XVI.
Dopo il primo colloquio
avuto con Loreta, Alvise per molti giorni non riuscì più a ritrovarsi da solo
a sola con lei.
I brevi momenti passati
al suo fianco erano stati troppo fugaci perchè egli ne avesse potuto ritrarre
un durevole sollievo alla concitazione tumultuosa di cui si trovava in balìa.
Troppo poco aveva egli detto e troppo poco aveva ella saputo di quanto gli
tenzonava nel cuore. E, stimolato da una brama incessante di rivederla ancora,
era ricorso ai più sottili stratagemmi, contrariato di scorgere com'essi
cadevano infruttuosi, sia per effetto delle riluttanze, che la signora
opponeva, sia per le difficoltà infinite, che la semplicità del vivere in mezzo
a quelle campagne veniva moltiplicando.
Sempre intento al suo
scopo, Alvise aveva trovato il modo di rendere frequentissima la sua presenza
in casa Sant'Angelo: i pretesti creati con rara avvedutezza non gli mancavano:
e se talvolta un rammarico lo coglieva per le simulazioni, alle quali gli era
forza ricorrere, questi scrupoli molesti s'acquetavano presto. Il sentimento
sotto il quale agiva lo signoreggiava per modo da non lasciargli adito a
pensare ch'egli stesse per commettere uno de' più sleali tradimenti
all'ospitalità, a lui fiduciosamente accordata. Il trovarsi vicino a Loreta, la
possibilità di scrutare nel volto e nelle parole di lei il riflesso dell'anima
sua, eran divenuti per lui un bisogno smanioso, un desiderio tirannico, che
nell'esaltazione de' suoi pensieri gli parea immune da ogni colpa e dal quale
nessuna considerazione l'avrebbe distolto.
L'idea che il professore
Sant'Angelo avesse potuto concepire un qualche sospetto non gli balenò affatto.
Nella figura mite e bonaria di Mattia il suo occhio vigile ed accorto non aveva
potuto scoprire mai il segno più lieve di diffidenza. Come l'aveva accolto nel
primo momento, in cui era entrato in casa sua, Mattia aveva continuato a
trattarlo costantemente, studioso di delicate sollecitudini, antiveggente
d'ogni suo desiderio, mostrando, più che piacere, ambizione nel provargli come
egli fosse l'ospite graditissimo della famiglia. In coteste amabili
dimostrazioni Mattia non ispendeva forme e frasi mendicate. Usava i modi che
gli erano abituali: semplici e schietti. E di questi, con qualche arguzia
festevole, si scusava:
- Vede, conte mio, con
lei non facciamo più complimenti. Noi, gente di campagna, siamo abituati
così.... Con quelli a cui si vuol bene, il cuore alla mano.... e basta!... È
vero, Loreta, che tu pure mi dai ragione?...
Loreta, obbligata a non
rispondere in tono che stesse in disaccordo con gli scherzi di Mattia, studiava
d'assecondarlo, ma raramente vi riusciva senza manifestare l'imbarazzo da ciò
in lei provocato.
E il professore allora,
ingannandosi sulla cagione delle frasi impacciate o sul rossore che imporporava
il viso della moglie, ne profittava per volgere lo scherzo in qualche
affettuoso complimento:
- Che vuole, conte
Alvise? Loreta, che non ha ancora saputo dimenticarsi le sue abitudini
cittadine, non si sente il coraggio di darmi francamente ragione in faccia a
lei. Ma ella pensa al pari di me. Siamo d'accordo in tutto come in questo, oggi
come fu sempre. Perchè, caro conte (e dicendo così accarezzava con la sua mano
ruvida la guancia di Loreta), una moglie come questa è un vero tesoro. Bisogna
venire qui, in fondo a queste nostre campagne, per trovare una coppia di vecchi
sposi, che si vogliano bene e s'accordino così pienamente come noi due....
In que' momenti
un'amarezza si facea strada nell'animo di Alvise: più che un senso d'invidia,
era uno sgomento quello che s'impadroniva di lui: e, leggendo il pensiero di
Loreta, che tradivasi in una fuggevole contrazione delle labbra e nel rapido
corrugarsi delle ciglia, dovea stornare gli occhi da quelli del Sant'Angelo,
incapace di sostenerne gli sguardi limpidi e tranquilli.
Ma quello che Alvise non
aveva mai pensato e che Loreta non aveva creduto, erasi, a malgrado d'ogni
esteriore smentita, avverato nel cuore di Mattia. Sebbene incredulo per indole
a tutto ciò che potesse essere doppiezza o malvagità, non aveva potuto
schermirsi da un primo increscioso pensiero dinanzi al turbamento, che gli era
parso di scorgere in sua moglie e nel conte il giorno della sua inattesa
ricomparsa, reduce dalla gita fatta indarno a Collalto per visitarvi il
Mangilli. Di quel dubbio poco appresso aveva provato dispiacere ravvisando in
esso un'offesa ingiustamente recata all'onestà di sua moglie ed alla lealtà del
suo ospite. Ne aveva provato afflizione come di una codarda aberrazione dello
spirito. E procurò di non pensarci ulteriormente. Ma la venefica pianta del
dubbio aveva ormai gittate le proprie radici nel cuore di lui e, più forte
d'ogni generoso ragionamento, procedeva tenace nel suo maligno sviluppo.
Indarno Mattia combatteva contro il rinnovarsi di codesti attacchi alla sua
pace: indarno egli procurava di convincere sè stesso come quelle non fossero
che vane fantasie, nate dal nulla, in un momento di malsana tristezza. E
cercava di moltiplicare a' propri occhi le prove tranquillanti: studiava di
sovvenirsi di tutti que' piccoli fatti e di tutte le espressioni, per cui aveva
giudicato fin dal primo istante nobile e leale il carattere del conte Alvise; e
gli era confortevole di mostrare più vivo il proprio attaccamento alla moglie,
forzandosi di riconoscere in lei inalterato l'antico suo affetto.
E se, in questo
combattimento, ad onta di tutti i proprî sforzi rimaneva soggiacente, gli
ripugnò sempre, anche sapendo di condannarsi ad un raddoppiato martirio, di
svelare in alcun modo i suoi dubbî e, peggio ancora, di usare qualsifosse de'
mezzi volgari, che la sete del vero avrebbe forse potuto suggerirgli. Il
ridicolo, che sarebbe stato congiunto ad una manifestazione di infondata
gelosia, lo intimoriva altrettanto quanto la bassezza di un insidioso
spionaggio. Gli pareva così inammissibile e folle e insussistente l'ipotesi di
poter essere la vittima di un tradimento, che la sua intelligenza, il suo
cuore, il suo buonsenso vi si ribellavano energicamente.
Un giorno, che Loreta ed
Alvise erano rimasti per qualche momento soli e che questi ne aveva
approfittato per rinnovare alla signora la preghiera di un colloquio,
fervidamente, con uno scoppio penetrante di passione, ella s'era difesa
rammentandogli la cieca ed onesta fiducia del marito:
- Vedete come è tristo
quello che voi mi domandate. Giudicatene voi, se siete giusto. Come posso ascoltarvi?...
Ma Alvise non s'era
acquietato a quelle obbiezioni.
- Potete aver ragione in
quello che dite. Ma che cosa vi domando io di male? che cosa vi chiedo che
offenda i vostri scrupoli? Nulla, nulla. Loreta, siate buona, siate pietosa:
pensate che questo nostro ravvicinamento durerà così poco.... Io non vi domando
di obbedire a me: obbedite al vostro cuore: so che cosa egli vi dice, so che
voi lo dovrete ascoltare....
Ella resistette ancora.
Coraggiosamente, con forte coscienza del dovere, ella fe' appello a tutta la
sua virtù. Ma le persuasioni acute e sapienti, di cui egli si era valso per
ismuoverla da' suoi propositi, soverchiarono la tenacia, sempre meno
resistente, della sua volontà. "Che cosa vi domando di male?" Questa
domanda supplice e tranquillante tornava ad accarezzarle l'orecchio come una
seducente tentazione, tornava ad addormentare i suoi scrupoli risorgenti.
Misurando le proprie forze, stimò insania il dubitare di sè stessa. L'idea
degli obblighi suoi d'affetto, di riconoscenza, di stima, per l'uomo che
l'aveva redenta alla quiete ed all'onestà della vita, non poteva abbandonarla,
l'avrebbe guardata da ogni pericolo, sarebbe stata il talismano infallibile
della sua salvezza. E fidente in tal modo nell'ausilio, che la sua ragione le
rappresentava siccome immancabile, ella veniva cedendo, grado per grado, senza
averne coscienza, alle ingiunzioni sempre più fervide, che il suo cuore le
faceva.
Così ella accettò due o
tre lettere, passionate, accennanti con frasi di fuoco al loro passato, che
Alvise trovò il mezzo di farle nascostamente recapitare. E nel modo stesso,
avendo da prima negato, essendosi anche giurato di rimanere ferma al proprio
diniego, ella finì per accondiscendere, - com'egli aveva voluto, valendosi di
tutti i pretesti ch'egli aveva suggeriti, - ad un nuovo abboccamento. C'era
venuta vincendo tutti gli ostacoli, sormontando tutte le sue esitanze,
forzandosi ad attenuare col ragionamento, radicato d'altronde nella fermezza
de' suoi propositi, ogni scrupolo, da cui sulle prime era stata rattenuta.
L'incontro seguì, in
modo che avesse tutte le apparenze di una innocente casualità, sulla pittoresca
strada di Fontanabona, che Loreta percorreva non di rado nel recarsi a visitare
una delle poche famiglie del paese, con le quali manteneva rapporti d'amicizia.
Si trova - a mezzo di
quella strada, la quale s'inerpica, costeggiata da alti pioppi, sui fianchi di
una facile collina, - una sorgente d'acqua limpidissima e fresca, che i
campagnuoli chiamano, con una delle loro armoniose voci dialettali, il Çiton,
ed a cui attribuiscono per inveterata tradizione meravigliose virtù salutari.
In autunno, i villeggianti, che trovansi numerosi ne' paeselli della pianura di
Tricesimo, prendono volentieri questo luogo a meta delle loro escursioni e se le
grandi meraviglie della sorgente si riducono per giudizio degli increduli alla
purezza della vena invariabilmente gelida e chiara come cristallo, pure,
specialmente nelle primissime ore del mattino, al Çiton ritornano tutti
assai di buon grado, attratti dall'amenità della strada e dal romantico
paesaggio che da quel punto si ammira.
Nel pomeriggio sono
assai più scarsi i visitatori, tanto che ordinariamente per il lungo viale non
s'incontra che a radi intervalli qualche abitante del paese, che sale verso Fontanabona
o ne scende avviato alla pianura.
Il conte aveva pensato
che questo fosse il luogo migliore per incontrarsi con Loreta; e tale pensiero
gli era venuto naturalmente quand'ella ebbe una volta accennato per caso in sua
presenza al Çiton, parlando delle proprie visite alla famiglia di
Fontanabona, che egli pure aveva conosciuto alla sagra di Nimis.
Però ad onta di tutte le
persuasioni impiegate e della promessa, ch'egli alla fine aveva saputo
strappare alla Sant'Angelo, Alvise sino all'ultimo momento dubitò ch'ella
tenesse la data parola. Fremente d'impazienza egli erasi trovato al luogo del
convegno ben più d'un'ora innanzi a quella fissata. E poichè il tempo
dell'attesa, nel silenzio di quel viale solitario, gli pareva interminabile,
aveva già cominciato a disperare che Loreta venisse. Fermo sul muricciuolo, che
circonda la spianata nel cui mezzo è la polla della sorgente, egli tenea fissi
gli occhi sulla campagna, spiando se la signora apparisse, tendendo l'orecchio
ad ogni rumore. E fu con un palpito forte nel cuore ch'egli vide alla fine
spuntare alla svolta del sentiero, presso il piede della collina, la figura di
Loreta.
La Sant'Angelo veniva a passo lento,
un po' pallida, con una perplessità manifesta nell'andatura e nel viso.
Egli le mosse incontro e
le prese la mano dolcemente:
- Come vi son grato
d'essere venuta. Come siete stata buona, Loreta....
Ella non rispose subito
e, tentando di svincolare la mano, abbassò gli occhi, confusa.
- Ho aspettato con tanta
impazienza. Mi era così tormentoso il pensiero che aveste potuto mancarmi.
E sentendo com'ella
rinnovava lo sforzo per liberare la sua mano che tremava febbrilmente:
- Via, dunque, - egli
soggiunse con tenerezza, - perchè tremate così? Di che avete paura?
- Ho fatto male, ho
fatto male! Avrei dovuto trovare la forza per non ascoltarvi.
- Per non ascoltarmi!
Ah! no, Loreta, sarebbe stata crudeltà la vostra. Ancora un vostro rifiuto e
non so a che cosa mi avreste spinto.... Guardate, io so che ormai il passato è
perduto e che nulla mi resta a sperare. Ma quando tra due cuori ci fu un giorno
un vincolo forte e sincero, com'è stato quello fra noi due.... non è possibile
che tutto finisca così, senza una spiegazione dalla quale rinasca almeno quel
sentimento di stima che aiuta a perdonare e a rendere men grave il ricordo dei
torti sofferti....
E dopo una breve pausa,
durante la quale Loreta s'era lasciata cadere, come vinta da una prostrazione,
sur uno dei sedili posti intorno al fonte:
- Sentite, - egli
proseguì. - Quando alcuni giorni sono, approfittando di pochi momenti concessi
dal caso, io ho potuto parlarvi per la prima volta senza testimonî, furono
tanti i pensieri che si affollarono alla mia mente, tante le cose che io avrei
voluto dirvi, che quell'ora mi parve un baleno. Quel giorno - ve ne rammentate?
- noi abbiamo rifatto insieme il cammino del passato, abbiamo ritessuta insieme
la storia dei dolori, che io - sì, io, con la mia passione, che non vedeva
ostacoli, che non ragionava! - vi ho preparato nella mia casa. Ma di ciò che
avvenne poi.... di quello che è stato poi di me, della mia anima, della mia
sorte, non avete saputo nulla, non vi ho detto nulla. Eppure, Loreta, è una
storia ben triste anche questa: così triste che potrebbe valere un'espiazione.
E conviene che voi la conosciate. Forse allora sentirete che io fui più degno
di commiserazione che di rancore o di sprezzo....
La voce di Alvise s'era
fatta supplichevole e sommessa ed aveva un accento che non poteva ingannare.
- Io non vi chiedo delle
giustificazioni.
- Lo so e non tento di
farne. Qualunque cosa diciate, obbedendo alla bontà della vostra anima, sarebbe
inutile: la coscienza de' miei errori mi è chiara: il giudice migliore e più
severo di me stesso son io! Ma appunto per questo voglio che sappiate quali
traversie io dovetti sostenere dopo la nostra separazione. Non dovessi, dopo
questo racconto, rivedervi mai più, avrò almeno la speranza che voi potrete
riconoscere che quello che forse avrete giudicato freddo, volgare, abbietto
oblìo, altro non era che la volontà cieca di circostanze ineluttabili, il
predominio vittorioso di quei dolori, sotto il peso de' quali deve addormirsi e
tacere ogni altro per quanto nobile e forte sentimento. Mi ascolterete voi,
Loreta?
Ella reclinò il capo,
vinta, senza dargli alcuna risposta.
Ma Alvise comprese la
significazione di quel silenzio e cominciò, animandosi grado a grado, a narrare
quanto si era passato in casa sua dal giorno in cui, dopo il breve tempo
passato a Bordighera in compagnia della contessa Nathan, era ritornato alla
villa di Arsizzo.
- Ritornavo triste, ma
senza avere ancora rinunciato a qualche speranza. Se sapeste come ho
combattuto, quanto ho fatto perchè mia madre si lasciasse rimuovere dai suoi
voleri! Tutto fu vano. E mentr'io, disperato de' suoi dinieghi, vedevo cadere
inutile ogni mio tentativo per riuscire a sapere almeno dove voi eravate....
che nuovo periodo di dolore principiava per la nostra casa! D'un tratto, senza
che nessun sintomo allarmante ci avesse potuto far pensare all'imminenza di una
catastrofe, la povera Bianca ammalò. Era un assalto fiero di quel male che mia
madre, con le sue cure amorose durate per tanti anni, s'era illusa di aver
debellato. Ma l'illusione, mantenuta per poco dalla speranza e dal conforto dei
medici, svanì ben presto.... Bianca moriva: le sue povere forze le fuggivano
giorno per giorno; ella sola non s'accorgeva, non sospettava di nulla, sperava
sempre.... Loreta, voi potete immaginare che cosa fu di noi in quel periodo.
Avete conosciuto mia madre: avete visto come ci amava: avete ammirato l'eroismo
di quella donna, che trovava tanta forza e tanta abnegazione per i suoi
figli.... Potete immaginarvi quello che avvenne!
Egli si fermò un
momento, come percosso egli stesso dalla visione che evocava.
- Povera Bianca! Povera
Bianca! - mormorò quasi parlando a sè medesima, inconsapevolmente, Loreta.
- Cinque mesi, - egli
proseguì, - indi.... la fine....
E brevemente, colla voce
che gli tremava, narrò, incalzato da qualche rapida domanda di Loreta, alcuni
strazianti particolari che accompagnarono lo spegnersi di quella miserevole e
purissima vita: le parole di ricordo, d'affetto, di pietà, ch'ella ebbe per
tutti, che lasciò per tutti, soavi come l'ultimo profumo di un bel fiore, che
si piega intristito.
- Poi, - egli continuò,
- quando io e mia madre fummo soli....
Qui ebbe una nuova e
prolungata reticenza, durante la quale parve volesse raccogliere le sue idee;
quindi, con un gesto come di chi rinuncia a descrivere cosa, per la quale
comprende la propria parola impotente:
- No, inutile il dirvi;
voi comprendete.... Davanti al cordoglio intenso, commovente, ribelle ad ogni
conforto, in cui vedeva piegata mia madre, io non ebbi più il capo a nulla. Non
v'era ora del giorno in cui la mente di quella donna infelice non tornasse con
un furore disperato, con una commozione ardente, a quell'angelo poveretto che
la morte ci aveva rapito.... Nulla riusciva a distrarla, nulla a scuoterla: il
dolore di quella nuova sventura aveva portato una scossa terribile alla sua
fragile salute. E fu appena in quei giorni, Loreta, che io sentii quanto amavo
mia madre; e vi giuro che, al vederla così com'era, sarei stato pronto a tutto
purchè da me le potesse venire una consolazione, purchè le sue forze avessero
potuto ritemperarsi.... Consultammo i medici: chiedemmo il consiglio degli
amici. Ma con quale profitto!... La sorella di mio padre, Maria Luigia Nathan,
un'angelica e pietosa donna, accorse allora. Venne a Verona, impiegò tutte le
più calde persuasive dell'affetto per indurre mia madre a lasciare quel
soggiorno: suo marito, il barone Nathan, doveva passare quell'inverno in Egitto
per incombenze diplomatiche affidategli dal governo inglese: ci offerse
l'ospitalità più cordiale nella sua casa, facendo valere la circostanza del
beneficio che da quel clima mitissimo avrebbe potuto derivare a mia madre....
Ma ella non volle. Protestò con l'usato animo che, sentendosi ormai condannata
ella pure, voleva morire nella sua patria, nella vecchia sua casa, dove aveva
per sì poco goduta la felicità e dove aveva veduto distruggersi tanta parte del
suo cuore. E quel presentimento si avverò, ahimè, troppo presto.... Ella passò
come visse, serena, rassegnata, senza timori della morte... Una sola cosa ella
mi domandò per poter morire tranquilla: che io le promettessi di non far nulla
mai nella mia vita che fosse derogazione alle massime da lei ognora professate
o ch'ella avesse potuto in alcun modo disapprovare. Promisi, senza pensare a
ciò che facessi, dimenticando - e lo confesso come una colpa che non so
perdonarmi - dimenticando.... anche quello che dalla mia mente non avrebbe
dovuto cancellarsi mai più....
- Avete compiuto il
vostro dovere, Alvise. Questo era il primo de' vostri doveri.
- Sì, avete ragione.
Così in quell'ora angosciosa ho giudicato anch'io. Ma poi - oh! questo almeno credetemi!
- ho sentito che altri doveri erano per me altrettanto forti, altrettanto
santi!... Da quel momento non pensai che a voi: vi cercai con desiderio
intenso: ho sperato mille volte che vi sareste decisa un dì o l'altro a darmi
vostre notizie. Ma nulla, nulla e sempre nulla! Mi credetti obbliato; vi
credetti morta; pensai (sì anche questo pensai!) che la vostra sorte vi avesse
condotto a migliori fortune.... Allora, infiacchito, sfiduciato, senza più uno
scopo dinanzi a me ed esortato dai medici a vigilare sulla mia salute
gravemente scossa, lasciai l'Italia, vissi per qualche tempo con mia zia, la
contessa Polverari-Nathan, la quale m'aveva preso affetto di madre; poi, in
cerca di distrazione e di arie salutari, viaggiai: un inverno a Madera, quindi
alle Indie, in China, al Giappone.... Mi feci una nominanza di avventure
singolari e romanzesche: fole di cronisti male informati e dicerie senz'ombra
di verità. Dissero di un mio matrimonio a Valparaiso. Poi, forse indotti in
errore da una somiglianza di nome, mi fecero eroicamente morto... che so io in
quale strana avventura in un angolo selvaggio dell'Australia.... Morto; no, non
era vero.... Ah! quanto meglio sarebbe stato per me!... Era finito tutto,
allora, tutto....
Loreta, che aveva
ascoltato fin qui, come soggiogata dalla potenza dell'accento d'Alvise, rialzò
a questo punto i suoi occhi lucenti di lagrime:
- Finito! - ella esclamò
poi, con lentezza. - Finito era tutto egualmente. Ormai nulla avrebbe potuto
più ricongiungerci....
- Nulla! Perche? Se io
vi avessi ritrovata.... Se voi non aveste voluto sottrarvi a me, come avete
fatto, senza darmi più notizia alcuna della vostra sorte....
- No, Alvise, non dite
così! Abbiamo piegato entrambi a un volere più forte di noi.... Così doveva
essere. Sarebbe stato inutile il ribellarci a quello che il destino aveva
segnato!
- Io.... - esclamò egli
con un istantaneo scatto di protesta, - io....
Ma Loreta, troncandogli
vivamente la parola:
- Voi, - proseguì con
una severità melanconica nella voce, - avreste potuto disobbedire ai voleri di
vostra madre?... No, sarebbe stato male: non l'avreste fatto. E se anche
l'aveste voluto, se anche, ritrovandomi sul vostro cammino, mi aveste offerta
la realizzazione di quel sogno, al quale follemente un giorno mi ero abbandonata....
ve lo giuro, Alvise, avrei saputo resistere ad ogni vostra profferta....
- Questo avreste fatto?
- egli dimandò concitatissimo.
- Questo.
- A malgrado di tutto il
passato?
- Sì.
- E perchè, Loreta,
perchè?
- Perchè....
Ella s'arrestò un
momento. L'amara confessione, ch'era indotta a fare, le si arrestava sul
labbro: il suo spirito le negava l'espressione atta a compendiare il sacrificio
intenso, eroico, doloroso, cui ella si era rassegnata sotto il vincolo della
promessa strappatale, in un'ora di pentimento e di bontà, dalla commovente
eloquenza della madre di Alvise.
- Perchè? - egli
insistette. - Era dunque svanito il vostro amore?... Ditelo almeno, ditelo....
Ella senti una puntura
acuta nel cuore a questa domanda, che l'offendeva come un oltraggio a tutte le
dolci memorie dormenti nell'intimo della sua anima, non cancellate mai nè dal
tempo nè dagli eventi, custodite segretamente sempre, con una pietà alta e
gelosa.
Per un istante esitò:
l'anima si ribellava a quella menzogna.
Egli, vedendola titubante,
ebbe un lampo di speranza. Credette indovinare e con raddoppiato calore
ripetette il suo invito:
- Ditelo, Loreta,
ditelo!... Era dunque morto.... era morto il vostro amore?
Ella allora, colle
labbra contratte da un tremito convulsivo, fiocamente, senza levare gli occhi,
rispose una sola parola:
- Sì. Ma egli non si
dette per vinto. Subito, senza esitanze, con una fiera convinzione, respinse
quella parola:
- Ah! non è vero! Non
può essere vero. Voi mentite, Loreta. C'è qualcosa che voi mi nascondete, che
vi obbliga a parlare così. Ma per l'amore di Dio, per l'amore nostro, io vi
supplico di non lasciarmi in questo dubbio.... Confessatemi il vero, Loreta.
Ditemi che cosa fu di voi dopo quei giorni. Ditemi perchè non avete cercato di
rivedermi....
Il conte, dicendo così,
l'aveva afferrata per le mani, e cogli occhi ardenti, colle guance soffuse di
un vivo rossore, ripeteva al suo orecchio con crescente emozione la stessa
incalzante richiesta:
- Ditemi, ditemi....
Ella allora,
bruscamente, come se una forza novella l'avesse ad un tratto soccorsa, si
svincolò da lui e sorgendo in piedi, col capo eretto energicamente, lo fissò
negli occhi.
- Basta, signor conte.
Quanto vi ho detto è vero. La vostra insistenza non è nè generosa nè bella....
Lasciatemi partire. Non vogliate prolungarmi ancora questa tortura....
Dinanzi all'atto
energico di Loreta, Alvise si arrestò come percosso da un singolare
sbigottimento. La parola, prima così ardita ed irruente, gli morì tra le
labbra. E immobile, con una perplessità angosciosa nelle pupille, fissò
intensamente la donna....
Il sole era ormai al
tramonto. In fondo, sulla curva dell'orizzonte, un rossore di porpora tingeva
il cielo. E un alito d'aria frizzante levavasi sulla campagna destando un
fruscìo lene di foglie per gli alti rami dei pioppi, che imboscano il colle di
Fontanabona.
Il silenzio era alto
tutto intorno. Il filo d'acqua del Çiton, sgorgando con una lucentezza
d'argento dalla roccia muscosa, faceva sentire il monotono suo gorgogliare tra
i sassi ed i cespugli, in mezzo a' quali si apriva la via.
- Loreta.... - mormorò
dopo qualche momento Alvise con accento di preghiera, come per riprendere il
discorso troncato.
Ma s'interruppe subito
vedendo come Loreta ad un improvviso scarpiccio su per il viale avesse
trasalito invitandolo col gesto a tacere.
Infatti un passo grave,
come d'uomo che cammini lentissimo, si avvicinava. La tortuosità del viale
impediva di distinguere ancora chi si avanzasse. Tuttavia, per un solo momento,
da una brevissima radura aperta tra i cespugli, sì Loreta che Alvise credettero
intravvedere una figura di uomo in abiti neri.
Loreta ebbe paura.
- Lasciatemi.... -
mormorò concitata. - Io scendo sola verso il villaggio.... Voi seguite la
strada del colle verso Fontanabona....
Egli le prese rapidissimamente
la mano:
- Ci rivedremo, Loreta?
- mormorò ansimante, mentr'ella già si staccava da lui, avviandosi.
Confusa, tremante e come
vinta per un attimo da quella incoscienza di tutto, che colpisce lo spirito
sotto la minaccia di uno stringente pericolo, ella si lasciò sfuggire una
parola di adesione, breve e sommessa come un sospiro:
- Sì.... sì....
E si separarono
frettolosi: Alvise prendendo la via verso il colmo del poggio, Loreta scendendo
alla pianura, ove il sentiero campestre raggiunge la strada maestra, che
attraversando Tricesimo conduce direttamente alla villa dei Sant'Angelo.
Dopo solo pochi momenti
Loreta s'imbattè nella persona che coi suoi passi aveva determinato la rapida
separazione di lei e d'Alvise. E fu con un senso di ripugnanza ch'ella
riconobbe nel solitario passeggiatore il pievano di Collalto, don Giovanni
Morganti. Secondo il suo costume il degno Prè Zuan se ne veniva
lentissimamente, col cilindro all'indietro, colle lucide guance vivamente
arrossate, col sigaro di Virginia all'angolo della bocca sdentata. Allo
scorgere la signora Sant'Angelo il vecchio prete trasse dalle labbra il sigaro
e, fissandola in viso coi suoi occhi insolenti, ebbe una curiosa smorfia, che
si sarebbe detta di ironia e di gioia al tempo stesso.
Loreta passò rapida
oltre. E il prete allora, lanciatale dietro un'altra occhiata, affrettò a sua
volta il passo curiosamente, mettendosi a fischiettare con aria di spavalderia
il ritornello allegro di una canzone popolare.
La Sant'Angelo era rientrata
agitatissima, in preda ad una eccitazione penosa, che per qualche momento ella
credette impossibile di poter nascondere o dominare. La coscienza della propria
agitazione era così piena in lei da farle credere inutile ogni tentativo per
mascherare più oltre al professore il vero stato dell'animo suo. La sua mente
le diceva che appena egli l'avrebbe veduta, il vero gli sarebbe stato palese.
Epperò nel varcare la soglia della casa, ella aveva provato un invincibile e
profondo timore. Ma il capriccio del caso parve venuto in suo soccorso. Il suo
incontro con Mattia fu ritardato da speciali circostanze: il professore era
stato trattenuto all'ufficio comunale di Tricesimo per certi urgenti ed
improvvisi interessi d'indole elettorale ed aveva lasciato detto che sarebbe
rientrato più tardi, anzi che non l'attendessero nemmeno. Il tempo così
intercorso giovò a rimettere l'animo di Loreta ed a riguadagnarle la calma
necessaria a coprire il suo turbamento.
Il Sant'Angelo ritornò
infatti assai tardi e, trovata la moglie che ancor l'attendeva per la cena, non
mancò di farle un gentile rimprovero per il disturbo dell'attesa, ch'ella, a
malgrado del suo avvertimento, s'era voluto procurare. Poi, poco appresso,
quando furono a tavola, Loreta notò subito come il consorte fosse tutt'altro che
del consueto umore: parlava poco, rannuvolato in viso, e la premurosa Vige
spendeva indarno le sue abitudinarie magnificazioni a' propri manicaretti, che
quella sera rimanevano proprio quasi intatti, con grandissima mortificazione al
suo orgoglio di abilissima cuoca.
Il professore, che ad
una timida interrogazione della moglie aveva accusato della propria
svogliatezza l'uggia delle molte brighe avute in quel pomeriggio, non potè
trattenere qualche segno d'impazienza anche quando la Vige, dopo avergli servito il bicchierino di vecchia acquavite, ch'egli prendeva sempre al
finire della cena, stimò opportuno, forse nell'intento di distrarlo dai suoi
foschi pensieri, di toccare un argomento, del quale s'era già parlato
moltissimo in casa Sant'Angelo. Si trattava della sparizione, che durava ormai
da più giorni, del fido terranova, prè Zuan. Il professore, avvertitone
subito, non vi aveva fatto da prima gran caso: tratto tratto quel vigile
guardiano, obbedendo chi sa mai a quale allegro desiderio di avventure, soleva
prendersi le sue brave vacanze, e di certi suoi lunghi vagabondaggi per le
campagne e sino ai più lontani villaggi s'eran fatti assai spesso tra i
contadini del luogo i commenti più faceti e più maliziosi. È vero che, questo
suo amore per le avventure, il povero prè Zuan fu replicatamente a un
pelo di pagarlo assai caro. Col nome che portava, di nemici non aveva difetto.
Il Morganti e i suoi accoliti una buona schioppettata, se l'avessero avuto a
tiro in qualche loro podere, sarebbero stati ben lieti di potergliela regalare:
anzi più volte gliel'avevano, senza tanti misteri, promessa. E se il valoroso
terranova era riuscito fino allora a salvare la sua pelle, non aveva per contro
saputo risparmiarsi più d'un matto colpo di randello e qualche brava sassata,
che l'avevano fatto tornare zoppicante e malconcio alla casa del padrone. Le
sue sparizioni duravan però assai poco: dopo un paio di giorni di baldoria si
era certi di vederlo ricomparire a un tratto, mogio mogio, con le orecchie
basse, quasi col timore di qualche castigo. E poichè questa volta la sua
scomparsa durava un tempo ben più lungo dell'ordinario, tutti in casa ne
avevano parlato più volte come di un fatto che suscitava una vera curiosità:
Agnul specialmente, che pel vecchio cane aveva un affetto grandissimo.
Ora quella mattina una
ragazza di Collalto, capitata a trovare la Vige con cui eran da lungo amiche, le aveva, tra le molte storielle del suo villaggio, narrata pur quella di un
magnifico tiro, che un certo suo parente, colono del prete Morganti, furbo
trincato e maestro insuperabile di burle, aveva fatto un paio di giorni
innanzi, e questa volta non già col proposito di prendersi uno spasso, ma con
quello assai più positivo di ingraziarsi il padrone, il quale - diceva lei -
era un ministro del Signore, degno certo di tutto il rispetto, ma duro co' suoi
contadini assai peggio di un sasso. Il tiro, soggiungeva la donnetta, senza
immaginarsi mai più quanto la cosa toccasse i Sant'Angelo, era stato giocato
nel modo il più comico, tanto che in paese non rifinivano dal farne le più
matte risate. Si trattava, figurarsi!, di un vecchio cagnaccio, al quale uno
"spregiudicato" aveva avuto la faccia fresca d'imporre per ischerno
il nome stesso del signor pievano!... E al contadino - che dei debiti col prete
suo padrone ne aveva per disgrazia un grosso sacco e cercava sotto terra il
modo di renderselo paziente e buono - quando una bella mattina si trovò il
famoso cane che s'aggirava pel suo cortile.... immaginarsi se non parve un
regalo della provvidenza! Che fa? Panf! gli aggiusta prima un tal colpo di
pietra che per poco non lo lascia morto, e lo chiude quindi in un suo fienile,
giurando di fargli fare un digiuno così bello, da rimandarlo poi con tanto di
cestole fuori a quel "poco di buono, senza timor di Dio" che s'era
permesso di dare ad una simile bestiaccia niente di meno che un nome cristiano!
- E la ragazza, che a narrare cotesta storiella aveva adoperato un vero fiume
di parole, venne alla conclusione che il tiro era stato così destro e bene
ideato che il furbo suo autore poteva, senza tema di errare, ripromettersene
dal prete Morganti uno strappo da far epoca alla sua proverbiale
spilorceria....
La buona Vige,
chiacchierina sempre, volle condire a sua volta questo racconto con una serie
di commenti così prolissi e con un lusso talmente abbondante di digressioni,
che il professore, per quanto interessato dall'argomento, terminò per
infastidirsi, mandando al diavolo il prè Morganti, tutti coloro che gli
volevano bene e perfino la Vige, a cui, nel sentirlo a parlare in quel modo,
eran venuti lì per lì i lucciconi agli occhi.
Ma stette zitta, perchè
quando il professore era in quello stato, prudenza insegnava a non rifiatare ed
a lasciarlo in pace.
Del resto Mattia stesso,
appena finito quel racconto, accese il suo virginia, e salutata la moglie, che
diceva di volersi ritirare, uscì solo sulla spianata, dinanzi alla casa, per
fumare un poco tranquillamente.
"Tranquillamente"
- aveva detto così a Loreta nel lasciarla. Ma chi lo avesse veduto poco
appresso, allorchè si trovò solo, nel silenzio della notte, con la coscienza
d'essere al sicuro di ogni sguardo indiscreto, avrebbe compreso come quella
parola non fosse stata per nulla corrispondente alle condizioni dell'animo suo.
Sedutosi al posto consueto, presso alla balaustrata che guardava sui campi, il
professore aveva gittato con un senso di nausea il suo sigaro; poi, rialzata
l'ala del cappello sulla fronte, erasi raccolto il capo fra le palme, fissando
lo sguardo pensieroso sulla campagna nera e silente. La notte era cupa. Sul
cielo, dove correvano con la minaccia di un maltempo grosse nuvole scure,
luccicavano a tratti poche pallide stelle. Solo da lunge un lieve riflesso
rossastro lasciava indovinare, di là dalle macchie brune de' villaggi dormenti
e punteggiati ancora di qualche fievole lume, la città di Udine con le sue
strade ben rischiarate.
Il tempo passava e
Mattia restavasene immobile al suo posto. Era lì da un pezzo e pareva che
neppure si fosse accorto del silenzio che s'era fatto in quel mentre nell'interno
della casa. Sparecchiata la mensa e riordinata la cucina, la Vige aveva spento i lumi; nella camera della signora, al primo piano, il bagliore della
lampada di tra le persiane era sparito da molto tempo. Ma il professore non
pensava affatto a rientrare. Il pensiero ond'era dominato lo teneva così
tenacemente che il sentimento d'ogni altra cosa erasi estinto in lui. Ed era il
pensiero doloroso, che da più giorni lo torturava senza tregua. Il dubbio, da
lui respinto prima come insensato, s'era negli ultimi giorni, nelle ultime ore,
fatto a poco a poco sempre più acuto. E l'impotenza della difesa, subito, con
velocità fulminea, si presentò alla sua mente agitata. Quanto credulo prima,
diffidente a un tratto, era cominciato in lui un lavorio febbrile di idee, un
cozzo di mille supposizioni, da cui gli veniva una sofferenza insopportabile.
Non sapeva ancor nulla, non aveva raccolto ancora nessun indizio positivo, ma
pure il suo animo tremava in uno di quei tetri presentimenti; che nascono
talora da un nonnulla appena avvertito, ma che nessun ragionamento riesce a far
dileguare.
Il cielo intanto s'era
venuto sempre più oscurando: uno spiro molesto di vento faceva stormire gli
alberi intorno alla casa: per tre o quattro volte il guaìto lamentoso di un cane
risonò nella campagna. Il professore si scosse e tendendo l'orecchio a quella
voce sinistra, che rinnovavasi ancora con penosa insistenza nell'oscurità ormai
profonda, non potè schermirsi dal pensare al malurioso significato, che a tali
voci notturne suole attribuire la superstizione dominante tra quelle popozioni
agricole.
Lentamente, il
professore accingevasi a rientrare, quando di là dal cancello osservò
dischiudersi la porta dello stallaggio ed uscirne frettoloso, con una lanterna
accesa dondolante in mano, il piccolo famiglio Agnul. Con passo rapido egli
attraversò il cortile e in pochi momenti fu innanzi al padrone:
- Che c'è? Dove vai? -
chiese questi,
Agnul alzò la sua
lanterna a livello del capo e Mattia notò subito uno strano sbigottimento ne' lineamenti
del bravo ragazzo.
- Signor padrone, venivo
in cerca di lei. Mi immaginavo ch'Ella potesse essere ancor qui, come ogni
sera.... Non avrei potuto aspettare domani per dirle.... È una cosa tanto
curiosa....
- Ma via dunque, cosa è
stato?
- Prè Zuan....
- Ebbene?
- Povero prè Zuan!
È tornato.
Mattia non potè frenare
un gesto di noia: per quanto quella notizia gli facesse piacere, non
giustificava per fermo tutta la sollecitudine e il grande sbigottimento del
ragazzo.
- Ebbene.... tanto
meglio!
- Eh! sì, sarebbe
meglio.... Ma se vedesse in quale stato!... Ero andato a dare un'occhiata ai
cavalli come faccio ogni sera, poi stavo per recarmi a dormire, quando dalla
porta della stalla - dalla piccola porta che dà sulla campagna - odo un certo
rumore come di chi spingesse dal di fuori l'imposta, e poi, subito, due o tre
lamenti lunghi.... ma così tristi, proprio come di un uomo che chiamasse in
aiuto. Corsi subito a vedere e là, proprio sulla soglia, giacente in mezzo
all'erba, ho trovato il povero nostro prè Zuan.... Se sapesse che male
mi ha fatto a vederlo così! Magro, infangato, colla testa macchiata di sangue.
Chi sa mai da dove viene, chi l'ha conciato a questo modo e come ha fatto a
trascinarsi fin qui!... Lo portai dentro, lo distesi sulla paglia: mi guardava
con due occhi.... con due occhi che dicevano tante cose.... Ho paura, povero prè
Zuan, che questa volta non la scappa più!... Ma la cosa più strana
principia adesso.... Quando feci per levargli il collare che portava ancora,
notai subito un oggetto, che non capivo che fosse e che vi stava attaccato con
un pezzo di spago. Era un rotoletto di carta.... eccolo qui!
E si trasse dallo
sparato della camicia, aperta sul petto, un involtino che porse al professore.
Colpito dalla bizzarria
del fatto, il Sant'Angelo tolse vivamente di mano al ragazzo l'involto e dopo
averlo per un istante guardato al lume della lanterna, lo svoltò. Era un
foglietto di carta grossolana, piegato in doppio, e conteneva poche linee di
scritto a matita rossa con un grosso carattere contraffatto.
Sotto un notissimo
distico friulano, che allude salacemente alla cecità de' mariti vecchi, il nome
di Loreta e quello di Alvise Polverari si leggevano uniti in una frase
brutalmente accusatrice. Poi in chiusa poche parole, piene di velenoso livore,
contenevano un ammonimento, a lui stesso diretto, di aprire gli occhi "per
vedere anche lui quello che tutti gli altri avevan già veduto."
Quelle parole, lette
ansiosamente al lume tremulo della lanterna e che venivano proprio in quell'ora
a ribadirgli i suoi sospetti tormentosi, furono come tanti colpi di una lama
avvelenata nel cuore del Sant'Angelo. Non pensò alla mano nemica che le poteva
aver tracciate; non ebbe uno scatto d'ira contro gli autori presumibili di
quell'azione bassa e vigliacca: non sentì che una voce, la quale lo
riconfermava nei suoi dubbî e gli appalesava quella verità, contro la quale
s'era fin allora con tanta tenacia ribellato.
Barcollante, senza poter
articolare una parola, credendo di venir meno ad ogni passo, egli rientrò in
casa. Ma invece di salire alla sua camera per coricarsi, entrò al buio nello
studio, e colà, gittatosi a sedere nella sua poltrona e, abbandonato il capo
fra le braccia, si mise a piangere disperatamente, come un fanciullo.
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