V.
Dopo quell'ora di
espansiva confidenza, le simpatie fra la signora Sant'Angelo e Loreta
Lambertenghi si manifestarono sempre più vive.
In casa stavano insieme
di continuo, e ormai la signora Chiara non usciva più se non accompagnata dalla
giovane parente.
Alle sue amiche di
Tarcento e di Tricesimo, colle quali di tratto in tratto si scambiavano qualche
visita, non faceva che esaltare le virtù e la bontà di Loreta. E nel tessere le
sue lodi era con particolare compiacenza ch'ella benediceva il momento in cui
s'era presa con sè la Lambertenghi.
- Nessun capriccio.
Contenta di tutto. Una massaia di quelle che s'è perso lo stampo. E poi se non
l'avessi, che guaio sarebbe! I settanta son belli e sonati: la vista non è più
quella di una volta, e queste benedette gambe si son fatte così deboli!...
- Ma che dice, signora
Chiara? Lei è un fiore di salute! - le rispondevano.
- Un fiore! un fiore!...
La signora Chiara
tentennava il capo e sorrideva. Ma il pensiero della sua età, che era già così
avanzata, e della sua salute, divenuta negli ultimi tempi molto malferma, la
preoccupava ora, in certi momenti di riflessione, assai gravemente. Non certo
per sè: la morte non le faceva paura. Ma era per suo figlio, ch'ella adorava:
per suo figlio alla cui tranquilla esistenza s'era dedicata sempre con tanta
abnegazione. Che ne sarebbe di lui, - abituato a vivere in mezzo a' suoi studî,
libero da ogni molesto pensiero, - senza di lei, senza la mamma sua, in quella
casa deserta?
Queste immagini, che
dapprima passavan di rado nella mente della signora Chiara e che una parola lepida
di suo figlio bastava a fugare, ora le rinascevano più vive. Le rinascevano
specialmente in quelle ore della sera, quando, sentendosi stanchi gli occhi,
smetteva il lavoro ed ascoltava le letture di qualche buon libro, che Loreta le
veniva facendo.
La voce dolce,
carezzevole, armoniosa di quella giovane, che si accalorava nella lettura, che
a certe pagine appassionate trovava accenti di una soavità commovente, le
parlava nel core. Sul volto di lei, illuminato in pieno dalla luce della
lampada, così puro nelle sue linee, così bello nella sua serenità, le pareva di
scorgere quasi un riflesso del suo animo buono e rassegnato.
Fu il suo amore materno
che le fece per la prima volta balenare il pensiero della missione
provvidenziale che Loreta avrebbe potuto compiere nell'ora triste in cui ella
fosse venuta a mancare. Ma nè al figlio Mattia, nè alla giovane, ebbe mai il
modo di dire in proposito un'esplicita parola. Per quanto tentasse di farlo, le
occasioni le sfuggivano. Talchè il massimo che le riusciva era di lasciar
cadere in mezzo a' discorsi, e come per semplice caso, qualche frase allusiva a
codesti progetti.
Così, molte volte, in
via di scherzo, aveva fatto rimprovero a Mattia di non mostrare sempre le
eguali deferenti premure verso la giovane:
- Non dico che tu la
tratti male, no! Ma non le sai dire mai il più piccolo complimento! E chi è
giovane ci tiene tanto a sentirsi dire qualche bella parola!
Il professore rideva e
scrollava le spalle:
- Ma, cara la mia mamma,
anche tu hai certe idee pel capo! Sono io proprio l'uomo da mettermi a dire
delle galanterie! E se anche lo tentassi, ci farei proprio la gran bella
figura!
- Oh! per questo poi....
Se tu lo volessi, non è mica la loquela che ti manca. Ma, sfido io! Certe
volte, se la ragazza si mette a parlare di qualche argomento serio, tu ti
pianti là, in un angolo, cogli occhi fissi, ingrullito, da parere che tu non
sappia porre in croce quattro parole. Santa pazienza! In questo non somigli ai
Sant'Angelo, tu! Tuo padre.... Avessi visto tuo padre....
- Via, via, signora
brontolona, non si arrabbi così. Per farle piacere, questo selvaticone saprà
operare anche un miracolo e buttar alle ortiche la sua pelle di bestia
feroce....
Ridevano quindi insieme,
ma il miracolo Mattia non lo faceva. Anzi, dal momento che sua madre gli
aveva tenuto que' discorsi, si sarebbe detto che un nuovo imbarazzo lo
dominasse quando si trovava insieme a Loreta. Talora, nella foga del
discorrere, se i suoi occhi si incontravano in quelli profondamente dolci della
giovane, era un visibile turbamento che lo sopraffaceva. Evitava di rimanere
solo in sua compagnia. Un senso penoso di inquietudine lo assaliva ogni volta
che la signora Chiara toccava in presenza di Loreta qualche argomento che
avesse avuto la più lieve attinenza agli scherzi sul suo contegno.
Il professore Mattia di
tutto ciò provava in certi giorni un vero dispetto. Si domandava come mai un
uomo del suo stampo, un uomo forte, uno scienziato tagliato all'antica, poteva
lasciarsi vincere da così stolte inquietudini. Egli che aveva sempre sorriso
cinicamente a sentir narrare certe debolezze degli uomini: egli che non era mai
riuscito a spingere più in là delle dieci pagine la lettura di un romanzo!
Sciocchezze, sciocchezze! Puerilità belle e buone, che bisognava saper vincere.
Altrimenti c'era da vergognarsene davvero!
E da allora in poi mise
quasi uno studio ad ostentare verso Loreta una allegra disinvoltura. Se il più
lieve adito gli era offerto, non lasciava di metter fuori, con grande stizza
della signora Chiara, i suoi predicozzi di filosofo per il quale la vita non ha
più sorrisi. Si compiaceva a dirsi vecchio, a mostrarsi privo d'ogni illusione,
a darsi delle pose di studioso infaticabile, assorbito interamente dalla
passione de' libri.
Ma molte volte non ci
riusciva. Una parola, un gesto, una frase, lo tradivano. E per un momento
sembrava che gli sfuggisse la coscienza della parte di commedia che imponevasi
di sostenere.
Così fu specialmente in
un giorno memorabile, al principio di aprile, nell'occasione di una gita, che
la signora Chiara aveva progettato da molto tempo di fare in unione alla
Lambertenghi, e che sempre si era dovuto rimandare o per la stagione poco
propizia, o per la salute malsicura della signora.
Si trattava di una
visita ad un antico palazzo, posto sulla riva destra del torrente Cormor, non
lunge dal colle di Fontanabona, e del quale avevano avuto adito di parlare
molto sovente nel corso della precedente invernata. Questo palazzo era una
curiosità del paese, e il professore Sant'Angelo ne aveva fatto anche soggetto
di un'interessante dissertazione storica, pubblicata alcuni anni innanzi dalla Rivista
archeologica italiana.
A giudicare da una
lapide mezzo corrosa, immurata sotto l'arcata dell'ampio portone, l'edificio
doveva essere stato eretto sul principio del secolo decimosettimo da un nobile
udinese, sulle rovine di un'antica chiesetta fondata verso il 1330 dal
patriarca Bertrando di San Genesio, sfuggito in quel luogo, quasi
miracolosamente, da un'imboscata tesagli dagli armati di Rizzardo da Camino. Era
una fabbrica solida e tetra, con due torri rotonde piantate agli angoli della
facciata, nella quale aprivansi, fra i ricami dell'edera, otto grandi veroni
sormontati alternatamente da stemmi gentilizi e da mascheroni chimerici.
All'edificio principale addossavasi una specie di padiglione basso, di
costruzione moderna, senza gusto di stile, abitato ora dalla famiglia del
gastaldo. Innanzi all'ingresso principale del palazzo un'ampia braida,
tenuta male, estendevasi in forma di un rettangolo, mostrando, sotto la
invasione delle erbe alte, le tracce degli antichi vialetti disegnati
capricciosamente, mentre di mezzo ad alcuni cespugli di bosso sorgevano quattro
o cinque statue mutilate di deità campestri. Intorno, giù per i fianchi
digradanti della collina, macchie di querciuoli, grappi diffusi di piante
basse, cresciute liberamente: poi, giù a' piedi, di là dal letto petroso del
Cormor, asciutto talvolta per lunghi mesi, la distesa vastissima delle
piantagioni di sorgo, di trifoglio, d'avena, chiuse fra le file regolari dei
gelsi e frastagliate dalle linee candide de' sentieri.
Il palazzo era da molti
anni disabitato. Assai di rado quando qualche forastiere veniva a visitarlo, il
gastaldo andava ad aprire le griglie verdi dei veroni. Del rimanente il vecchio
fabbricato conservava il suo aspetto di solitudine. Lo spazioso cortile dormiva
in una grande calma claustrale. E soltanto verso la fine di ottobre, quando i
contadini venivano a portare al gastaldo le loro derrate, animavasi per alcuni
giorni, fino a che durava tra chiassose discussioni la consegna del grano,
delle frutta e del vino.
L'amministrazione era
affidata dall'attuale proprietaria - una ricca signora veronese, maritata in
Londra con un alto funzionario della corte - ad un avvocato di Udine, che solo
due o tre volte all'anno faceva una visitina al gastaldo per la regolazione dei
conti. In paese la padrona del castello era del tutto sconosciuta, e solo
sapevasi che quel possedimento era venuto in sue mani per ragioni di eredità,
quale unica parente superstite della famiglia dei Morò-Casabianca, cui il
palazzo e le terre circostanti avevano appartenuto fino dal principio del
secolo passato.
L'ultimo dei
Morò-Casabianca, che aveva abitato il castello, era stato il conte Sebastiano,
e durava in tutto il circondario la memoria di questo gentiluomo, il cui nome
era congiunto ad un doloroso dramma domestico, intorno al quale la fantasia dei
contadini aveva immaginato le più bizzarre leggende.
- La storia dei
Morò-Casabianca bisogna sentirla non già dal mio figliuolo, - diceva la signora
Chiara a Loreta Lambertenghi, - perchè quello lì non vuol saperne di certe
poesie. Bisogna chiederne alla vecchia Mariute, la nonna del nostro Agnul, che
è nata nel palazzo e ci vive da ottanta anni....
- Eh! grazie tanto! La vecchia
Mariute ve ne racconta di quelle! - soggiungeva il professore. - È una povera
matta che sogna ad occhi aperti.
La signora Sant'Angelo
sorrideva anche lei. Ma tentava tuttavia di difendere questa vecchierella,
ch'era tra le sue protette. Ogni anno per Natale, poi al principio dell'estate,
aveva l'abitudine di mandarle qualche oggetto di vestiario e qualche quattrino.
E la vecchia contadina, ch'era un po' parente alla famiglia del gastaldo e
viveva in una casetta colonica presso il palazzo, gliene serbava la maggiore
riconoscenza.
La gita al palazzo
Morò-Casabianca la fecero in un bel pomeriggio di aprile partendo di casa verso
le due ore. Nel carrozzino guidato da Agnul avevano preso posto la signora
Chiara e Loreta. Il professore Mattia precedeva in un altro legnetto col conte
Leonardo Mangilli, che aveva voluto essere della partita anche lui.
Il Mangilli era quel
giorno di allegro umore, e durante la gita non aveva lasciato un momento di
scherzare:
- Oggi, professore mio
caro, non vi sembrerà vero di montare in cattedra e di tenere la vostra brava
lezione di archeologia ad un pubblico tanto gentile. Ah! professore fortunato!
Ma il Sant'Angelo era
tutt'altro che in vena di scherzi. E a quelle allusioni tagliò corto
bruscamente, mostrando con tutta chiarezza che non gli piacevano affatto.
La visita al palazzo
interessò vivamente Loreta. Il gastaldo, visto appena il professore, era venuto
con molta premura a porsi agli ordini degli ospiti e gli aveva guidati nel giro
dell'edificio. Avevano percorso ad una ad una tutte le vaste sale dai soffitti
affrescati, arredate di antichi mobili massicci recanti lo stemma del casato;
eran saliti per le ripide scale a chiocciola negli stanzoni delle due torri,
nudi, spogli, freddi per l'aria frizzante che entrava dalle finestre ogivali,
munite di grosse inferriate. Poi, più a lungo, eransi fermati in un salotto,
nell'ala meridionale della fabbrica, ricco di particolare interesse per le
molte curiosità storiche che racchiudeva.
Era una stanza
spaziosissima rischiarata da tre grandi veroni, prospicienti sulla vallata del
Cormor; ma tetra, coll'enorme camino dalla cappa adorna di barocche sculture, e
co' suoi mobili di noce, dalle sagome severe, coperti di antico broccato
veneziano. Sulle pareti spiccavano, chiusi in nere cornici, quattro grandi
dipinti storici, attribuiti, per il loro carattere di correttezza belliniana, a
qualche pittore del 500, uscito dalla scuola di Pellegrino da San Daniele. In
essi il fondatore aveva voluto fossero raffigurati i momenti principali della
vita del prode Bertrando di San Genesio: la disfatta di Rizzardo da Camino
sotto le mura di Sacile, la consacrazione della chiesa maggiore di Venzone
tolto a' Goriziani, l'erezione del castello di Moscardo a tutela delle valli
carniche, e il soccorso dato a' poveri dal pio patriarca nella carestia che
afflisse il Friuli nel 1348. - In un angolo, sopra una colonna di legno
scolpito, un busto in marmo, opera non priva di merito artistico: l'effigie del
conte Sebastiano, l'ultimo dei Morò-Casabianca.
Lì il gastaldo gli aveva
invitati a riposarsi dopo avere avanzato per le signore due delle vecchie sedie
a bracciuoli presso i grandi veroni. Il conte Leonardo celiava intanto col
professore intorno al pregio di questi logori "nidi di talpe" ai
quali nella sua posa d'uomo utilitario negava qualsifosse attrattiva. Poi il
discorso era caduto, naturalmente, sulle vicende dei Morò-Casabianca.
- La leggenda del
castello!... - esclamò il Mangilli accentando colla voce grossa questa frase
melodrammatica.
- Me ne dispiace per
voi, conte mio, ma non è leggenda niente affatto. Pura storia e tragica anche
troppo....
E la riepilogò
brevemente.
La storia era del resto
semplicissima. L'ultimo abitatore di quel palazzo, il conte Sebastiano
Morò-Casabianca, gentiluomo campagnuolo vissuto con fedeltà rigorosa secondo le
tradizioni de' suoi maggiori, dividendo il proprio tempo tra utili studî di
economia rurale e tra le cure inerenti a' suoi beni, si era, quando già aveva
varcati i quarant'anni, ammogliato ad una bella e ricca giovane del Trevigiano,
una contessa Elti di Fontebasso: nobiltà antica e famiglia che godeva di larghe
aderenze così per il censo come per le cospicue parentele. La contessa era
ricordata da tutti nel paese: una figura superba dall'occhio altiero, che
vedevano passare spesso a cavallo per i lunghi stradoni polverosi, bellissima
nell'abito di amazzone, che faceva risaltare la correttezza stupenda delle sue
forme. Si narrava dell'amore intenso, appassionato, ardente, che il conte
Sebastiano aveva per la moglie: viveva per lei, circondandola di tutte le
premure di un culto idolatra. Ma la donna mancò a' suoi doveri. Anima abbietta
ascosa in una forma divina, sentì presto il peso de' propri legami e li franse
ignobilmente, con uno di quei tradimenti codardi, che tolgono alla colpa ogni
scusa. Il dramma s'era preparato lentamente, pazientemente, fino alla sua scena
capitale. Una notte, eludendo la tranquilla fede del marito, la contessa
Eleonora se ne fuggì dal paese, in compagnia di un volgarissimo amante, verso
terre lontane. Il dolore atterrò il conte Sebastiano. Ferito mortalmente nella
dolcezza de' suoi affetti come nella onestà purissima delle tradizioni
domestiche, egli si chiuse in una melanconia cupa, facendo ogni sforzo per
sottrarre alla triste curiosità della gente i particolari strazianti della sua
sventura. Della contessa Eleonora non si seppe per lungo tempo novella; poi ad
un tratto corse confusa la voce che dopo una vita di libertinaggi disordinati
ella fosse morta improvvisamente in una stazione balneare dell'estero, a
Scheveningen o a Biarritz. Sebastiano non si confidò ad alcuno, ebbe a
disprezzo ogni mendicata commiserazione. Una mattina, il domestico entrando
nella stanza di lavoro del conte, - la storica stanza dai vecchi quadri, che
gli era particolarmente diletta, - lo trovò riverso nel seggiolone, colla
fronte insanguinata, freddo, con una rivoltella scarica a' piedi....
- È una storia assai
lugubre! - disse Loreta Lambertenghi quando il professore ebbe finito.
- Un fatto diverso,
come se ne leggono cento ogni giorno! - aggiunse con un risolino ironico il
conte Leonardo.
- Un fatto commovente ad
ogni modo; questo me lo concederete.
- Commovente, secondo i
gusti. Io direi piuttosto istruttivo.
- Figuriamoci: una morale
a vostro modo....
- Sicuramente, una morale,
di cui io ho principiato ad approfittare per mio conto. Ed è questa: che con
quarant'anni sulla gobba si commette la più grande corbelleria a lasciarsi
pigliar dall'amore. Poi, beato chi è solo; quanta pace di più!
- E quante gioie di meno!
- esclamò subito la signora Chiara, alla quale le sortite pessimiste del
Mangilli avevan sempre irritato i nervi. - Il conte Leonardo dice così per
dire: è il primo lui a non pensarlo.... "E quante gioie di meno" lo
ripeto!... È vero: ci saran delle donne cattive, leggiere, senza cuore. Ma ve
ne hanno anche di quelle che sono la pace, la provvidenza, la letizia di una
casa....
- Mosche bianche,
signora mia. E sì trovano tanto di raro!...
- Non tanto, non tanto!
Basta saper cercare, basta saper aprire gli occhi e leggere un pochino nei
cuori....
Dicendo così, la signora
Chiara, fissa sempre nel pensiero che ormai non la abbandonava più, piantò i
suoi sguardi nella faccia del professore; poi cercò gli occhi di Loreta.
Il professore sforzavasi
indarno di mostrarsi indifferente; Loreta guardava fuori lo splendido
spettacolo del tramonto che accendeva d'un bagliore croceo la linea
dell'orizzonte.
- Il povero conte
Sebastiano se fosse qui ad udirvi non vi darebbe ragione, signora mia!...
- Il conte Sebastiano è
stato uno sfortunato. Che vuol dire per questo? Che tutti debbono essere
sfortunati come lui? No, no e poi no! - insisteva animandosi la signora. -
Queste sono idee pericolose, di gente senza fede. Sapete quale è stato il torto
del conte Sebastiano? Quello di aver voluto finire in tal modo. Quella donna
non valeva davvero il sacrificio della sua vita. Sono esaltazioni da romanzo,
codeste!...
- Sarà vero, cara mamma,
quel che tu dici. Ma con tutto questo mi par pure che per il conte ci sia una
scusa. Era accecato. Era crollato intorno a lui tutto quanto. Io mi metto ne'
suoi panni e lo capisco. O amare così o non amare affatto!
Nel profferire queste
parole il professore Mattia era seriissimo e la sua voce rivelava la profonda
convinzione.
La signora Chiara si levò
allora, con un po' di dispetto, contrariata, dal suo seggiolone:
- Già, già: siete tutti
d'accordo! Una bella declamazione anche la tua!...
Il professore si mise a
ridere:
- È assai buffa, non è
vero, una declamazione di questo genere sulle mie labbra? Ma mi ci avete tirato
voialtri proprio per i capelli!...
Proseguendo indi lo
scherzo uscirono dal palazzo che già il sole era scomparso. L'aria era fresca.
Nella luce rosea del crepuscolo una leggiera nebbiolina alzavasi dalle valli,
lungo il piede delle Carniche, avvolgendo come in un velo i bianchi villaggi
lontani.
Nello scendere lo
stradone che conduceva alla strada maestra, i visitatori passarono dinanzi al
gruppo delle case coloniche, costrutte al di là dell'ampia braida. Le
porte erano quasi tutte aperte e le piccole cucine affumicate, in cui le donne
apprestavan la cena, apparivano rosse al guizzare delle grandi fiammate accese
sui bassi focolari. Sulla soglia di una di quelle casette, una vecchia
stavasene seduta sur un banco di pietra, coi gomiti sulle ginocchia e la testa
raccolta fra le palme.
La signora Chiara la
riconobbe, si fermò un istante e la salutò coll'affettuosa espressione
dialettale, che è d'uso comune in tutta la campagna friulana:
- Mandi, Mariute.
Come va?
La vecchia si scosse, si
levò in piedi e ravvisando la signora Sant'Angelo:
- Mandi, signori.
Va poco bene. L'inverno è stato assai cattivo....
La Sant'Angelo stette ad udire
benevolmente le lamentazioni della vecchia dicendole qualche parola di
conforto.
Era un tipo spettrale: alta,
magrissima, con una faccia ossea e due grosse ciocche di capelli arruffati,
ricadenti dalla fronte, sotto le pieghe di un fazzoletto giallo, gettato sul
capo.
- Nonna Mariute, - disse
il conte Leonardo avvicinandosi anche lui col suo abituale tono di canzone, - e
come va colle vostre storielle? È tornato il conte Sebastiano?
La vecchia lo fissò coi
suoi occhi grigi, illuminati da uno strano bagliore:
- Il signor conte mi
burla, lo so bene. Ma non importa: quello che è vero è vero. Sì, il signor
conte Sebastiano è tornato ancora. Torna sempre nelle notti di temporale, là su
quel balcone: l'ho visto passare io venti volte, pallido, colla lunga barba,
col volto pensieroso, là....
E accennava col dito
verso la mole bruna del palazzo, segnando il balcone della stanza, in cui
l'ultimo dei Morò-Casabianca era morto.
Loreta non potè a meno
di gittare uno sguardo da quella parte, come suggestionata dalle fantastiche
parole della vecchia.
Nel tornare a casa
parlarono poco. Tanto la signora Chiara, quanto Loreta, parevano dominate da
una particolare preoccupazione.
Quella notte la Lambertenghi dormì di un sonno irrequieto, nel quale più volte le apparve, così come la
vecchia contadina l'aveva descritta, la immagine torva e melanconica del
gentiluomo suicida.
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