XV.
Breve e semplicissima,
di dolore e di amore, era la storia di Loreta.
Allorchè, dopo
un'infanzia trascorsa gelidamente nella mancanza d'ogni gioia domestica, Loreta
Lambertenghi si vide sola nella vita e potè comprendere a qual duro cammino
ella fosse sospinta, altro conforto non aveva saputo trovare che nella fermezza
della propria fede. Giovanissima ancora, in quell'età che presto dimentica e
facilmente si riconsola al rapido rinascere delle speranze, fu solo con un
miracolo di volontà intensa ch'ella pervenne a sollevarsi dall'abbattimento in
cui la sua sventura l'aveva piegata. Ed era stata per vero immane sventura la
sua, perocchè, più dell'isolamento, più delle privazioni, più d'ogni crudele
miseria, le era uno strazio indicibile l'esser costretta a curvare la fronte
infiammata di vergogna quando pronunciavasi in sua presenza il nome paterno.
A far cessare quelle
voci, che talora con inconscia crudeltà e tal altra con impietosa intenzione,
udiva elevarsi a giudicare la vita disordinata, le losche azioni, il carattere
dubbio di Prospero Lambertenghi, avrebbe ella dato tutto il suo sangue. La
glaciale incuria, che quell'uomo cupo ed eccentrico aveva avuto quasi
costantemente per lei, l'abbandono in cui l'aveva lasciata, la sorte acerba che
colla sua condotta disamorevole e imprevidente le aveva preparato, tutto
avrebbe saputo obbliare, tutto gli avrebbe perdonato, se almeno di lui le fosse
rimasta, eredità sacra e preziosa, la illibatezza del nome.
Ma pure in tanto
accasciamento dello spirito, pur comprendendo come la ferita ch'ella portava nel
cuore fosse di quelle che non si rimarginano, che danno vivo sangue e dolore
per tutta la vita, ella seppe nobilmente sostenersi. Il soccorso, che dagli
altri non le venne o le fu negato, cercò e trovò nell'indole sua buona e forte.
Sentì un'ebbrezza fiera nell'accettare la lotta che il destino le imponeva; le
parve bello e glorioso il non piegare fiaccamente alla sventura e cercarsi, a
malgrado di tutto, fra la indifferenza degli uomini e contro l'asprezza delle
vicende, la propria redenzione, la propria pace. E poichè aveva per sè la
gioventù, la salute, l'educazione, poichè chiedeva sì poco per essere felice,
la sicurezza della riescita sorse in lei presto a infonderle animazione e
forza.
Lavorò. Accettò la vita
di tante ragazze povere al pari di lei. I cari nomi e le immagini di tante
compagne, conosciute un giorno, al tempo degli studi, laggiù tra le mura
opprimenti della scuola magistrale, le ricorsero in quei giorni al pensiero.
Tutte insieme, tal volta, tra l'uggia penosa dello studio avevan provato il
bisogno dei giovani cuori, delle giovani menti, di sognare qualche bel sogno
radioso: e tutte, nelle confidenze segrete, che sono la consolazione delle
anime, avevano parlato dell'avvenire, non volendo porgere ascolto, non volendo
credere che alla promessa della felicità, come se il male non esistesse e i
giorni cattivi non dovessero sorgere mai. Oh! vani e leggiadri sogni! Oh! care
e credule amiche! Quante, al pari di lei, avevan veduto dileguarsi i bei sogni
giovanili; quante, dopo quei memori anni, separate l'una dall'altra dalla
tirannia del destino, obbedendo all'appello irremissibile del dovere, eran
andate lontano, così lontano che non si sarebbero rivedute mai più,
all'esercizio della loro generosa missione, a lavorare, a soffrire, a continuare
il sogno destinato a non realizzarsi forse giammai. Avrebbe fatto così anche
lei! E traendo lena dalla nobiltà del proponimento, il suo avvenire non le
apparve più così minaccioso.
Però le difficoltà, che
col suo coraggio pieno di entusiasmo ella da prima s'era affidata di poter
rapidamente e felicemente sormontare, le si manifestarono entro tempo assai
breve in tutta la loro asprezza. E nel contatto diuturno con le più crude
realtà della vita, molte disillusioni, troppo presto trovate, vennero a
illanguidire la sua fede.
L'esistenza, che era
obbligata a condurre, la prostrava talvolta in una stanchezza estrema. Dopo una
giornata lunga, spesa, dalla prima mattina a tarda sera, ad impartire lezioni
di ricamo, di francese, di pianoforte, retribuita scarsamente, in famigliole
modeste di borghesucci, di impiegati, di artigiani, cui pareva di spendere un
occhio del capo coi pochi centesimi onde pagavano la maestrina,
rientrava mezza morta, coi nervi spossati, altrettanto abbattuta dalla continua
tensione mentale quanto dallo strapazzo fisico. Poi in altri momenti le lezioni
mancavano: veniva l'autunno, si chiudevano le scuole: la gran mania del
viaggio, della villeggiatura, cui tutti obbediscono, che invade ora tutte le
classi, irresistibilmente, ogni anno, metteva in fuga gran parte, la massima
parte, pur di quelle famigliole modeste, presso cui ella andava a dare le sue
lezioni. Il suo pane si faceva scarso ed incerto. Indarno ella cercava altri
lavori. Mancante d'amicizie, senza appoggi, risoluta a non venir meno,
qualunque cosa dovesse costarle, a quel sentimento di dignità e di onoratezza,
che era il suo orgoglio, dovette imporsi privazioni d'ogni maniera richiedenti
abnegazione rara, energia infinita.
A Loreta parve fortuna
senza pari l'occasione che un dì, per un concorso di fortuite circostanze da
lei nè cercate nè prevedute, le si presentò, di poter ottenere un posto in una
cospicua e assai rispettata casa, quella dei conti Polverari di Verona.
L'ufficio, quale le veniva offerto, era quello di istitutrice; però dalle
stesse persone, che per le prime gliene avevano parlato, era stata resa attenta
come per le peculiari condizioni di quella famiglia si ricercasse, assai più
che un'abile maestra, una persona di educazione distinta e di virtuosi costumi,
atta a divenire la vigile compagna di una gentile giovinetta, che, per la molta
fragilità della salute, aveva bisogno d'essere circondata da costanti ed
amorevoli riguardi.
Il giorno in cui Loreta
Lambertenghi entrò per la prima volta nel palazzo dei Polverari, edificio bruno
e melanconico, posto in una delle più quiete strade di Verona, e che un vecchio
domestico, tutto curvo nella sua livrea, la guidò silenziosamente attraverso a
una fila di sale spaziose, dalle pitture antiche, dagli arredi severi, dove i
passi risonavano forte sul lucido terrazzo, sino alla stanza in cui la padrona
di casa la stava attendendo, ella ebbe una inesplicabile sensazione di orgasmo
come se, emanando da quelle pareti scure, da quelle pitture tetre, dall'aspetto
desolato di tutta quella casa, una superstiziosa titubanza si fosse
repentinamente impadronita di lei.
Tale sentimento penoso,
anzichè svanire od attenuarsi, si accrebbe allorchè il servo, che l'aveva
lasciata un momento per annunciarne l'arrivo alla padrona, la invitò ad entrare
ed ella si trovò in presenza della contessa.
Pallida, di un pallore
cereo d'ammalata, reso più evidente dagli abiti neri, ch'ella mai aveva smesso
dopo la morte del marito; coi capelli tutti canuti divisi in due larghe liste
sulla fronte solcata di rughe; con la persona magrissima e debole già
lievemente curva, Laura Rezzonico-Polverari era una figura profondamente
triste. Benchè all'entrare della giovane un lieve sorriso di affabilità si
fosse disegnato sulle sue labbra, parve a Loreta di scorgere subito ne'
lineamenti severi e ne' profondi occhi pensosi di quella donna una certa
espressione di alterigia e di durezza, che per un istante la tenne interdetta e
senza parole.
La contessa, accortasi
forse della soggezione che il suo aspetto aveva incusso alla giovane forastiera
o spinta da naturai cortesia a toglierla d'imbarazzo, ebbe allora qualche frase
molto amabile, ma pur sempre assai sostenuta, per darle il benvenuto. Poi,
esaurite queste premesse, fu con poche e laconiche frasi che accennò a quanto
da lei si riprometteva nell'adempimento degli ufficî, per i quali l'aveva
assunta in sua casa.
- Le informazioni che ho
avuto sul vostro conto, signorina Lambertenghi, furono ottime. So che siete una
fanciulla laboriosa ed onesta. Se non avessi avuto tale certezza non mi sarei
decisa ad affidarvi il delicato còmpito di essere una fidata compagna alla
figlia mia.
Io nutro speranza che
colle vostre doti d'ingegno e di cuore saprete corrispondere nel modo più degno
alla fiducia ch'io pongo in voi. Così facendo vi acquisterete il diritto di
essere nella mia casa non più un'estranea, ma un'amica....
- Signora contessa, io
mi sento lusingata, più che non lo possa dire, dalla fiducia ch'Ella ha la
bontà di dimostrarmi. Farò quanto starà nelle mie forze per rendermene meritevole.
E mi chiamerò felice se mi sarà concesso di conquistarmi la sua stima.
La contessa l'ascoltò
seria, senza toglierle dal viso i suoi sguardi penetranti, poi tendendole la
mano brevissima e gelida, che Loreta strinse timidamente:
- Vi ringrazio di questa
promessa, signorina, - ella disse un po' rigidamente. - M'affido ch'essa sia
sincera e che voi la saprete mantenere.
La promessa, che Loreta
aveva fatta, era sincera veramente. Però, quando poco appresso, prima di
conoscere ancora gli altri membri della famiglia, ella si trovò sola nella
stanza che le avevano assegnata e ripensò all'accoglienza avuta da quella
gentildonna dalla faccia austera e dall'accento reciso, istantaneamente, come
se una voce misteriosa l'avesse avvertita di un ignoto imminente pericolo, un
folle desiderio la prese di fuggirsene subito dalla tetraggine di quei luoghi e
di tornare alla sua povera vita agitata, le cui durezze, per uno strano effetto
della fantasia, le riapparivano ora quasi men fosche e meno penose. Ma fu la
debolezza di un momento. La riflessione riguadagnò presto il suo dominio e
Loreta si dolse di quegli ingiustificati timori come d'una ingratitudine verso
la benignità della sorte.
Ancor maggiormente se ne
dolse subito ne' giorni successivi, quando, avuta più intima conoscenza della
famiglia, potè apprezzarne i modi elettissimi e giudicarne i sentimenti.
La tristezza profonda
che incombeva sulla casa dei Polverari era giustificata da un concorso
veramente tragico di fatti luttuosi. Le tracce di una grande sventura si
scorgevano evidenti ne' più minuti particolari della vita di quella famiglia e
più che tutto nell'amore vivissimo, vigile, geloso, ond'erano stretti fra loro
la contessa Laura e i suoi due figliuoli.
- Vedete, - aveva detto
una volta la contessa a Loreta parlandole de' suoi figli, - se io non mi fossi
rifugiata nel loro amore dopo le atroci avversità di cui fui colpita, non avrei
potuto sopravvivere!
E per vero donna Laura
aveva sostenuti così fieri dolori da prostrare anche l'animo più saldamente
temprato. E se nelle pagine della storia italiana è dato ragguardevole posto al
nome di Gottardo Polverari, il gentiluomo fortissimo, morto con la stoica
fermezza di un patriotta antico, vi si associa giustamente il pietoso ricordo
di quella povera sposa ammalata e giovane, la quale, fra tanto imperversare di
sciagure, era riuscita come per miracolo ad attingere una forza novella nel suo
amore di madre.
Quando per le vie di
Verona, in una carrozza chiusa, dagli sportelli stemmati, passava la contessa,
pallidissima nelle sue gramaglie, accompagnata sempre da' suoi due figli Bianca
ed Alvise, non c'era chi non si scoprisse con rispetto e non l'accompagnasse
con uno sguardo di simpatia e di pietà insieme. I due fanciulli rassomigliavano
perfettamente alla loro madre, non pure nella nobiltà delle fattezze, ma ancora
nella gracilità somma delle persone. La contessina Bianca, col suo bel visino
filato, coi copiosi capelli dorati, disciolti in grossi riccioloni giù per le
spalle, sorrideva quasi sempre con una grande espressione di bontà. Il fratello
invece, più giovane di lei, appariva assai serio e già accusava, nello sguardo
meditabondo e nella compostezza degli atti, affatto insolita a quell'età,
l'indole sua inclinata alla tristezza.
La vita, che i Polverari
conducevano, era ritiratissima. Donna Laura, tremante sempre per la salute de'
suoi figli, che sapeva assai cagionevole, non vivea che per essi, vigilando con
instancabile sollecitudine alle loro cure ed attendendo con iscrupolo alla loro
istruzione. Oculatissima nella scelta de' maestri, voleva che i suoi figli si
formassero anzitutto buoni nell'animo, degni del nome che avevano ereditato;
ma, memore dell'alto lignaggio onde usciva e imbevuta per educazione di
principi altamente aristocratici, intendeva del pari ch'eglino crescessero ligi
a quelle tradizioni rigorose, alle quali le sarebbe sembrato una colpa di
derogare.
Nel vecchio palazzo
pochi amici recavansi a far delle visite, E donna Laura, mentre col suo riserbo
incoraggiava pochissimo le amicizie nuove, anche quando cordialmente offerte,
mostravasi ed era felice nell'accogliere gli amici antichi, legati per provato
affetto alla famiglia. Con essi le pareva di rivivere nel passato: si sentiva,
nella tenerezza de' ricordi, riportata a' tempi, quando, intorno al suo
Gottardo, bello, fiero, animoso, si raccoglievano quegli amici e s'accendevano
le vive discussioni animate, e si facevano, coli' entusiasmo negli occhi, i
propositi audaci nel nome della patria, a' quali lei, povera donna, provava
insieme un timoroso accoramento ed un palpito di fierezza.
Fida così al culto delle
memorie, donna Laura, dopo la morte del conte a Theresienstadt, aveva mostrato
sempre una particolare predilezione per il soggiorno alla loro villa di
Arsizzo, piena per lei di tante ridenti rimembranze. Là, nella pace solenne de'
grandi boschi, onde il palazzo era circondato, aveva ella trascorsi i primi
felicissimi anni del suo matrimonio; ed ancora, dopo tanto volgere di tempi,
affacciandosi a' balconi e spingendo lontano lo sguardo per le belle valli,
solcate dall'Adige, ella provava la cara illusione, propria a chi molto ha
sofferto, che i dolci tempi non fossero ancora passati e che le lagrime sparse
non fossero state che un sogno cruccioso.
Ma troppo fugace era il
sollievo, che queste illusioni le concedevano. E quando al loro svanire ella
riportava lo sguardo alla realtà, il suo cuore di ottima fra le madri sentiva
addoppiarsi l'angoscia del presente e le apprensioni per il futuro.
Poichè, donna Laura era
di mente troppo acuta per non avere, di fronte a' proprî figli ed alla
eloquente evidenza de' fatti, la piena coscienza del vero. La pietà mentitrice
degli uomini della scienza e l'intensità del suo amore non erano sufficienti
per indurla in inganno. La storia de' suoi maggiori, nella quale una legge
inesorabile di atavismo aveva segnato tante pagine luttuose, le era ognora
presente. Sentiva in sè d'essere ella pure un povero rampollo di quella pianta
condannata a intristire anzi tempo. E guardando le bianche fronti e le guance
scolorate de' suoi figliuoli comprendeva di aver trasfuso nelle loro vene il
suo sangue misero e avvelenato. Di ciò l'assaliva, spesso più acuto del dolore,
un rimorso opprimente.
E per lottare contro
quel barbaro volere del destino, per disarmare quel male, il cui progresso
latentemente vittorioso ella indovinava e spiava con affannosa chiaroveggenza,
ella chiedeva le forze al suo amore, alla sua fede, alla preghiera, vedendo in
tutto una minaccia, traendo da ogni più lieve fatto una cagione di allarme.
Bianca ed Alvise
crebbero in tal modo come due fiori di serra, allevati sotto l'occhio
sapientemente vigile del più innamorato fra i giardinieri. E a simiglianza di
siffatti fiori riuscirono due creature fragilissime, che già nella delicatezza
del loro tipo svelavano l'inettitudine a sostenere ogni spiro troppo vivo di
vento avverso.
La gentilezza rara e la
bontà, che erano proprie alla contessina Bianca, avevano in brevissimo tempo
conquistato l'animo di Loreta. Era una tale dolcezza d'accento e di pensieri
nelle parole di questa povera fanciulla che nell'ascoltarla tornava difficile
non restarne affascinati e non subire in pari tempo quel senso di superstiziosa
pietà che ci coglie qualchevolta dinanzi a certe eccezionali creature, in cui
sembra che la soverchia bellezza del cuore preannunci una troppo rapida
sparizione fatalmente segnata.
Fra Bianca e Loreta
Lambertenghi la simpatia nacque di primo impulso vicendevole e sincera. In
quella giovane seria, che veniva a lei già nota per una storia commovente di
sacrificî e di virtù, Bianca presentì tosto una compagna amorosa, che avrebbe
saputo comprenderla ed esserle di sollievo nella uniformità della sua vita.
Loreta dal canto suo comprese immediatamente di quanta pietà fosse degna quella
fanciulla così buona e sfortunata. E ciò che prima le parve pietà, naturale e
doverosa, non tardò a tramutarsi in affetto verace.
Le due giovani passavano
lunghe ore insieme. Nella stagione cattiva, durante i mesi invernali, che
pareano ancor più lenti nel vecchio palazzo, Bianca non usciva quasi mai dalle
sue camere. La vita della contessina scorreva colà in una uniformità placida,
per la quale ella non aveva mai il più lieve lamento. Si sarebbe detto che
nessuna delle aspirazioni, le quali nascono affascinanti nelle menti giovanili
e affrettano misteriosamente i battiti del cuore, fosse mai balenata alla mente
di Bianca. L'eco delle feste mondane, ove le sue coetanee brillavano acclamate
ed adulate, giungeva sino a lei senza destarle la più piccola invidia. Là,
nelle sue camerette ben calde e riparate, ella traeva, priva di qualsifosse
rammarico, la povera esistenza; beata de' suoi libri, ch'ella amava con
passione, de' suoi fiori che sfidavano al pari di lei nel tepore costante di
quelle stanze i rigori del verno, ma più beata della compagnia, intellettuale
ed affettuosa, che Loreta le faceva.
Quasi sempre alla sera
la famiglia raccoglievasi in una delle camere della contessina. Donna Laura ed
Alvise gareggiavano di amorevolissimi espedienti perchè il tempo scorresse meno
increscioso alla loro cara ammalata. E lei, seduta al suo posto preferito, in
un ampio seggiolone a sdraio, avvolta, a malgrado del fuoco che ardeva nel
caminetto, in un ricco mantello di martora, mostrava di divertirsi ad ogni
cosa, paga di tutto, riconoscente anche per le più tenui attenzioni.
Ma il più gradito de'
suoi passatempi formavan sempre le letture ad alta voce, in cui Alvise e Loreta
si venivano cordialmente avvicendando.
Erano per lo più
racconti di viaggi, cronache del risorgimento nazionale, poesie patriottiche:
libri che donna Laura sceglieva ella stessa con sagace discernimento. E
riesciva piacevole e commovente insieme, l'udire gli aneddoti, che
l'elettissima dama trovava occasione di interpolare a quelle letture: ora a
proposito di qualche scrittore, ch'ella aveva avvicinato da fanciulla, quando
nello storico palazzo dei Rezzonico s'accoglievano, col fiore della
cittadinanza vicentina, ospiti festeggiati, i più illustri artisti d'Italia,
ora a proposito di taluno di que' giovani e valorosi patriotti, che condiscepoli
al suo Gottardo ne' lieti tempi dell'Università di Padova, avevan poi trovata
sempre aperta la casa del loro antico camerata come quella di un fratello.
Talora, e non era di
rado, quando in qualche narrazione storica il nome del conte Polverari ricorreva
citato, una commozione vivissima s'impadroniva di donna Laura. Ma la povera
madre si frenava immantinente allo scorgere il lampo di fierezza che in quei
momenti s'accendeva nelle pupille del suo Alvise.
- Come vorrei poter
somigliare a mio padre! - diceva il giovane con un accento ricco di passione.
E donna Laura, pensando
a tutti i dolori ch'ella aveva già sopportati ed alla sorte riserbata a suo
figlio, era sopraffatta da un angoscioso timore dinanzi alla balda fierezza di
lui.
Alvise, senz'essere
bello, aveva in sè una singolare attraenza, la quale accrescevasi a mano a mano
che si contraeva con lui qualche dimestichezza. Solitamente assai parco di
parole, il suo discorso si faceva caloroso e brillante sotto l'impulso di ogni
forte impressione. Dotato d'una cavalleresca nobiltà di sentire, ogni suo atto
era una conferma dell'animo suo. E se donna Laura, guardando talora la faccia
risoluta e gli occhi ardenti del figlio, credeva di veder rivivere in lui il
compagno adorato della propria giovinezza, era giustificata la sua apprensione
che Alvise avesse ereditato, con la bontà del cuore paterno, il bisogno fatale
delle passioni veementi. Questo pensiero la turbava di continuo. Ed era con
orgasmo immenso ch'ella rifletteva al giorno in cui ogni sforzo le sarebbe
riescito vano per impedire a suo figlio di cedere alla legge ineluttabile
dell'età e dell'istinto, che attrae irresistibilmente i giovani alle grandi
battaglie della vita e degli amori.
Più volte donna Laura
credette giunto il momento ch'ella temeva. Certi scatti d'impazienza onde
Alvise era côlto, certi discorsi vaghi ch'egli faceva sull'impiego delle sue
ricchezze e del suo ingegno, la stessa ammirazione fervida ch'egli manifestava
dinanzi a qualunque fatto generoso, erano altrettanti motivi per alimentare le
apprensioni della contessa. Ma Alvise tornava presto alla calma: molti disegni
di viaggi, di studî, di imprese, da lui caldamente vagheggiati, eran svaniti
rapidamente dopo i primi e timidi accenni, in proposito fatti alla madre ed
alla sorella. Dalla somma trepidazione, che soltanto a quelle parole avevano
mostrato e Bianca e la contessa, s'era convinto come fosse suo dovere di non
riflettere a nulla che potesse avere per conseguenza un suo qualunque e pur
temporaneo allontanamento da quelle povere donne. E questa considerazione gli
fu poi sempre bastante per cacciare le visioni seducenti che tratto tratto gli
risorgevano d'intorno.
Venne però un tempo - e
fu alcuni mesi dopo l'ingresso di Loreta in casa loro - che un cambiamento, per
quanto abilmente dissimulato, s'avverò nel conte Alvise. Avvezzo ad evitare con
la prudenza dell'affetto ogni frase che potesse non che spiacere, ma indurre un
pensiero molesto, alla madre od a Bianca, ora più volte egli lasciavasi
sfuggire qualche frase melanconica, in cui s'accentuava il suo rammarico per la
vita inutile e fredda, ch'egli si vedeva dinanzi anche per l'avvenire; e
talvolta, in certe sere che veniva a passare accanto alla sorella, rimanevasene
così a lungo taciturno, da far supporre che la sua mente si trovasse le cento
miglia lontana.
Questo mutamento, di cui
donna Laura s'era vivamente impensierita, non era sfuggito neppure a Loreta
Lambertenghi. E mentre sulle prime non ne aveva fatto che un caso relativo, a
poco a poco, si trovò, senza rendersi conto della ragione, interessata
stranamente dinanzi al contegno del giovane. Più volte, allorchè giunta al
termine di una lettura, ella aveva alzato gli occhi dal libro, il suo sguardo
nell'incontrare quello del conte Alvise, ne aveva ritratta una esplicabile
sensazione. La fiamma di quegli occhi profondi e neri, che si figgevano nel suo
viso, come assorti in una fissità estatica, avea provocato in lei un ignoto
turbamento. Così altre volte era ella rimasta profondamente colpita da qualche
frase breve, ma piena di pensiero, con cui egli, dopo certi lunghissimi
silenzî, rientrava bruscamente nella conversazione, quasi scotendosi da un
dormiveglia, onde si fosse fino a quel punto lasciato sopraffare.
Fu così che Loreta, come
soggiacendo ad una sottile malìa, si trovò d'un tratto conquiso lo spirito e
turbata la pace.
L'immagine di Alvise non
la lasciava più; l'eco delle parole, anche le più vaghe, anche le più
inconcludenti, ch'egli le avesse detto, tornava a risonare a' suoi orecchi nel
silenzio della notte, mentre il sonno le fuggiva dagli occhi e la fronte le
ardeva di una fiamma cocente. Ed alla sera, quando si trovavano uniti nelle
stanze di Bianca, era quasi un malessere che le pervadeva d'un tratto le vene,
allorchè, pur avendo il capo chino alla lettura, sentiva l'ardore degli occhi
d'Alvise, intenti in quel momento su lei.
Per molto tempo non ci
fu fra i due giovani spiegazione alcuna: nè una di quelle furtive parole
rivelatrici, che sono sì care a chi ama, nè la più timida e più discreta
allusione lasciata mai accortamente cadere nel giro de' discorsi abituali.
Ma queste delicate
esitanze del sentimento hanno segnato il limite della loro durata. Alvise e
Loreta s'erano letti già così profondamente ne' cuori, che la più lieve
occasione, creata dal caso, doveva bastare perchè eglino fossero spinti a
rivelarsi scambievolmente il loro affetto.
E ciò seguì
inopinatamente una sera, in cui, ritiratasi la contessa Laura per una
indisposizione prima dell'ora usata, era egli rimasto solo nelle stanze di
Bianca, con la sorella e con Loreta.
Seduti intorno ad un
tavolo, su cui una lampada velata d'azzurro pioveva un raccolto lume,
sfogliavano un libro d'autografi, che, appartenuto alla contessa Laura ancora
da giovanetta, conteneva numerosi componimenti offerti, già tanti e tanti anni
innanzi, da letterati insigni, alla gentile fanciulla dei Rezzonico, mentre
nelle pagine più recenti ricorrevano altri nomi non meno cari ed illustri di
valentissimi poeti: Antonio Gazzoletti e Teobaldo Ciconi: Giuseppe Revere, che
in un vibrato sonetto evocava con amara nostalgia il golfo pittoresco della sua
nativa Trieste, e Ippolito Nievo, che in due sole agilissime quartine aveva
rispecchiato tutta la gentilezza della sua musa geniale.
Quella sera la loro
attenzione erasi arrestata appunto su questi versi del Nievo, per i quali
Bianca aveva una particolare predilezione. Armoniosissimi e delicati, Loreta
gli aveva letti con profonda passione. Ma forse mai come in quella sera la sua
voce ne aveva saputo far comprendere, coll'accento caldo e vibrato, l'intensità
del pensiero. - Quand'ella ebbe finito sentì la mano divampante di Alvise, il
quale le sedeva dappresso, afferrare la sua improvvisamente, con una stretta
nervosa, che le die' un brivido per tutta la persona. Di quel moto rapido, che
si compì in un solo istante, Bianca non s'accorse neppure. E solo ella ebbe una
esclamazione di spavento quando vide ad un tratto Loreta farsi pallidissima e
sorgere dalla sua seggiola con uno scatto convulso.
Ma Loreta si ricompose
subito. Accusò una vertigine violenta, che l'aveva côlta d'un tratto, e si die'
a rassicurare la contessina già tutta in allarme. Poi, poco appresso, salutando
anche il conte con modi per nulla diversi da' consueti, chiese licenza di
ritirarsi.
Il domani, per
tempissimo, quando Loreta, colle tracce in volto di una notte insonne,
accingevasi a scendere da Bianca, fu sorpresa dal veder comparire con un fascio
di volumi elegantemente legati il servo di Alvise, il quale dicevasi inviato
dal conte a portarle i libri ch'ella gli aveva domandato la sera precedente.
Benchè insospettita
tosto di ciò che potesse celarsi sotto quel pretesto, Loreta comprese di non
potere, senza addurre un qualche plausibile motivo, rimandare al conte i
volumi. Epperò, forzandosi a parere indifferente, li prese di mano al domestico
ringraziandolo con qualche parola.
Appena rimasta sola,
ella sfogliò con agitazione que' volumi e, come aveva preveduto, una lettera ne
cadde di mezzo alle pagine. Primo moto di Loreta fu quello di non leggere, di
restituire intatto quel foglio ad Alvise. Ma non potè. Lacerò nervosamente la
busta e con avida ansietà si mise a percorrere lo scritto. Era una confessione
ardente, appassionata, in quel linguaggio semplice e conciso, che è il segno
non dubbio della sincerità.
Loreta, alla lettura di
quelle parole, che cercavano con tanta potenza la via del suo cuore, fu pervasa
da un sentimento così nuovo, ch'ella credette di venir meno. L'amore, a cui
ella nella sua vita di privazioni e di lotte non aveva mai pensato, le si
svelava improvvisamente colle sue più inebbrianti attrattive. La sua vita, in
cui finora non aveva provato che l'abbandono, la miseria, la solitudine,
s'abbelliva ad un tratto di un primo e così vivo raggio di luce. Ella pianse di
tenerezza nel rileggere quel foglio. E quando il pensiero le sorvenne, che
fosse suo dovere di sottrarsi a quella passione e di resistere alle sue
allettative, un moto di ribellione si manifestò in lei. No, non poteva: non era
una colpa se ella amava: aveva troppo patito per poter respingere questa
piccola parte di gioia a cui sentiva di avere un sacro diritto! Dopo.... Che le
importava? Forse sarebbe tornato il dolore: un'altra volta il dolore, ch'ella
aveva già conosciuto. Ma forse.... E un radioso miraggio, vago, incerto,
evanescente, appariva a' suoi occhi sognanti: il caro miraggio della speranza,
compagna fedele ed eterna di tutti gli amori.
Alla loro passione
Loreta ed Alvise avevano ceduto così, con trasporto. Nata nel segreto di una
tacita corrispondenza, essi continuarono a tener celata allo sguardo di tutti,
gelosamente, questa passione, che alimentata nel mistero, si faceva d'ora in
ora più forte e più deliziosa. Consapevoli entrambi della necessità di
circondare il loro segreto delle maggiori cautele, perchè il bel sogno potesse
durare, era uno studio sagace e continuo per non tradire i proprî sentimenti. E
il dolce romanzo si svolgea così, pagina per pagina, in quella letizia serena,
che nessun'ombra ha peranco offuscato.
Ma se fino allora con
cento sottili circospezioni eran riusciti ad ingannare la indagatrice vigilanza
di donna Laura, non poteva ormai più tardare il momento in cui ella avrebbe
avuto la conferma di quanto da lunga pezza avea concepito, e veduto poi a grado
a grado consolidarsi, il sospetto.
Il vero le fu chiaramente
palese nell'estate successiva durante la consueta dimora alla villa d'Arsizzo.
Nella pace di quel soggiorno amenissimo, ove tutto concorreva a rendere più
bello un romanzo d'amore, i due giovani avevan sentito farsi così irresistibile
il fascino della loro passione, che entrambi ebbero quasi un repentino disdegno
di tutte le timorose cautele, di cui avevan dovuto subire sino allora la
pesante necessità. Furono quelle le ore più beate del loro amore. Ma fu anche
ben doloroso l'istante in cui per il solo concorso di alcune banali circostanze
- la volgare curiosità di un servo e la conseguente inconsapevole delazione -
essi furono in aspro modo richiamati alla realtà.
Sì Alvise che Loreta,
per quanto in alto grado commossi, si fecero subito ragione del vero. Ed il
conte, conscio perfettamente dell'obbligo suo di fronte a quella povera giovane
che gli aveva ceduto, assunse anche dinanzi alla rigida severità di sua madre
quel contegno risoluto che il dovere gli imponeva. Egli parlò a donna Laura con
aperta franchezza: di quell'amore, che gli aveva dischiuso una nuova vita, si
dichiarava orgoglioso: era stato più forte di lui: Loreta era buona, era
bella.... E volgevasi alla madre, facendo appello alla sua bontà, che aveva
sempre saputo perdonare: al suo affetto, che non poteva negargli la felicità,
di cui ormai egli aveva assaporata con tanta beatitudine la dolcezza.
Ma tutti i generosi
conati del giovane si fransero inutili contro la inalterabile freddezza della
contessa. In quel frangente decisivo una vigoria, di cui ognuno l'avrebbe
supposta incapace, era venuta in lei come per incanto. Era la madre, che
sorgeva a difesa disperata de' suoi affetti: la madre, che memore delle mille
dubitanze avute per la salute, per la pace, per la vita dei suoi figli - dubitanze
avvalorate dal mònito della scienza e ingigantite dalla grandezza dell'affetto
- vedeva ora in quell'amore la minaccia più forte, l'imminenza di quel momento
fatale, di cui ella aveva sempre tremato.
Animata da questi
potenti pensieri, nè obbliando in pari tempo quel sentimento alto di casta, che
era stato per lei una legge in ogni fase della sua vita, ella si sentì la forza
per imporsi a suo figlio. La madre tenera, arrendevole, indulgente, che aveva
fin allora dominato sull'animo de' figli unicamente con l'affetto, s'imponeva
ora con la severa manifestazione di una volontà inflessibile. Alvise, dinanzi
al rapido mutamento di donna Laura, non seppe più trovare il primiero coraggio:
di fronte a quella nuova energia, che non lasciava adito a speranze, si vide
ridivenuto fanciullo, inabile ad ogni opposizione, forzato ad una obbedienza
tacita e riverente.
Dell'istantaneo
abbattimento, in cui col suo ascendente era riuscita a piegare il figlio, donna
Laura pensò di dover trarre il partito migliore per raggiungere nel modo più
sollecito e radicale il fine cui ella tendeva. La sera stessa, senz'ammettere
alcuna dilazione, obbligò suo figlio a lasciare Arsizzo: sua cognata, la
contessa Maria Luigia Polverari-Nathan, che si trovava a villeggiare dopo lunga
assenza dall'Italia appunto in quei giorni a Bordighera, aveva scritto più
volte pregando Alvise di venire a passare con lei qualche settimana: la
partenza appariva dunque naturale e giustificata. Ed Alvise, un po' per
incapacità di opporsi a sua madre, che vedeva troppo sofferente ed irritata, ed
un po' anche con la speranza che mostrandosi ora pieghevole potesse aver adito
a rinnovare poi con più fortuna qualche tentativo per ismuoverla dalle sue
decisioni, turbatissimo, col pensiero sempre fisso a Loreta ed addolorato
intensamente che gli fosse conteso ogni modo di lasciarle almeno un cenno di
saluto, di promessa, di intesa, partì come sua madre gli aveva ingiunto.
Fra donna Laura e Loreta
le spiegazioni furono brevissime. Allorchè la giovane venne innanzi alla
contessa e che questa con un ironico sorriso sul labbro la fissò in volto,
alteramente, senza parole, ella, nascondendo tra le palme il viso infiammato,
cadde in ginocchio dinanzi a lei. Non pensò a scolparsi: non sapeva e non
poteva: il suo fallo in quel momento le parve così grande da rendere vana ogni
difesa. Tutte le ragioni possenti della sua anima assetata di amore, del suo
sangue ardente di giovinezza e di salute, del suo pensiero sedotto
dall'ebbrezza più sublime, ora, dopo averla costretta all'obblio di tutto, si
dileguavano dal suo pensiero, si cancellavano, sparivano. Al cospetto di quella
madre, di cui aveva tradito la fiducia, volgarmente, si sentiva disarmata,
senza scusa, immeritevole di pietà, pronta a sopportare ogni umiliazione.
E quando donna Laura,
dopo una lunga pausa, le ebbe con poche frasi secche ed incisive, fatto
rimprovero del suo contegno, ella, senza levare gli sguardi, disse candidamente
quello che le stava nell'anima; la confessione del proprio errore le parve in
quell'ora una espiazione coraggiosa; rassegnata ad obbedire a tutto ciò che la
signora le avrebbe ingiunto, una sola cosa chiedeva come una grazia suprema:
che le fosse risparmiato il dolore della disistima da parte di Bianca: che il
suo ricordo nella mente della cara giovinetta potesse rimanere incontaminato e
sereno.
Nel far questa
confessione e nel chiedere tale grazia era tanta sincerità vera e forte nelle
parole, nello sguardo, nelle lagrime di Loreta, che donna Laura, a malgrado del
suo corruccio, non seppe sottrarsi a un imperioso moto di tenerezza. Una voce
di pietà si levò in lei a favore di quella giovane, rea forse soltanto di aver
amato. E per un momento tutte le inquietudini, che le erano imposte per
riguardo alla fragile vita de' suoi figli, e tutti i pregiudizî di casta, che
l'avevano ognor dominata, s'acquetarono in lei, lasciando luogo ad un mite
sentimento di benignità e di indulgenza.
Rialzò Loreta vivamente:
con accento dal quale era sparita la primitiva asprezza, le fe' comprendere
tutta la penosa angoscia che per cagion sua agitava ora il suo cuore.
- Avrei avuto il diritto
di scacciarvi da casa mia, come si scaccia chi è colpevole di un tradimento o
di una disonestà. Non lo farò. Posso pensare che siete degna di compassione.
Potrò anche dimenticare il male che mi avete fatto. Ma dovete promettermi che
lascierete questi luoghi, che non attenterete mai più alla pace della mia
famiglia. Vedete: non è più il rimprovero che viene da un giusto risentimento;
è la preghiera di una madre quella che io vi faccio....
Loreta alzò il capo,
subitaneamente, coll'anima già piena di un'energica risoluzione; poi, cogli
occhi gonfi di lagrime, timorosamente domandò:
- E.... Bianca?...
- Bianca non saprà nulla
mai di quanto avvenne. Nulla offuscherà in lei il ricordo d'amicizia e
d'affetto che voi le lasciate....
Loreta si portò allora
le mani al petto come avesse voluto contenere il dolore che in quel momento
l'afferrava con rinnovata violenza. Poi chinò il capo, sommessamente, in atto
di muta rassegnazione.
Così lasciò la casa,
ov'era entrata sotto l'apprensione di un sinistro presentimento, dove aveva
passate molte ore felici e dove aveva conosciuto la dolce ebbrezza e, in pari
tempo, le più fiere pene dell'amore.
Così ella tornò alla sua
vita solitaria ed incerta, decisa al sacrificio di sè stessa, sicura ch'ella
non avrebbe riveduto mai più l'uomo, al quale aveva dato il primo sogno della
sua giovinezza e ch'ella, sebbene priva ormai d'ogni speranza, immensamente
amava....
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