I.
La vecchia casa,
appartenente da oltre settanta anni alla famiglia dei Sant'Angelo, è sita in
una delle più belle e pittoresche posizioni dell'alto Friuli.
L'edificio a due piani,
fabbricato nello stile de' villini veneti, è posto sul colmo di una collinetta
in mezzo alla vallata ubertosa, che si stende da Tricesimo a Cividale. La vista
che vi si gode è stupenda: dal grande balcone della sala al primo piano
l'occhio abbraccia una distesa larghissima di paese: di fronte, nella
lontananza, ritto sulla curva cerulea dell'orizzonte, l'angelo d'oro che si
libra sul castello di Udine; poi, mezzo nascosti tra le spalliere de' gelseti,
o surgenti come bianche fantasie in mezzo alla vastità dei prati verdeggianti,
i numerosi villaggetti, fatti di poche casipole aggruppate intorno a un
campanile: Leonacco, Fraelacco, Nimis, San Pelagio, Torreano; di fianco, in una
sfumatura candida, la linea serpeggiante del Torre, e in fondo, di là dai poggi
di Montegnacco, il fosco profilo delle Carniche, dalle creste brulle e
dentellate.
Nel paese la famiglia
dei Sant'Angelo è notissima ed amata. Gente buona ed alla mano, amica del
povero e dedita tutta ad un'onesta ed indefessa operosità, i Sant'Angelo hanno
una storia semplice e si sono creata la loro modesta fortuna a furia di lavoro.
Dura ancora, come una
simpatica tradizione nelle vecchie case del Friuli, la memoria di un
Sant'Angelo, venuto alla metà del secolo scorso a stabilirsi dalle native valli
del Veronese nel paese di Tricesimo. Sulla piazza della gaia borgata vi
mostrano ancora una botteguccia nella quale anticamente questo Sant'Angelo
aveva aperto un suo esercizio di caffetteria, divenuto in breve tempo, per la
gioconda urbanità del padrone e per l'eccellenza delle bibite, ch'egli sapeva
preparare, il ritrovo prediletto di tutti i maggiorenti del luogo. Il vecchio
caffettiere era una figura originalissima: seduto in mezzo a' suoi avventori,
pronto a fare servizio a tutti quanti, dava continue prove del suo raro
criterio e dello spirito svegliatissimo. Si racconta di lui come avesse
composte molte ed ardue liti, come avesse ridotto a conciliazione famiglie
divise da lunghi ed atroci rancori, e ancora si ripetono certe graziose poesie
in dialetto friulano, ch'egli improvvisava nelle ore d'ozio, dietro il suo
banco di caffettiere, e recitava poscia agli avventori in mezzo all'ilarità
generale.
Così, favorito dalle
simpatie di tutti, il buon Sant'Angelo, se provvide alla sua rinomanza di
valent'uomo e di giovialone numero uno, riuscì anche a mettere le basi ad una
discreta fortuna. L'esercizio andava benone; subito dopo i primi anni, qualche
grosso centinaio di fiorini d'argento veniva portato, a non lunghi intervalli,
alla Banca di Udine; quindi alcune speculazioni, tentate con prudente abilità e
riuscite in modo felice, avevano messo la famiglia in ottimo stato.
Il modesto caffettiere
un bel giorno divenne proprietario di un largo tratto di terreni, sui quali era
da gran tempo l'occhio cupido di molti fra i più ricchi possidenti del
circondario. Il vecchietto peraltro non insuperbì, nè smise, per la mutata
posizione, le sue abitudini di rigorosa economia e di assiduo lavoro.
"Bisogna pensare - era una delle sue massime favorite - a quelli che ci
toccherà lasciare dietro di noi!" E questi, per i quali il Sant'Angelo
aveva un'adorazione infinita, erano i suoi due figli, Camilla e Giovanni: il
dolce suo conforto dopo la morte, avvenuta in giovanissima età, della madre
loro.
Il vecchio però ebbe da
entrambi le maggiori consolazioni. La figlia andò sposa a un negoziante di
panni, vicentino, tenuto in conto di uomo probo ed assestato; il figlio riuscì
a compiere i suoi studi di medicina all'università di Padova, con eccellente
successo. E così il brav'uomo potè chiudere tranquillamente gli occhi, pago di
avere speso in ottimo modo la propria esistenza.
Giovanni Sant'Angelo,
che negli anni passati a Padova in mezzo alla baraonda tanto gioconda
degli studenti, aveva appreso ad amare con foga di giovane qualche alto ideale,
tornato in famiglia dovette fare uno sforzo sopra sè stesso per acconciarsi a
vivere nella breve cerchia di quei paeselli di campagna. C'erano laggiù tante
cose che lo chiamavano: c'erano a que' tempi tante care visioni che passavano
per le menti giovanili, e a Padova, nelle espansive nottate, trascorse coi
compagni intorno ai tavoli di qualche osteria popolare, s'erano fatti a bassa
voce, ma col sangue in tumulto, tanti bei progetti, inspirati dal più fervido e
generoso entusiasmo! Che sugo c'era a trascinare la vita lì, in un paese così
piccino, attendendo a formarsi una clientela di poveri contadini, e colla
prospettiva così incresciosa di dover lottare chi sa quanto coi pregiudizi loro
e colla naturale malfidenza, ch'essi unanimi nutrivano verso il giovane
discepolo d'Igea?
Tuttavia si adattò.
Doveva farlo. Suo padre, non più sano e vegeto come una volta, omai per la
molta debolezza era ridotto a passare le intere sue giornate dietro il banco
della caffetteria, beatificandosi nel vedere il figliuolo intorno a sè, ed
esultando allorchè qualcuno veniva a chiedere per qualche urgente consultazione
se ci fosse il dottore. In quell'epiteto, ch'egli pronunciava cogli occhi
luccicanti d'orgoglio, pareva al povero vecchietto di raccogliere il premio di
tutta la sua vita di operosità e di sacrificio. Epperò Giovanni, che amava suo
padre sinceramente, non ebbe il cuore di turbargli, mostrandosi malcontento o
seccato, questa serena contentezza.
Poi un altro argomento
venne quasi d'improvviso ad occupare la mente del giovane. Il dottorino,
andando a far le sue visite ne' paeselli vicini, s'era accorto più volte che
quando passava col suo carrozzino dinanzi alle cancellate delle fattorie e
delle ville, molti begli occhi di fanciulle l'avevano guardato con interesse.
Poi ne' balli dell'inverno, nelle liete sagre del settembre, aveva potuto
comprendere da molti indizi come ormai ci fosse più d'un cuore, di cui egli era
il segreto sospiro. Ma il dottorino non lasciandosi far velo dall'ambizione, nè
sedurre dalle offerte di ricchissimi maritaggi, che la sollecitudine di qualche
amico gli aveva procurate, scelse a modo suo, e scelse molto bene.
Egli conobbe una ragazza
povera, assai bella e molto buona, Chiara Morselli, orfana di un valoroso
militare, morto al servizio del suo paese. Si prese di lei profondamente perchè
ne apprezzò il carattere fortissimo. E la sposò dopo poche settimane da che
s'erano incontrati.
Se mai al mondo ci fu
una esistenza felice, certo fu quella del dottore Sant'Angelo e della sua
compagna. V'era una così profonda corrispondenza di sentimenti in quei due
cuori, che non il più lieve fatto era giunto mai a turbare la buon'armonia,
della quale vivevano tanto paghi.
Dopo un anno la signora
Chiara mise al mondo un bel bambino, cui fu imposto il nome di Mattia in
ricordo del nonno Sant'Angelo, e pareva che ormai dopo la venuta di quella
creaturina niente più dovesse mancare alla contentezza della famiglia.
Pure v'erano dei momenti
in cui sulla fronte del dottore Giovanni un'improvvisa mestizia si addensava.
Avveniva ciò non di rado, quando restavano insieme alla moglie, nel loro
tinello confortevole a leggere i giornali che giungevano da Venezia e da
Milano, od a commentare le frasi laconiche e sibilline di qualche scritto
pervenuto da amici lontani. In que' momenti nel dottore Sant'Angelo la calma
abituale spariva. A tratti, interrompendosi nella lettura fatta con accento
commosso, il buon dottore stringeva convulsamente le pugna e qualche parola
fiera gli usciva con impeto dal labbro.
Erano tempi di febbre
quelli. L'alba del 1848 era sôrta con gli indizî primi di que' grandi e
generosi commovimenti, onde l'Italia doveva essere scossa in questo memorabile
anno. Di città in città, preparato lentamente, suscitato dalla paziente opera
de' comitati segreti, rafforzato dalla fervida parola de' poeti, correva un
fremito d'impazienza e d'entusiasmo. Giovanni Sant'Angelo anche nella quiete
del suo borgo natío, anche tra le dolcezze della sua placida casa, non aveva
dimenticato i suoi sogni di studente: non aveva dimenticato il patto d'amore e
di fede, nel quale s'eran stretti laggiù, con tanta concordia, egli ed i suoi
compagni di studio.
Fido alle sue promesse,
incrollabile nel fervore della sua valida anima d'italiano, Giovanni
Sant'Angelo non aveva cessato neppure per un momento di cooperare attivamente
alla causa comune. Nella sua casa, libera ancora da ogni sospetto, molte e
molte riunioni s'erano fatte d'animosi patriotti. Là, fra le pareti discrete e
sicure, dove tanto sorriso di onestà regnava, molti ed audaci piani vennero
concertati. E il buon Sant'Angelo, come in ogni incontro aveva offerto con alta
cordialità la sua casa a ricetto di chi ne avesse avuto bisogno, anche e più
volte non s'era fatto pregare ad offrire materiali soccorsi, che dava con larghezza
abbondevole, superiori d'assai a quanto il suo stato glielo avrebbe permesso.
In tutto ciò - questo
era un argomento pel quale la sua compagna gli diveniva ognora più diletta - la
signora Chiara l'aveva continuamente aiutato. Non debolezza femminea in lei:
non quelle timide apprensioni che le donne, per indole loro e forse loro
malgrado, hanno quasi sempre dinanzi ad ogni fatto il quale serri una minaccia
per la tranquillità de' loro cari. Chiara Sant'Angelo, di innata indole
gagliarda, era cresciuta alla scuola di esempi fortissimi. Nella sua famiglia
aveva imparato come si debba amare la patria. Suo padre gliene aveva lasciato
colla propria morte l'esempio maggiore.
Ma vennero giorni
cattivi. E furono durissime le prove a cui l'animo de' coniugi Sant'Angelo
venne sottomesso.
Il dottore Giovanni,
mosso da troppo imprudente zelo, lanciatosi con foga malcauta in un arduo e
complicato piano, che per la stessa sua audacia presentava ben poca probabilità
di riuscita, si trovò improvvisamente sotto il peso di una gravissima accusa
d'alto tradimento. Era a Verona con la moglie quando gli giunse da parte fidata
l'annuncio che un mandato di cattura era stato spiccato contro di lui.
Depositario di moltissime carte importanti, dalla scoperta delle quali sarebbero
stati compromessi pericolosamente non pochi amici suoi, egli comprese la
gravità della sua posizione. E pensò alla fuga, Ma come? Ostacoli immensi vi si
opponevano. Eludere le ricerche rigorose e sollecite, che sapeva incominciate,
gli parve follia. E sua moglie? Ed il figlio? Per un istante disperò e si
credette vinto.
Ma non calcolò sulla
generosità di un amico, il conte Gottardo Polverari di Verona, suo antico ed
affezionato compagno di studi, involto al pari di lui nel piano che ora stava
per essere scoperto e del quale aveva avuto con qualche altro consorte la prima
idea.
Il Polverari,
riconoscendo, nella nobiltà del suo cuore, come più che a tutto, ad un suo
malconcepito disegno si dovessero le circostanze fatali in cui si trovavano,
dichiarò con disprezzo della vita che se infine aveva errato, intendeva pagare
di proprio l'errore commesso. E facilitando la salvezza al Sant'Angelo perdette
sè stesso. Il conte Polverari morì quattro anni dopo, lontano dalla patria,
lontano dalla sua adorata famiglia, nella fortezza di Theresienstadt. Il
Sant'Angelo riparò colla moglie a Ginevra, ove trasse una vita ritiratissima,
attendendo quasi esclusivamente alla educazione del suo Mattia.
Fu circa dopo dieci anni
di soggiorno in Isvizzera che il dottor Giovanni Sant'Angelo, assalito da un
lento male mancò a' suoi cari, lasciando dietro di sè il più vivo dolore e la
memoria più venerata.
Percossi da quella
immensa sventura la signora Chiara e suo figlio viaggiarono qualche tempo, poi
stanchi, col bisogno profondo del riposo, tornarono melanconici alla patria
loro e ripresero stabile dimora nella vecchia casa dove gli attendevano tanti
ricordi, grati e tormentosi per il loro cuore.
La vedova Sant'Angelo
aveva ormai concentrata la propria esistenza in un unico pensiero: la felicità
e la riuscita del figlio suo.
Ella non vedeva, non
respirava che per il bene di lui, circondandolo delle cure più gelose, de'
riguardi più attenti.
Vero angelo protettore
di quel suo adorato, ella esultava al vederlo crescere sano, forte e felice.
Nè le previdenti premure
materne rimasero senza frutto, chè la giovinezza di Mattia trascorse, in mezzo
alle splendide campagne native, placidissima e serena, non conturbata mai nè da
alcuna irrequieta aspirazione, nò da alcuna contrarietà.
Bisogni non ne avevano.
Le loro terre, il piccolo patrimonio, bastavano per poter condurre un'esistenza
senza sopraccapi. Poi la signora Chiara era quel che si dice una massaia coi
fiocchi. Economia fino all'osso in casa; vigilanza con cent'occhi sui campi;
buona con tutti, ma intransigente ogni volta che ci andavano di mezzo gli
interessi, la signora Chiara valeva per dieci e non v'era pericolo che nessuno
la potesse danneggiare nemmen di un quattrino.
Così, senza pensieri,
senza neppure la più piccola noia inerente all'amministrazione de' suoi beni,
Mattia Sant'Angelo si fece un uomo.
Il giovane, pieno
d'ingegno e costretto dall'abitudine, dall'ambiente e un po' anche dall'indole
propria riflessiva, si dette con trasporto agli studi. Suo padre aveva radunato
nella loro casa una grande biblioteca, composta per la maggior parte di opere
scientifiche, d'archeologia e di storia, ed anche aveva lasciato un ricco
medagliere, cominciato ancora ne' primi anni dopo il suo ritorno
dall'Università e nel quale si contavano intere e pregevolissime serie di
monete, delle antiche zecche del Friuli, dell'Istria e di Venezia.
Mattia Sant'Angelo si
innamorò di quegli studi. Essi gli destavano nel cuore molti e soavi ricordi.
Rammentava come suo padre si facesse un orgoglio di quelle collezioni, alle
quali aveva pensato persino negli ultimi tempi di sua vita, in terra straniera.
E attratto sempre più dall'interesse delle ricerche, lusingato dai primi
successi ottenuti, il giovane, rinunciando ad ogni altra ambizione, se ne
viveva contento. In casa, nelle due ampie stanze terrene, onde vedeva tanta
estensione, di bella campagna, a poco a poco, a furia di spese sapienti e di
cure indefesse, si era venuto formando un vero museo.
E là, fra le vetrine,
dove le vecchie medaglie diligentemente classificate posavano in file ordinate
nelle loro scatoline di cartone, in mezzo a' suoi libri rari, tra le pareti
ornate di armi antiche, dinanzi al suo enorme tavolo dove s'accatastavano
codici e pergamene, istrumenti di saggio e manoscritti, il giovane studioso
passò lunghi anni, tutelato, dalla pavida vigilanza di sua madre, contro ogni
soverchia emozione.
E degli anni ne
passarono molti. Ne passarono tanti che già sui capelli del Sant'Angelo - del
professore Sant'Angelo, come erano avvezzi a chiamarlo in paese, - era caduta
una prima brinata.
- Eh! eh! sono un
vecchio oramai! - il professore diceva scherzando. - Sono un vecchio per tutti,
tranne per questa mia santa mamma che adoro!
E per lei era infatti
sempre come una volta, un ragazzo ubbidiente e buono, che aveva bisogno de'
suoi baci, che aveva la necessità delle sue parole confortatrici, che si
sentiva consolato dalla sua presenza.
A questo modo scorreva
da molti anni pacifica la vita nell'antica casa dei Sant'Angelo.
Se taluno qualchevolta
chiedeva al professore se egli non desiderasse nulla, se non aspirasse a
qualche mutamento come infine il suo sapere, la sua bontà e la sua posizione
gli avrebbero concesso di sperare, rispondeva immutabilmente levando le spalle,
in atto di un filosofo timoroso delle molestie che sogliono arrecare le cose
nuove:
- Mutare! Perchè? Così,
accanto a mia madre ed in mezzo a' miei studi, sono tanto felice!
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