VIII.
Passato quel momento di
espansione, del quale entrambi avevano sentita per diverse ragioni la grande
dolcezza, si sarebbe detto che Loreta e il Sant'Angelo si fossero tacitamente
accordati per evitare tutto ciò che ne avesse potuto richiamare il ricordo.
La loro vita in casa
continuò nel suo consueto uniforme andamento. E unicamente a certi momenti,
quando si trovavano soli, l'uno di fronte all'altra, pareva che un grande
imbarazzo sorgesse improvviso a paralizzare la loro parola.
Secondo un'inveterata
consuetudine, che il professore aveva seguito fin là costantemente, ogni anno,
da quando le sere principiavano a farsi tiepide sino a tardissimo autunno,
soleva egli indugiarsi, dopo la cena, fumando tranquillamente, per un paio
d'ore dinanzi al portone della casa, in una specie di spianata, dove si
collocavano alcuni rustici sedili e d'onde lo sguardo spaziava ampiamente sulla
pianura.
Colà, in altri tempi, si
facevano le lunghe chiacchierate con qualche ospite amico; colà, nella grande
quiete notturna, che suadeva ai giocondi familiari colloqui, egli soleva
trovare il più caro ristoro alla sua mente affaticata.
La primavera tornò
quell'anno; già i campi erano in piena rifioritura e il maggio imminente,
arriso da un costante sereno, invitava con le sue sere placide all'aria aperta.
L'ortolano aveva avuto premura che fossero rinnovate intorno alla spianata
certe ricche spalliere di amorini, che un dì formavano l'orgoglio della signora
Sant'Angelo; e il piccolo Agnul, secondo l'antico uso, disponeva già ogni
giorno, subito dopo il tramonto, ai posti consueti, le vecchie sedie di legno,
che al principiare della buona stagione egli aveva ridipinto con una bella mano
di color verde com'era ogni anno sua gelosa cura particolare.
Ma quella primavera, con
molta meraviglia della Vige e non piccola mortificazione del diligente ragazzo,
il professore non scese neppure una volta al luogo favorito. Terminato appena
di cenare, accendeva il sigaro e seguito da Prè Zuan, il fido cane di
casa, se ne andava a fare qualche lunga passeggiata scegliendo di solito le
strade meno battute ed evitando di attraversare i luoghi più popolosi. Loreta
intanto attendeva ai lavori, e, solo quando questi erano compiti, esciva un po'
dinanzi al portone, trattenendosi a respirare l'aria refrigerante della sera.
Ma ritiravasi presto;
quasi sempre prima che il professore fosse rientrato.
Di ciò pareva ch'ella
facesse uno studio particolare. Anzi non era sfuggito neppure all'ingenuità
dell'ottima Vige come la signorina alcune volte in cui il professore ritornava
per caso prima del solito, s'affrettava vivamente a ritirarsi, non appena il
passo di lui si facesse distinto su per lo stradone o quando per i campi
s'udiva abbaiare il vecchio Prè Zuan, lieto di quelle libere scorrazzate
in mezzo al verde.
Di questo s'era accorto
lo stesso Sant'Angelo e tale osservazione non aveva fatto che accrescergli quel
profondo e molesto turbamento, del quale, ad onta di tutti i suoi sforzi, non
riusciva ad ottenere vittoria.
Assai spesso, nelle sue
ore solitarie, egli si sentiva costretto a domandarsi il perchè dello strano
mutamento operatosi in lui. Non si riconosceva più: la sua forza, l'amore del
lavoro, la calma dello spirito gli parevano irreparabilmente svaniti; persino
il pensiero triste, che prima dominava costante nel suo cervello, il pensiero
della madre che aveva perduto, ora non tornava più così assiduo e doloroso. Era
in lui un'inesplicabile inquietudine, un desiderio insistente di stancarsi, una
malìa acuta e crucciosa, che talora gli accendeva le guance smorte di un foco
improvviso ed altre volte gli velava repentinamente gli occhi di pianto.
Contro questo stato
d'animo il Sant'Angelo volle reagire. Virilmente volle, e quasi disdegnando di
confessare a sè stesso quello che dentro gli ferveva, cercò di porre un freno
al male, che comprendeva farsi ogni giorno più veemente e più tenace.
Per riuscire in questo
cimento, ch'egli sentiva a sè imposto dalla voce della ragione, procurò di
concentrare tutti i suoi pensieri nella fredda realtà della propria vita,
perchè da quella essi avessero ritegno ad ogni vano e sconsigliato volo.
Indugiandosi talora dinanzi allo specchio, che colle sue abitudini di
semplicità aveva sempre considerato inutile ornamento della propria camera,
ostinavasi a fissare con una certa amarezza il suo volto avvizzito, il fronte
calvo già solcato di rughe, gli occhi deboli e affaticati, la barba cresciuta
incolta e pressochè interamente bianca. Si ricordava in quei momenti gli
scherzi che con sua madre egli aveva fatto tanto spesso sulla propria
vecchiezza. Lei non voleva udire, protestava che quelle erano declamazioni per
farla andare in collera. Povera e buona madre, che aveva sempre veduto ogni
cosa con gli occhi dell'affetto! No, egli non voleva e non doveva avere di
queste illusioni: sarebbe stata debolezza indegna d'un uomo assennato. E
dicevasi che la coscienza di sè, per quanto possa riuscire spiacevole e dura, è
sempre il dovere del prudente ed è la salvaguardia più forte contro i
disinganni.
Il Sant'Angelo di queste
sue conclusioni provava un orgoglio, come d'un trionfo che l'animo suo avesse
conseguito sopra una misera tentazione della vanità. E tacitamente egli faceva
a sè stesso promessa di non lasciarsi rimuovere da siffatti pensieri, sotto il
governo de' quali vedeva assicurata durevolmente la sua dignità e la sua pace.
Ma per quanto egli
tentasse d'illudersi sulla saldezza di tali proponimenti, le sconfitte della
sua volontà si venivano moltiplicando giorno per giorno.
A quale fascino obbediva
egli mai per nascondersi ora, ogni sera, nelle ombre della campagna, e spiare
di là, lungamente, al lume incerto delle stelle, se una nota figura apparisse
lassù, tra le spalliere de' gelsomini, al memore posto, ov'egli nel suo tempo
felice aveva passato tante ore tranquille?
Per queste improvvise
debolezze, delle quali avrebbe voluto cacciare da sè ogni ricordo, egli era
assalito poi da un rammarico crudele. Così una notte egli pianse di rabbia per
aver baciato furtivamente, cento volte, una sciarpa di velo ch'egli aveva
trovato, dimenticata da Loreta, sopra uno de' banchi rustici dinanzi alla casa,
quand'egli era rientrato. Aveva compiuto quell'atto gentile, per potente
stimolo dell'anima, col corpo scosso da un fremito delizioso, dopo essersi
guardato intorno timorosamente, come fosse stato per commettere un'azione
colpevole.... E passato appena quell'istante di obblio, allorchè fu solo nel
raccoglimento delle sue stanze e ripensò a' propositi fatti, ne ebbe vergogna e
dolore.
Delle segrete battaglie,
che lo turbavano così, il Sant'Angelo non cercò e non volle confidenti. Anzi,
la ferma convinzione che nessuno avesse potuto leggergli nell'animo, gli era
argomento di vivo conforto.
Senonchè, anche per tale
riguardo trovavasi in errore. Per quanto egli vivesse isolato, sfuggendo le
compagnie, l'occhio vigile de' disoccupati era intento abbastanza sopra di lui,
perchè egli potesse andar salvo dai commenti della malignità. Il mutamento
tanto radicale nelle sue abitudini, delle quali tutti lo sapevano schiavo, la
sua taciturnità quasi scontrosa anche verso coloro che in altri tempi aveva
particolarmente diletti, dovevano di necessità svegliare l'altrui attenzione. E
se da un lato quest'attenzione nasceva unicamente da naturale curiosità, non
mancava neppure chi con intento nemico vi infondesse nuovo alimento, ricorrendo
pure alle più basse e volgari insinuazioni.
Il Sant'Angelo, così
amato in tutto il paese, vi aveva anche de' nemici, pochi di numero, ma fieri e
giurati: gente divisa da lui da questioni di partito o che, per atti da lui
disapprovati, aveva sempre tenuto da sè lontana con freddezza e riserbo. In
mezzo a costoro, più fiero di tutti, col lievito di un vecchio rancore, che non
aveva peranco potuto trovar sfogo, don Giovanni Morganti, il prete-archeologo
di Collalto.
Dell'essere rimasto
soccombente nella memorabile e puntigliosa lite sostenuta contro il professore,
il Morganti non tanto si risentiva ancora, quanto dell'atto di dileggio che
quegli aveva voluto fargli col famoso battesimo del Terranova: origine di
spassi clamorosi, che tuttavia, dopo tanti anni, si rinnovavano ancora a sue
spese. Il vecchio non sapeva mettersi in pace: un odio sordo s'alimentava di
continuo in lui contro quello "spregiudicato usurpatore" ed era odio
così implacabile che se solamente il professore passava per caso dinanzi alla trattoria
di Tricesimo, dove il Morganti soleva bere la sua tazza di birra facendo con
gli amici la partita a tresette, il suo viso diventava scarlatto e la vista gli
si annebbiava da non distinguere più le carte che aveva tra mano.
Le voci corse in paese sull'"innamoramento"
del professore giunsero assai propizie al prete di Collalto, che subito vi
scorse un mezzo più che favorevole per soccorrerlo ne' suoi non confessati, ma
fermi propositi di vendetta.
Approfittando delle
narrazioni che molti facevano durante le lunghe chiacchierate all'osteria, fra
una partita e l'altra, sul cupo umore e sulla ciera rannuvolata, che il
Sant'Angelo aveva costantemente, lo scaltro prete fu quegli che iniziò i
commenti maliziosi. Con arte gesuitesca, fingendo prima una certa titubanza ad
ammettere "benchè si trattasse di quel bel figuro" che un uomo come
lui, non certo privo di senno, potesse alla sua età lasciarsi invescare così
puerilmente nei lacci dell'amore, metteva poi, con molto lusso di parole, in
evidenza il ridicolo che da ciò doveva necessariamente ricadere sulle sue
spalle. Quindi, senza darsene l'aria e coordinando le ciarle vaghe, che or
l'uno or l'altro riferiva, venne a poco a poco mettendo insieme una completa
storiella, secondo la quale il professore Sant'Angelo era oramai ridotto alla
parte di un povero zimbello, che la forastiera si divertiva a muovere a
suo talento, dopo avergli fatta perdere la testa ed essersi impadronita di ogni
potere in casa.
- Non sarà vero forse! -
concludeva il vecchio ipocrita intrecciando le sue grasse mani di fannullone
sull'ampio torace. - Ma intanto prima d'ora non s'era parlato mai ne' nostri
paesi d'una simile tresca! Ah! questi liberaloni, questi liberaloni!...
Sciolto così il volo
alle dicerie maligne, esse divulgaronsi rapidamente, e, come sempre, nel
divulgarsi crebbero di intensità e d'acrimonia.
Si suol dire che al male
facilmente si crede. In tesi generale è vero. Ma non manca, per onore degli
uomini, anche chi, dinanzi all'aperta cattiveria altrui, protesti e si ribelli.
Il degno don Morganti
trovò alle sue manovre insidiose sostenitori conniventi ed inconsapevoli
complici; ma trovò anche chi gli oppose non solo confutazioni piene di
convinzione, ma anche calde e vivaci rimostranze.
Fra questi ultimi fu il
conte Leonardo Mangilli, che con tutta la sua ruvidezza, per la quale molti nel
paese lo chiamavano semplicemente il conte orso, non era tipo da lasciar
passare senza sdegno e senza difesa gli attacchi vilmente diretti alle spalle
di persona, ch'egli stimasse degna di rispetto e di considerazione.
Il prete, che vedeva
cadere con sì grande facilità nei suoi tranelli tanti semplicioni, i quali poi
divenivano ciechi strumenti delle sue bieche arti, ingannato dalla rudezza del
Mangilli, da lui interpretata come inclemenza d'animo, aveva sulle prime
creduto d'aver trovato in quello, un nuovo e facile alleato. L'altro l'aveva
lasciato dire. Per sapere ogni cosa sino al fondo, gli diè anzi animo a
continuare; ma quando ebbe appreso fin dove si spingesse la perversità del suo
interlocutore, gli fe' morire bruscamente sul labbro la parola.
- Potrà essere che il
Sant'Angelo come tutti gli uomini al mondo commetta delle corbellerie. È cosa
che accade ogni giorno e ne accadranno di simili in ogni tempo. Ma voler
gittare su lui e sopra una povera e indifesa donna il fango a questo modo, è
opera codarda e degna solo di gente cattiva!
A cotesta sfuriata il
prete, rosso come un gallo, si sottrasse con mille assicurazioni di essere
stato malinteso. "Eran cose che gli altri - tutti gli altri - dicevano:
non lui, che anzi ci credeva pochissimo!" Ma il conte tagliò corto al
discorso, mostrandosi profondamente nauseato di quelle malignità. -
"L'orso ha mostrato i denti!" dissero in quell'occasione gli
avventori del Caffè della Posta a Tricesimo, dove la scena era avvenuta.
E il Mangilli infatti
aveva dovuto far violenza a sè stesso per non dar fuori in più aspre invettive.
Che nello schiudere con tanta generosità le porte della sua casa alla cugina il
professore si fosse tirato sul capo molti pericoli, egli aveva sempre creduto.
In que' giorni, mentre gli altri lodavano in coro la buona azione, egli
solo, contro tutti, aveva fatto le proprie riserve, con la sua rude ingenita
franchezza. Ma ora, anche se i fatti venivano a dargli ragione, non poteva
lasciar vilipendere a quel modo un fiore di galantuomo, com'era il Sant'Angelo,
nè adattavasi a tollerare che la cattiveria altrui fosse lasciata proseguire,
senza repressione, nelle sue velenose ed esagerate insinuazioni.
Col suo concetto
dell'amicizia, reciso e franco, gli parve dovere d'aprire gli occhi al
Sant'Angelo; e, senza dissimularsi la difficoltà del suo compito, si propose di
parlarne subito, senza reticenze, al professore. Anche se la verità gli dovesse
tornar discara, poco male: la conoscenza del vero l'avrebbe messo in guardia.
Ed a questo unicamente egli tendeva.
Non parendogli adatto di
recarsi a questo scopo speciale alla casa del Sant'Angelo, ch'egli da qualche
tempo più non frequentava, stimò miglior consiglio cercare d'incontrarlo come
per caso.
Nè questo gli riuscì
difficile. Sapeva quali erano le passeggiate che ora il professore preferiva; e
una di quelle sere, messosi da quelle parti, si avvenne in lui precisamente
secondo il suo disegno.
Al primo incontrarsi
parlarono di cose indifferenti, con quello scambio di frasi usuali, che la
circostanza suggeriva. Ma il conte Mangilli, deciso, a non lasciarsi sfuggire
l'occasione che aveva cercato, trovò il modo di entrare difilato in argomento.
- Non vi si vede più,
professore. Vi siete messo a fare propriamente l'eremita. Che cosa vuol dire?
Il Sant'Angelo s'attaccò
alle solite scuse: gli studi, l'umore cattivo, la salute che non aveva più
buona come una volta.
- Male, male, caro
Mattia! - l'altro riprese. - Con questa vita di solitudine vi avvelenate
l'esistenza. Un uomo come voi, che era l'anima delle brigate, che portava a
tutti la consolazione e l'allegrezza! Che abbiate avuto dei dolori, chi non lo
sa! Non si perde, senza che sia uno schianto per l'anima, una madre come la
vostra. Ma anche il dolore ha un limite. E fare come voi fate è torturarsi
inutilmente!
- Che volete, caro conte
Nardin, quando si hanno certi temperamenti benedetti!
- Sì, capisco; i
temperamenti voglion dire assai. Ma, corpo di mille diavoli, quando si ha un
po' di sangue nelle vene, si deve ben trovare la maniera di vincersi!
E, passato il braccio
sotto quello del Sant'Angelo:
- In confidenza,
professor Mattia, non andate in collera se vi riferisco quel che dicono in
paese? Gente maligna, lingue sacrileghe, certo! ma poichè di queste si deve
sempre temere....
Il conte sentì come il
braccio del Sant'Angelo ebbe un sussulto sotto il suo.
- Che cosa dicono? -
chiese forzandosi a che la voce non tradisse l'emozione.
Il Mangilli, arrivato al
punto cui egli mirava, non si tenne più e ruvidamente, senza ambagi, spiattellò
quanto s'era proposto di dire, sino all'ultima sillaba, solo tacendo i nomi
delle persone, onde aveva saputo la cosa.
- Vi volli dir tutto, -
egli concluse, - non perchè io lo creda; non perchè, ove fosse vero, io ve ne
terrei carico. Il mondo è mondo. Noi diciamo con un nostro proverbio che l'aghe
rovine i puints e il vin il çhav...1, ma più del vino rovina il
capo l'amore. Disgrazie queste.... possono capitare a ognuno.... anche a me,
che sarebbe tutto dire! Ma poichè ci va di mezzo col vostro nome il nome di una
donna.... e che di questa si dicono le cose più tristi, sta bene che almeno voi
abbiate gli occhi aperti e vi sappiate regolare!
Mattia a quella
narrazione restò tutto sconcertato. Le parole rudi del conte, che senza
mendicare perifrasi chiamavano le cose col loro vero nome, gli avevano dapprima
messo il fuoco alle guance e alla fronte. Il comprendere che il suo segreto,
ch'egli credeva da nessuno sospettato, fosse stato già scoperto e fatto argomento
di bassi commenti, gli recava un profondo rammarico. Ma questo sentimento fu
quasi cancellato al pensiero che il nome di Loreta, di quella donna gentile e
buona, ch'egli adorava e stimava, fosse trascinato così nel dileggio con una
diceria codarda ed oltraggiosa.
- Chi? chi? - egli
chiese a un tratto stringendo le pugna, con un trasporto di collera, che
contrastava in modo singolare colla sua indole pacifica e mite.
- Chi? - rispose il
conte, fermandosi per non dire il nome che il suo sdegno di uomo onesto gli
sospingeva al labbro. - Chi? Tutti e nessuno. La rana che gracida nel pantano,
ma il cui grido insistente, che viene dall'ombra, tutti possono udire.... Per
questo: occhi aperti, diffidenza con tutti. Uomo avvisato mezzo salvato!
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