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Alessandro D’Ancona
I precursori di Dante

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VI

 

Siamo così giunti colle nostre ricerche assai presso ai tempi di Dante, e abbiamo visto gran parte delle immagini accumulate da una lunga serie di generazioni circa il soggetto stesso della Divina Commedia. Questo argomento, che, come rivelazione dei segreti della vita futura, è il più alto termine a cui si affisi la fede del credente, e come oggetto della poetica facoltà è la regione nella quale più liberamente spazia la fantasia, dopo aver servito a ufficj spirituali, politici e satirici, era già divenuto anche passatempo del volgo. Chè se nelle Rappresentazioni, le quali facevansi nelle chiese, o innanzi ai loro portici, la visione riteneva tuttavia la sua prisca natura religiosa, e' si può dire però che, fuor del tempio, servisse già a fini di gradevole sollazzo, se nel 1303 il faceto pittore Buffalmacco invitava il popolo fiorentino a vedere quella diavoleria ch'egli, insieme con Gello dal Borgo S. Friano, a rinnovazione delle feste del buon tempo passato135, con uomini contraffatti, e anime ignude, e grida, e strida e tempeste, ordinava su barche e navicelle in Arno presso al ponte alla Carraja, miseramente precipitato sotto il peso della gran gente accorsa136. Argomento di leggenda nei devoti racconti: tema letterario ai poeti: spettacolo nei popolari ritrovi: canto giullaresco nelle piazze e nei trivi: dipinto in sulle mura delle chiese e dei cimiteri137, la Divina Commedia era già, dunque, in embrione e in abbozzo, prima che la mano di Dante le desse forma immortale nel suo poema.

È noto ad ognuno come avesse origine la Commedia dantesca. Poco dopo la morte di Beatrice, il poeta, disposto da natura alla astrazione dai sensi, la quale, nell'ardor dell'affetto o nello spasimo del dolore, quasi assumeva in lui forma di estatico rapimento138, ebbe una mirabile visione, nella quale vide cose che gli fecero proporre di non dir più di quella benedetta in fino a tanto che non potesse più degnamente trattare di lei. Ma la sua mente non era ancora da tanto, che a parole potesse ritrarre tutto quello che contemplò in quell'istante di estasi. Chiudendo la Vita Nuova, ei prometteva perciò a sè stesso, e a lei che sapeva l'intimo del cuor suo, di prepararsi all'opera con tutte le forze, sicchè se piacere sarà di colui per cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, spero di dire di lei quello che mai non fu detto d'alcuna. Mai giuramento d'uomo fu meglio attenuto! Ma quello ch'ei vide, quasi come sognando139, dovrà esser ritratto coll'indocile strumento dell'umana parola: ed ecco cominciare per Dante un lungo periodo di meditazione, di studio, di fatiche, di vigilie che lo faranno per più anni macro, dacchè non si tratta più di racchiudere nel breve quadro del sonetto o della canzone, la espressione dell'amore o del dolore, ma di innalzare a Beatrice un monumento imperituro, al quale concorreranno tutte le cognizioni dell'intelletto, - la fisica, la filosofia, la teologia -: tutti gli elementi della vita universale - la storia, la politica, la religione -: tutte le forme dell'arte - la lirica, l'Epopea, il Dramma -: tutti i generi della versificazione - l'inno, la satira, la tragedia, la commedia; e a perfezionarlo coopereranno l'architettura coll'ordine, la scultura col rilievo, col colore la pittura, col suono la poesia. Quando poi, finita la lunga preparazione e accumulata tutta la sparsa materia, Dante avrà da cercare la forma appropriata a descrivere, con sì svariata suppellettile, fondo a tutto l'universo, la forma della Visione, già così propria del suo intelletto, gli si offrirà dinnanzi spontaneamente, colla efficacia degli esempj anteriori. Dappoichè, come abbiamo visto, eransene giovato i contemplanti a confermare dogmi religiosi e morali dottrine; i politici, a stabilire nelle coscienze il predominio di opinioni ed interessi mondani; i poeti a mostrare tutti i capricci della loro fantasia, e dare sfogo alla naturale arguzia e alla vena satirica; e per tal modo era, di generazione in generazione, diventata forma capacissima di concetti, significati, intenti fra loro diversi. Nè basta: nel poema di Virgilio egli trovava una descrizione del Tartaro, come nel Sogno di Scipione del grand'oratore di Roma quella della dimora assegnata ai giusti140: e il suo stesso maestro, Brunetto Latini, col proprio esempio141 gli insegnava, quanto giovasse, nudrito del cibo della morale filosofia, contemplare dall'alto l'ajuola che ci fa tanto feroci.

Dante ben vide tutto il partito ch'ei poteva trarre dall'uso della Visione; ma, oltre la eccellenza dell'ingegno, gli errori stessi dei poeti, che lo avevano preceduto, lo ammonivano a non rifare un poema di meri simboli, come il Roman de la Rose e il Tesoretto, o di mera scienza, come l'Acerba di quel Cecco d'Ascoli, che all'Alighieri scioccamente rimproverava l'uso delle favole142. Dante, con quella stessa felice intuizione del genio, che dopo un primo esperimento, gli fece lasciare la lingua latina per il volgare, scelse al suo vasto poema una forma veramente, per uso e per notizia, universale. Ma tutte le diverse ispirazioni che sopra abbiamo accennato, si univano per intima armonia, senza confondersi, nella mente del poeta; e tutti i fini particolari de' suoi predecessori si raccoglievano e ordinavano nell'unità del concetto e del magistero poetico. Indi la parte equamente data nel poema alla contemplazione e alla politica, alla religione e alla satira, all'uman genere e all'individuo, all'eterno e al caduco. Che se i monaci visionarj avevano scritto sotto la dettatura della fede, spesso superstiziosa, ma profondamente sentita, nè anche Dante aveane difetto: ma la sua fede era più robusta insieme e più illuminata. E anch'egli dà nell'opera sua gran luogo alla storia contemporanea ed alla politica, e giudica vivi e morti: ma per sè stesso null'altro bene dimanda se non il ritorno al bell'ovile, col capo cinto dell'amata e meritata fronda; e, fattasi parte da sè stesso, suo precipuo intendimento è instaurare la pace universale e l'ottimo ordinamento della umana compagnia, colla separazione del poter sacerdotale dal civile. E se anch'egli è satirico, non però è mai scurrile e plebeo: nè la poesia, che ha appreso studiando sui modelli dell'antichità, trascina nel fango delle plateali improvvisazioni giullaresche. L'angusto concetto che del male avevano i monaci, pei quali è soltanto violazione del dogma o della pratica devota, egli lo amplia anche alla vita civile; onde Bocca degli Abati, traditore della patria, è confitto nella ghiaccia infernale: e Cassio e Bruto, uccisori di Cesare, sono maciullati da Lucifero, al pari di Giuda, che vendè Cristo. Nè meno gli si allarga nella mente e nell'animo il concetto della virtù e del premio: sicchè l'operosità nella vita civile gli par meritoria quanto la quieta perfezione della spirituale; e se già la pia credenza assicurava che ai preghi di s. Gregorio, Traiano era stato salvato, Dante, di suo, sottrae Saladino, il conquistatore del sepolcro, dalle fiamme infernali: e Catone, suicida per la libertà, pone all'ingresso del purgatorio, e a salvare Stazio e Rifeo gli basta che l'uno fosse studioso di Virgilio, e l'altro nell'Eneide sia menzionato coll'epiteto di buono. Ricordisi ancora come nel Paradiso gli spiriti eletti non si dispongano soltanto a forma, di croce, ma più oltre si collochino in guisa da figurare il sacrosanto segno dell'aquila che fè i romani al mondo reverendi: e come alle discettazioni religiose, secondo le più ortodosse dottrine, si alternino; in bocca di Giustiniano le lodi dell'impero, in bocca di san Pietro le invettive contro i pontefici. De' quali, con libero giudicio, riempie l'inferno, e ne trova fra gli eresiarchi, e fra' simoniaci; e nel cerchio degli avari quasi tutti sono chierci e papi e cardinali: ben diverso da quei pii monaci che per lo più serbavano ai sacerdoti il paradiso, l'inferno ai laici. Nè meno da quelli si scosta nell'immaginare il soggiorno dei beati: il quale, nelle descrizioni monastiche, seguendo le forme orientali dei profeti e dell'Apocalisse143, e indulgendo alla rozzezza delle menti, è cosparso di oro e di pietre preziose, edificato di mirabili palagi, inaffiato di limpide acque, allietato da suoni di organi e canti di uccelli, fragrante di inusati odori144, quasi perfezione suprema delle bellezze e dei diletti del senso145. E anche a' tempi del poeta seguitavasi a dipingere per tal modo l'eterea regione; onde il semplice fraticello autore della Visione dei gaudi de' santi146, entrando lassù è incontrato da mille baroni tutti a cavallo, e il paradiso è per lui una città tutta cristallo e gemme, con grandi torri che parea toccassero propriamente il cielo: come se il paradiso fosse altrove che in cielo. E fra Giacomino, il sacro giullare di Verona, sembra quasi prender l'idea del paradiso da quel palagio, con maraviglia descritto dagli storici147, che gli Scaligeri edificarono nella sua città: e i santi vi sono rappresentati come cavalieri, che Maria, raccoglie sotto il suo gonfalone rimeritandoli con ghirlande di fiori, e doni di staffe, di freni, di destrieri148. E se anche questi poveri monaci e giullari, dalla impotenza della loro fantasia e del loro linguaggio, e dalla paura dell'errore ereticale, sono costretti a dichiarare che tutto ciò va inteso in significato mistico e simbolico149, è pur da dubitare che il popolo sapesse penetrare oltre la lettera, e non accogliesse invece coteste descrizioni nella lor propria significazione, e secondo il poetico colorito150. Ma in Dante, invece, il paradiso è pura luce:

 

Luce intellettual piena d'amore,

Amor di vero ben pien di letizia,

Letizia che trascende ogni dolzore.




135 Come al buono tempo passato del tranquillo stato di Firenze s'usavano le compagnie e le brigate de' sollazzi per la città per fare allegrezza e festa, si rinnovarono e fecionsi in più pari della città a gara l'una contrada dell'altra, ciascuno chi meglio sapea e potea. Infra l'altre, come per antico aveano per costume quelli di Borgo San Friano. di fare più nuovi e diversi giuochi, si mandarono un bando per la terra, che chi volesse saper novelle dell'altro mondo, dovesse essere il dì di calende di maggio in sul ponte alla Carraia, e d'intorno all'Arno ec. Vill.. VIII, 70.



136 Cito questo fatto, non già come il Mèrian, Mem. de l'Academ. de Berlin, 1781, e il Denina, Vicend. della Letterat. 1792, I, 226, perchè qui si abbia a trovare il germe della epopea dantesca, molto probabilmente già ideata nel 1303, ma perchè se ne tragga novella prova della popolarità del soggetto.



137 Cancellieri, Osservaz. sull'original. della D. C., p. 36-7; P. Costanzo, Lettera, p. 168; De Romanis, Conclus., p. 361; Labitte, op. cit. p. 135; Ozanam, op. cit., p. 365; Maury, op. cit., p. 150.



138 Vedi le Visioni della Vita Nuova, §§ 3, 23, 40, 43.



139 Conv., II, 13.



140 Questa parte delle discese al Tartaro e agli Elisi presso gli scrittori pagani, delle quali molte dovevan esser note a Dante, è ottimamente trattata dall'Ozanam, p. 439 e seg. Le relazioni fra Dante e un poema attribuito a Parmenide sono notate, dietro la scorta dello spagnuolo Vidal, nel III vol. del Jahrb. d. deutsch. Dante-Gesellsch., p. 478, dal Boehmer; ma parmi si possa dubitare che Dante ne avesse notizia.



141 L'Ubaldini, pubblicando il Tesoretto (1642), il Pelli nell'Elogio di Brunetto (Elog. di ill. toscan., 1766), il Corniani, Secol. della letterat., I, 66, e il Ginguenè, Hist. litt. ital., II, 8; sostennero che Dante togliesse dal maestro l'idea del poema, o almeno quella dello smarrimento nella selva. Ma le peregrinazioni allegoriche erano già comunissime nella letteratura d'oil, donde ne prese esempio il Latini, esperto conoscitore di quella: e il Tesoretto assomiglia assai più al Roman de la Rose, che non la Commedia al Tesoretto.



142 Le favole mi fur sempre nemiche, nell'invettiva contro Dante (Acerba, IV, 12).



143 Un esempio di siffatte descrizioni del Paradiso vedilo già in quell'antico ritmo, malamente attribuito a S. Agostino, ristampato dal Du Mèril, Poes. popul. ant. au XII s., p. 131.



144 Cfr. Le Vergier du Paradis, in Jubinal, Nouveau Recueil ec., II, 291.



145 Sul modo di rappresentare l'Inferno e il Paradiso nei monumenti dell'arte medievale, vedi Maury, op. cit., p. 84 e segg.



146 Testo del buon secolo, pubbl, da I. G. Isola, Genova, Schenone, 1865.



147 Gazata, Chron. in RR. Ital. Script. XVIII, 2.



148 Dondo quella donna tant'è çentil e granda Ke tuti li encorona d'una nobel girlanda La qual è plu aolente ke n'è mosca nè ambra Ne çijo nè altra fior nè rosa de campagna. E per onor ancora de l'alta soa persona Quella nobel pulcella ke en cel porta corona, Dester e palafreni tanto richi ge dona, Ke tal ne sia in terra per nexun dir se sona. Ke li destreri è russi, blanci è li palafreni, E corro plui ke cervi né ke venti' ultramarini, E li strevi e li selle, l'arçoni e an' li freni È d'or e de smeraldi splendenti, clari e fini etc. Mussafia, op. cit., p. 33.



149 Ved. fra gli altri i capitoli aggiunti alla Visio Tungdali dello Schade. E fra Giacomino: Or digemo... De la cità del celo per sempli e per figure.... Mo certe e veritevole si ne serà alquante L'altre, sì com disi, sera significançe. Id., p. 24. E l'autore della Visione dei gaudj dei santi: A noi sarebbe impossibile.... narrare a pieno le cose di vita eterna come sono, e però ce le bisogna comparare e assomigliare a queste cose visibili.



150 Notevole è questo passo di Pier Lombardo, Sent. 2, 4, 17: Tres enim generales de Paradiso sententiae sunt: una eorum quae corporaliter intelligi voluit eum: alia eorum quae spiritualiter: tertia eorum qui utroque modo Paradisum accipiunt.






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