XI.
La notizia del
matrimonio di Mattia Sant'Angelo con sua cugina Loreta Lambertenghi si diffuse
rapidamente nel paese.
Agli amici veri e
provati - e Mattia ne aveva certo di molti - essa giunse oltremodo gradita.
"Era tempo (dicevano i più) che quel benedetto professore provvedesse ai
casi suoi. Dopo la morte di sua madre faceva pietà vederlo. Almeno adesso
tornerà a vivere tranquillo!"
Fra coloro, che facili a
credere alle calunnie avevan negli ultimi tempi malignato sul conto suo e gli
avevano perfino mostrato un certo riserbo, non pochi furon quelli che
nell'apprendere la novella si compiacquero di potersi riconoscere in errore.
"Già non era possibile (dicevano questi col facile senno da poi ed
obliando assai disinvoltamente le loro stesse mormorazioni) che a casa
Sant'Angelo avessero luogo le storie che si sono narrate!"
Ma chi in questa
occasione se la godette un mondo fu il bravo conte Mangilli, che per il primo
potè portare la notizia in "pieno campo nemico" ed anzi al quartiere
generale, avente, come si sa, la sua sede nel Caffè della Posta a
Tricesimo.
Non che il Mangilli
dentro di sè avesse potuto far tacere neppur allora le convinzioni, che aveva
sempre avute in fatto di matrimoni. Celibatario impenitente, pensava con una
certa soddisfazione che lui non si sarebbe adattato giammai a quello che il
Sant'Angelo faceva. Ma sebbene attaccato con tanta fermezza alle sue teoriche,
ammetteva questa volta volentieri l'eccezione; e poichè il suo amico s'era
risolto a quel passo per la propria felicità e per farla in barba ai cattivi,
ne aveva sincero piacere.
- Prè Zuan ha da
mangiarsi le mani! - disse il conte al professore. - Un miracolo se dalla bile
non gli piglia un accidente!
E capitò al Caffè
di Tricesimo proprio in momento buono. Don Morganti era più rosso del solito:
per farsi passare il malumore della disdetta, che quella sera lo perseguitava
accanitamente al consueto tresette, aveva già asciugato tra partita e partita
un bel numero di quartini della fresca e bionda birra che la piccola fabbrica
di Ospedaletto fornisce ai paeselli del circondario. Col virginia tra i denti e
gli occhiali sul nasone scarlatto, il prete, col corpo un po' abbandonato sulla
scranna, disfogava la sua stizza contro le carte, tirando giù delle invettive
tanto fatte, di cui però nessuno pensava a scandalezzarsi essendo ormai formata
da un pezzo l'abitudine di udirne da quelle labbra di più marchiane ancora.
Il Mangilli approfittò
per lasciar "scappare il razzo" di un breve intervallo prima della
"bella" ossia della partita che doveva essere l'ultima della giornata
e nella quale prè Zuan dichiarava che avrebbe salvato l'onore delle armi.
Ma il "razzo"
del conte Nardin ebbe effetto sì grande che la "bella" non ebbe più
luogo. E fu tale lo sbalordimento del prete, che meglio per lui se la giocata
fallì, poichè diversamente per quella sera l'onore delle sue armi, anzichè
essere salvo, avrebbe toccato per certo qualche altra vergognosissima disfatta.
Ci fu taluno della
comitiva, che tanto per non essere obbligato a dover riconoscere come con
quella notizia fosse tappata la bocca a tutti quanti, volle far dello spirito e
tentò di volgere la cosa in burletta. Spirito grossolano e burletta ben poco
comica, di cui i più risero a pena a fior di labbro, mentre il solo prè Zuan
strizzando d'occhio ai vicini con intenzione furbesca pareva ne avesse gustato
oltre misura la lepidezza. E poichè altro non poteva, mise fuori, lentamente,
senza darsene l'aria, con un tono loiolesco di bonaccione ingenuo, una di
quelle facili insinuazioni velenose, che la situazione quasi naturalmente gli
suggeriva.
Senonchè il conte
Leonardo, che, dopo l'effetto del suo razzo, ci teneva a mettere un altro po'
di rumore in mezzo alla comitiva sì degnamente presieduta dal Morganti, lasciò
andare sulla tavola un pugno così sonoro, che fe' saltare le carte e per poco
non mandò in rovina bottiglie e bicchieri. E con un piglio che non lasciava
luogo a troppi commenti, dichiarò che in sua presenza non tollerava a danno
dell'amico chiacchiere di quel genere, le quali non potevano essere calcolate
che come la prova di un basso ed impotente livore.
E poichè il conte
accompagnava la vigoria de' suoi pugni e la risolutezza delle sue parole con
certe occhiatacce da basilisco assai poco incoraggianti alle repliche, il
prete, che con quell'orso non se l'era mai fatta, si ritrasse anche questa volta
per il primo; e gli altri mogi, mogi, gli tennero dietro non senza procurar di
ammansare il conte con qualche timida assicurazione che essi, dopotutto, col
professore Sant'Angelo nè rancori, nè inimicizia non avevano mai avuto.
Naturalmente che lo sfogo
de' malumori, contenuto allora in via di prudenza per il riguardo dovuto a
quello spiritato del Mangilli, ebbe modo di compiersi in tutta la violenza, ne'
giorni successivi, allorchè la combriccola del Caffè di Tricesimo potè trovarsi
raccolta in camera charitatis.
Allora il prete ne tirò
giù di cotte e di crude e, dopo aver esaurito i più grossi improperî del suo
repertorio, conchiuse coll'affermare, compiacendosi nella parte d'uccellaccio
di malaugurio, che già della famosa felicità del professore non dava due
palanche bucate ed anzi era pronto a scommettere che in men d'un anno "se
ne sarebbero viste delle belle."
E col tossico sulla
bocca, ridendo verde, il pretaccio continuò per lunga pezza sul tono istesso,
anche facendo presente come quello gli paresse proprio il caso di preparare al
Sant'Angelo una sonorissima sdrondenade, cioè quella serenata burlesca e
fragorosa che per antica costumanza popolare, assai diffusa nelle campagne del
Friuli, si fa a' vedovi quando vanno a nuove nozze e talvolta a' vecchi, che
passano a matrimonio.
Ma don Morganti, a
malgrado di tutte le sue astutissime manovre, restò questa volta con un pugno
di mosche. All'ultimo momento anche coloro che per consueto si mantenevano
fedeli nel fargli coro, gli defezionarono o con una scusa o con l'altra. Talchè
il matrimonio del professore Sant'Angelo seguì fra le generali simpatie, senza
che una sola nota discorde avesse in alcun modo turbata la serenità della
festa.
Il matrimonio si fece
alla chetichella: nelle prime ore del mattino, al duomo di Tricesimo,
celebrando l'ottimo prè Letterio Prandina, venuto espressamente da Udine. Pochi
amici si raccolsero poi in casa ad una bella refezione, ove si fecero degli
allegri brindisi e si stapparono molte preziose bottiglie, dormenti già da varie
decine d'anni sotto la polvere della cantina padronale. Poi gli sposi partirono
per un breve viaggio a Venezia ed a Milano.
I pochi che assistettero
alla cerimonia furono assediati da ogni parte da insistenti domande: come fosse
la sposa, quale aspetto avesse avuto lo sposo e se ci fossero state delle
"commozioni". La curiosità generale ebbe però pochissimo a godere. La
cerimonia - tutti i presenti lo asserirono - procedette semplice, liscia, senza
alcun particolare ad effetto. Una cosa soltanto era risultata chiarissima,
anche a coloro che non l'avessero voluta vedere, ed era la felicità piena,
manifesta, grandissima, dei due sposi.
Nè fu cotesta, vana
apparenza. Il Sant'Angelo pareva rinato: nel breve volgere di pochi giorni si
sarebbe detto che tutta la sua persona avesse subìto quasi un magico
ringiovanimento: il sorriso, che da sì lungo tempo erasi spento sulle sue
labbra, ora era riapparso mettendo un novello bagliore di vita nel suo volto
sereno. Loreta sorrideva ella pure, senza parole, riconoscente a quanti si
congratulavano, levando tratto tratto gli occhi pensosi con intensa espressione
di gratitudine in faccia al suo sposo.
Questo la gente vide e
narrò con grande stizza di coloro che per tali fatti si rodevano nella loro
astiosa impotenza. Ma ciò che avrebbe messo ben più duramente a prova gli
invidi fu quello che la gente non vide e non potè narrare: l'espansione viva di
reciproco affetto, che i due sposi ebbero, allorchè, terminate appena le
formalità della cerimonia, si trovarono novamente soli, nella pace della loro
casa.
- Vedi, Loreta,
rimettendo ora il piede qui dentro, mi pare che tutto sia cambiato. Tutto mi
pare più bello, tutto mi par più sorridente....
Queste furono le prime
parole, che il professore disse a sua moglie, con una grande semplicità, e che
pur nella dolcezza infinitamente amorosa del pensiero, non disdicevano per
nulla sulle labbra di un uomo come lui, già sì lunge dalla lieta età degli
amori.
Ed obbedendo a quella
gentilezza d'animo che gli era connaturata, volle, per un affettuoso
pregiudizio, che prima di partire andassero insieme alla stanza che fu di sua
madre.
- Qui per la prima volta
ti lasciai intendere il mio affetto. Ora è compiuto il voto della mia povera
madre. Che il suo nome, Loreta, ci porti fortuna!
Egli aveva gli occhi,
nel dir ciò, pieni di lagrime:
- Perdonami, sai; in
questo sono sempre un ragazzo. Ma guai, guai per me se ora non credessi che il
tuo amore durerà costante: è la mia vita.... è tutto....
Loreta non rispose:
risposero per lei i suoi occhi in cui c'era una intensa, leale promessa, che
Mattia comprese e dalla quale gli venne all'anima la più viva esultanza.
E Loreta non mentì.
Da quel giorno ella fu
veramente la compagna buona, previdente, esemplare, che il professore aveva
sognato. La vita loro - che dopo il non lungo viaggio a Venezia e a Milano
riprese il suo andamento ordinato - scorreva per entrambi in una dolce
serenità. Loreta tutta alle cose domestiche, attenta all'oculata
amministrazione de' loro poderi, instancabile e premurosa, veniva citata nel
paese, dai coloni, dai vicini, come un modello d'ottima massaia. Il professore,
ora, con animo tranquillo, s'era rivolto a' suoi cari studî per lungo tempo
negletti e attendendovi con molta lena era giunto al compimento della sua opera
sulle Zecche friulane, che un operoso editore di Udine si accinse subito
a pubblicare.
Così trascorse un anno,
ne trascorsero due; e il tempo, passato senza turbamento alcuno, parve ad essi
breve come un lampo. Il modo della loro vita semplicissimo e modesto li metteva
in sicurezza contro quegli assalti della malignità, che quasi sempre muovono
dalle altrui invidie. E il prete Morganti, che rammaricavasi tra sè d'essere
stato così bugiardo profeta, evitava di parlare del suo nemico, mascherando
sotto l'aspetto dell'indifferenza l'aspettazione impaziente del giorno per lui
avventurato, in cui qualche grosso nuvolone venisse ad addensarsi sulla casa
dei Sant'Angelo.
Però per quanto il
pretaccio spiasse nell'ombra l'arrivo del temporale e ne affrettasse il momento
coi più cocenti voti, tutto parea congiurare perchè i suoi pii desideri non
avessero soddisfazione. Anzi troppo spesso, in cambio di quanto stava nelle sue
speranze, gli toccava d'invelenirsi il sangue sempre di più, per le molte
contentezze che ai Sant'Angelo capitavano e per il bene che diceasi di loro in
tutto il paese.
E per vero eran sì
nobili e frequenti gli atti di munificenza, che il professore, secondo l'antica
tradizione della famiglia, esercitava, da conciliargli con la gratitudine de'
beneficati la stima generale.
Cosi l'anniversario del
suo matrimonio aveva egli voluto solennizzare con un'opera di carità tanto
squisitamente pensata da doverne ottenere il plauso di tutti.
A Tricesimo mancava fino
lì un asilo infantile regolato secondo le norme igieniche e didattiche, che si
richiedono dalle esigenze odierne per siffatti istituti. Più e più volte il
Comune, che pur provvede con lodevole larghezza alla scuola popolare, aveva
progettato di aprire uno di questi stabilimenti desiderato vivissimamente da tutto
il paese. Ma l'attuazione del progetto dovette essere sempre aggiornata per
molte difficoltà, tra le quali non ultima la mancanza di adatti e
corrispondenti locali.
Fu a questo che il
Sant'Angelo volle provvedere offerendo al Municipio l'uso gratuito per un lungo
numero d'anni d'una piccola casa ch'egli possedeva in capo al paese: la stessa
casa dove tanti decenni innanzi i Sant'Angelo avevano cominciata la loro
fortuna e dove qualche vecchio ricordava ancora l'antica caffetteria; in cui il
nonno Sant'Angelo, col berretto di velluto e gli occhiali sul naso, recitava
allegramente agli avventori le sue gustose strofette dialettali.
Con quanto plauso
quest'atto nobilissimo fosse accolto non è da dire. Ma il professore non volle
saperne di ringraziamenti, nè tollerò che si facesse in quel proposito
pubblicità alcuna. Al sindaco e agli assessori, che vennero a manifestargli la
riconoscenza del Municipio, rispose con molta semplicità pregandoli che di
quell'argomento non si facessero altre parole e sforzandosi a convincerli come
a conti fatti la sua offerta si risolvesse in una cosa di ben esiguo valore.
I soliti brontoloni del Caffè
della Posta, ebbero un bello stillarsi i cervelli per esercitare anche in
questo caso la loro parte di denigratori sistematici. Essi di meglio non
seppero trovare, se non l'affermazione che dopo tutto il professore non faceva
certo un grande sacrificio col cedere quella sua "vecchia baracca"
dove, in mancanza d'inquilini, ballavano da gran tempo i topi. Però queste
buone lane dovettero smettere per forza anche coteste asserzioni, quando
s'avvidero com'esse facevano manifestamente ai pugni col vero. Per l'autunno
seguente quella ch'essi chiamavano la "vecchia baracca" era bella e
pronta per accogliere i piccoli allievi. La casina, ridipinta a nuovo e
convenientemente ridotta alla novella destinazione, aveva un aspetto pieno di
gaiezza. Due belle sale spaziose e chiare s'aprivano sopra un piccolo giardino;
e sulla facciata bianca a grosse lettere nere spiccava la scritta ancor fresca
di colore: "Asilo infantile municipale."
Il professore e sua
moglie a quei preparativi prendevano il massimo interesse. Loreta, ricordevole
sempre del tempo passato come maestra in istituti di quel genere, si compiaceva
di cooperare anche da parte sua con qualche consiglio. E fu lei stessa che,
attendendosi la maestra già nominata dal Municipio, provvide volontariamente di
persona a parecchie minute disposizioni inerenti all'apprestamento dell'asilo.
E mentre il Sant'Angelo,
un po' tra gli studî, un po' con tali cure, vedeva trascorrere tranquille le
sue giornate, un altro e grandissimo motivo di consolazione gli era offerto
dall'incontro insperato che la sua opera sulle Zecche friulane veniva
trovando. L'editore aveva fatto le cose a modo: il volume, stampato con molta
diligenza e con copioso corredo di tavole, era riuscito magnifico e nel corso
di pochi mesi aveva raggiunto una diffusione superiore di assai a quanto
avvenga di solito per una monografia d'interesse più che altro provinciale. Un
cenno di calorosa lode, che il Friedlaender ne fece nella Archeologische
Zeitung di Stoccarda, ebbe per effetto che molti eruditi della Germania se
ne interessarono. I maggiori Musei d'antichità d'Italia e dell'estero ne
commisero degli esemplari. E il Valussi, in una brillante sua appendice nel Giornale
di Udine, citando cotesti fatti, conchiudeva a giusto titolo
coll'asserzione avere il Sant'Angelo compiuta un'opera che onorava veramente la
scienza italiana.
Il modesto erudito, che
intorno a quel lavoro aveva speso tanti anni di pazienti e costose indagini,
esultava a questi elogi. Ma non è a descriversi la gioia intensa ch'egli provò
quando un bel giorno, chiamato cortesemente dal prefetto della provincia in
Udine, ebbe da lui la comunicazione che il ministro dell'istruzione pubblica,
riconosciuta la sua benemerenza, aveva chiesto per lui la croce di cavaliere.
Raccontando a sua moglie
e all'amico Mangilli l'emozione da lui provata a quella inattesa notizia, il
buon professore affermava candidamente la sua contentezza. Nè, parlandone con
altri, velò in modo alcuno cotesto suo sentimento.
- Sarebbe una stupida
ipocrisia se volessi ostentare indifferenza. La croce che il mio re mi manda
sarà per me il ricordo più caro del lavoro a cui ho dedicato tanti pensieri.
E con una allegrezza da
bambino, con quella semplicità cara e nobile, che era in lui tanto bella,
scherzava con Loreta.
- Vedrai che figurona
farà adesso al dì dello Statuto il tuo povero vecchio con la croce al petto!
Quel giorno la barba bianca sfigurerà assai meno. E prè Zuan se mi vede....
colla croce sul petto.... figurati che occhiatacce!
E prè Zuan, senza
aspettare che venisse il dì dello Statuto e che il professore gli passasse
accanto colla sua brava decorazione, si rodeva già allora allegramente dalla
bile. L'antica pretesa ad archeologo, a cui ostinavasi ancora il Morganti, a
ore perse, tra la messa e il tresette, era stata la prima, la vera ragione
dell'odio implacabile ch'egli covava contro il Sant'Angelo. Costretto cento
volte a vedersi rinfacciati i madornali spropositi detti non solo, ma, quel
ch'era peggio, stampati in qualche giornalucolo clericale della provincia:
vistosi portar via dal professore per le sue collezioni parecchie anticaglie,
su cui aveva posto l'occhio subodorando qualche buon commercio, ora le lodi
della stampa e l'onorificenza che il Sant'Angelo aveva avuto, lo facevano
addirittura uscir dalla pelle. Tanto, che incapace di contenere più a lungo il
suo sdegno, se la pigliava con tutti: col governo, che regala a occhi chiusi
titoli e croci al primo che capita; contro i "famosi liberaloni" che
hanno ciò che vogliono; perfino contro il bravo Valussi, che almeno lui,
giornalista vecchio ed onesto, avrebbe dovuto disdegnare di profondere a quel
modo tante turibolate....
Il conte Nardin, che di
tutte queste espettorazioni del prete ebbe notizia e che ormai provava un gusto
matto - com'egli diceva - "a farlo ballare" pensò allora di prendere
due piccioni ad una fava: dare una soddisfazione al Sant'Angelo e procurare
all'altro un nuovo argomento di dispetto.
E per ottenere tale
intento passò parola con alcuni membri del Municipio e con pochi altri fidati
amici perchè nel giorno fissato per la inaugurazione dell'asilo, si
improvvisasse una bella serenata al Sant'Angelo, con la banda comunale: sarebbe
questa una dimostrazione di gratitudine per l'atto generoso da lui compiuto e
in pari tempo un festeggiamento per la onorificenza da lui ricevuta.
La proposta del bravo
conte fu accolta con grande trasporto. E tutto fu disposto assai bene senza che
nulla ne trapelasse al festeggiato od alle persone a lui attinenti.
La sera di quella
domenica in cui l'asilo fu inaugurato, a casa Sant'Angelo c'era un po' di
festa. Intorno alla mensa, con pochi altri amici, sedeva il prè Letterio
Prandina venuto da Udine a passare la giornata in campagna: sedeva il conte
Nardin, che tratto tratto, facendo lo gnorri, gittava delle occhiate furtive
fuor dal balcone, verso il paese, senza che alcuno sospettasse affatto a ciò
ch'egli pensava.
E fu una sorpresa
generale, proprio al momento in cui si sturavano certe vecchie bottiglie di
moscato, l'udire lo scoppio di un'allegra musica a breve distanza dalla casa.
Tutti balzarono in piedi e corsero alle finestre, curiosamente; e fu allora che
si vide avanzarsi su per lo stradone in bell'ordine di marcia tutta la banda di
Tricesimo, coi pennacchioni verdi alla bersagliera e un codazzo di gente
dietro.
Quasi contemporaneamente
entravano nella sala il sindaco ed altri cinque o sei signori del luogo; e al
professore, che non capiva ancor nulla, spiegarono la ragione di quella
improvvisata.
Inutile dire i
ringraziamenti in cui il Sant'Angelo si profuse per quel pensiero gentilissimo.
E inutile il descrivere l'allegria, con cui trascorse quella serata.
Bastarono i primi
concenti della musica perchè da tutte le parti accorressero a frotte i
contadini. E poichè il maestro, ritto in mezzo al circolo formato dalla sua
banda nell'ampio cortile, attaccò sulla cornetta, ch'egli dirigendo suonava,
una di quelle polche gioconde, che formano la delizia delle sagre paesane, si
videro presto unirsi le coppie e principiare il ballo, animatissimo,
caratteristico, colla calada, in cui i contadini del Friuli mettono una
passione ed una grazia straordinaria.
Si ballò assai tardi, si
fecero de' grandi evviva al Sant'Angelo, alla signora Loreta, a tutti, e si
vuotarono due grossi barilotti del buon vinello asprognolo e leggiero, che i
padroni di casa fecero portare nel mezzo del cortile affinchè ballerini e
sonatori potessero di tratto in tratto rinfrescarsi la gola a ripigliar nuova
lena per altre sonate ed altri balli.
Il Sant'Angelo fra tutti
questi festeggiamenti era raggiante, non aveva più parole per ringraziare;
stringeva le mani a tutti; voleva attribuire a tutti il merito della gentile
affettuosa sorpresa.
E quando prè Letterio
gli accennò con benevolenza a Loreta che affaccendatissima, rossa in viso,
andava e veniva, intenta a far onore agli ospiti, il professore, volgendo verso
di lei uno sguardo pieno di tenerezza:
- Sì, prè Letterio, -
esclamò con accento profondamente sincero - non potrei essere più felice! È
così grande la mia felicità, che quasi, ve lo giuro.... ho paura!...
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