo è condotto da s. Pietro e s. Giovanni al purgatorio e al paradiso, che, secondo osserva l'Ozanam (p. 395) è descritto con forme interamente spirituali, come le dantesche. I, II, III. Le due Visioni raccontate da Vincenzo Bellovacense, l'una di un Monaco cisterciense (a. 1153) l'altra del fanciullo William (Specul., XXVII, 84-89; XXIV, 6-10), riferite anche dal Wright (p. 31) e dall' Ozanam (p. 402). A queste sono da aggiungersi altre tre, tolte dallo stesso autore, e citate dal Kopisch (Ueb. d. gottl. Kom., in appendice alla traduzione della D. C., Berlino, Muller, 1842, p. 468), l'una delle quali (IV) di un Giudeo spogliato dai ladri e abbandonato in lacci e senza cibi perchè si converta alla fede, a cui apparisce Maria che lo slega, e trattolo seco, gli fa vedere l'inferno riserbato ai suoi confratelli di religione, e il paradiso ove Cristo accoglie i suoi fedeli (Spec. VI, 112); la seconda (V) di un fanciullo ridonato a vita, che racconta le migliaia di dannati visti all'inferno (Spec. VI, 115); terza (VI) di un cavaliere che combattuto dal diavolo nel suo proposito di farsi monaco, è menato da s. Benedetto in paradiso, ove scorge Maria che umilmente lava i piedi ai santi, e Adamo elle attende il termine dei tempi, e nell'inferno il durissimo supplizio di Giuda (Spec. XXIX, 6-10). Ancora, due visioni che narra Matteo Paris, l'una (VII) del Monaco di Evesham (Hist. Angl., a. 1196) che vede tre luoghi dì punizione e tre di ricompensa, ed è menzionata anche dal Foscolo (Disc. sul Testo, p. 395); l'altra (VIII) di Thurcill (a. 1206), nella quale Adamo è descritto come in quella soprariferita dal Bellovacense (Ozanam, p. 403): in essa troviamo s. Paolo e il Diavolo che pesano le anime, s. Niccola a guardia del purgatorio, s. Michele a guardia del paradiso, e il Diavolo discorre familiarmente con s. Giuliano e s. Domnio che fan da guida al visionario, e vi è persino la descrizione di una specie di spettacolo teatrale di casaldiavolo, dove vengono in scena un poeta, un cavaliero, un avvocato costretto a inghiottire gli illeciti guadagni fatti in vita ec. (Wright, p. 41). IX. Alle molte tratte da Cesario e qua e là riferite brevemente nelle note, aggiungasi quella di Gozberto converso (XI, 12) che nei dolori di una malattia mortale è trasportato in cielo, e narratene le magnificenze, dopo poco spira e vi ritorna. X. La leggenda spagnuola di S. Amaro ricordata dal Denis, Monde enchant., p. 283, ove è descritto il paradiso terrenal e il celeste. XI. La descrizione del Paradiso in Anglo-Sassone, riferita dal Wright, p. 25, 186, ove si trova un Fons vitae che riappare anche in altre visioni. Qualche altro titolo di scritti di simil genere è riferito dal Du Meril, op. cit., p. 300. Ricordiamo anche le tre scritture greche stampate dall'Hase (Not. et Extr. IX, 141), ma delle quali solo una è probabilmente anteriore al XIV secolo.






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License