XVIII.
La notte era già alta
quando il carrozzino della Sant'Angelo fu presso alla casa.
La Vige, la quale attendeva
inquietissima e s'era crucciata l'intero pomeriggio col rimorso d'essere stata
proprio lei la causa che la padrona si fosse esposta a quel malcapitato temporale,
era corsa ad incontrarla giù per lo stradone e appena le fu vicino cominciò,
con la verbosità che le era connaturata, una serie interminabile di
lamentazioni.
Loreta la lasciò dire,
rispondendo appena qualche monosillabo, pressochè senza porre attenzione a
tutto quello che la povera serva si credeva in obbligo di farle sapere. E
soltanto si scosse impressionata quando la Vige ebbe fatto cenno all'inquietudine nella quale s'era trovato al pari di lei il professore Mattia.
- È tornato? - chiese la
signora vivamente.
- Sì. Poco dopo il primo
acquazzone. In cinquanta minuti da Udine.... Una corsa! Quella brava Grigia....
mezza morta parea quando entrò nella stalla....
- Ha chiesto di me il
padrone?
- Più volte:
impazientissimo. Bisognava vederlo. Con tutta l'acqua che veniva giù era ogni
momento alla finestra aperta per guardare nella campagna.... Ah! eccolo.
Infatti in quel momento
il professore, chiamato egli pure dal rotolìo della carrozza, affacciavasi al
portone.
Al vederlo, una fiamma
subitanea s'accese sulle guance esangui di Loreta. Una debolezza la prese
impedendole di avanzare il passo. E nella mente le passò fulminea la visione di
ciò che forse l'attendeva tra poco, senza rimedio, quando ridotta ormai
incapace di ogni ulteriore simulazione, nulla avrebbe potuto più scongiurare il
momento temuto di una spiegazione decisiva tra lei e Mattia.
Ma da questa perplessità
angosciosa, durata appena un istante, ella fu tratta immediatamente
dall'accento con cui il professore le volgeva il suo saluto. Colpita dapprima
da quell'intonazione pacata, che nell'animo agitato da tanti timori le riusciva
pressochè inattesa, si sentì tosto rinfrancata. E al saluto di Mattia rispose
con sufficiente naturalezza riguadagnando a poco a poco lo spirito e
ricuperando, a mano a mano ch'egli le parlava, la propria sicurezza.
Il professore pareva
tranquillo: l'irritazione nervosa, che quella mattina aveva tradito in ogni suo
atto, sembrava svanita; solo permaneva nelle fattezze di lui come un'ombra di
stanchezza, che allo sguardo di Loreta non poteva sfuggire.
Tuttavia di quella calma
ella restò persuasa. E soltanto a un certo momento il dubbio le venne d'essere
indotta in errore, alla contrazione che apparve per un attimo nel volto di
Mattia, quand'ella ebbe detto dell'ospitalità trovata durante l'imperversare
del temporale nel palazzo Morò-Casabianca.
- Ah! - egli aveva
esclamato subito, - nel palazzo Morò!
Poi con una
interrogazione, fatta lentamente, cogliendo una frase del racconto udito:
- Per un'ora? - egli
disse.
- Sì.... per un'ora, -
rispose lei, macchinalmente, fissandolo come per iscoprire il recondito senso
di quella domanda.
Ma il discorso non ebbe
seguito. Un silenzio increscioso regnò quindi fra i due. Solo più tardi, al
momento che stavano per ritirarsi dopo la cena, il professore, levando d'un
tratto uno sguardo freddo e severo sopra la moglie, pronunciò con manifesta
intenzione queste parole, che la fecero trasalire:
- Domattina, molto per
tempo, debbo recarmi a Morò-Casabianca....
- A Morò? - ella chiese,
non riuscendo a nascondere il suo turbamento.
- A Morò, - egli ripetè
con un tenue sorriso. - Debbo vedere il conte Alvise, al più presto, per un ar-
gomento assai grave....
Dicendo così la fissava
negli occhi insistentemente, non perdendo ogni più piccolo suo movimento, con
una acutezza penetrante.
Ella ebbe paura.
- Assai grave? - chiese,
interdetta, con voce tremante.
Il professore si sforzò
a sorridere.
- No, non aver paura....
Affari.... affari! Non c'è altro. Non ci può, non ci deve essere altro!
E levatosi, lento, con
quel sorriso che gli increspava le labbra ancora, senz'aggiungere nulla di più,
si dispose a ritirarsi.
- Sono molto stanco.
Oggi è stato un giorno assai brutto. E finito però.... è finito anche questo.
Domani..., Sarà meglio forse domani....
Questa fu l'ultima cosa
che si dissero. Poscia il professore si ritirò nella sua stanza, ordinando che
lo svegliassero all'alba, infallibilmente.
La notte che Loreta
passò fu turbata da mille incubi affannosi. Sfinita dalle emozioni di quella
giornata, ora un nuovo dolore ancor più tormentoso s'era impossessato di lei.
La speranza estrema, che per un momento ella aveva nutrito dinanzi al contegno
calmo di Mattia, era vanita. Le parole tristi, ch'egli le aveva detto poco
prima di lasciarla, in quel breve colloquio concitato, ora le risorgevano al
pensiero, come ripetute da una voce interiore, implacabilmente, senza fine,
sinistre come la profezia di una grande sventura. Egli sapeva tutto: il
risveglio colpevole di quella passione ch'ella aveva creduto di poter dominare:
forse la debolezza suprema di quell'ultima ora: tutto ciò che ormai doveva
distruggere per sempre la pace della loro casa.... E domani, domani?...
Un sonno pesante
s'aggravò al fine sugli occhi di Loreta, trionfo della stanchezza fisica sull'eccitazione
tumultuosa del pensiero. Il giorno era già avanzato quand'ella uscì da quella
specie di sopore, attraversato da torbide visioni. Levatasi subito, s'affrettò
a discendere, ansiosa di vedere suo marito, quasi sedotta dall'idea che forse
vedendolo o parlandogli avrebbe potuto persuadere sè stessa d'essersi troppo
irragionevolmente abbandonata alle esagerate allucinazioni d'un sogno febbrile.
Ma il Sant'Angelo era già partito. Ad Agnul, che l'aveva chiamato per tempo,
disse che nella mattina si sarebbe recato a Morò-Casabianca. Poi, senza
prendere nulla, rifiutando persino la tazza di caffè nero, che la Vige gli aveva apprestato, s'era messo per la via delle campagne, solo.
- Il padrone deve aver
qualche gran brutto pensiero per il capo! - aveva detto quella mattina la Vige alla signora Sant'Angelo. - È da un pezzo che non è più lo stesso. Quando lo guardo, mi
par tornato al tempo che la povera padrona vecchia stava male. Era tal quale,
allora. Poi.... poi, è stata lei, signora, a far tornare la consolazione. E
bisogna che faccia presto lo stesso, anche ora. Che vita sarebbe, se
continuasse così.... Che vita!
Loreta tacque. Ma
un'onda novella di sconforto le corse al cuore al suono di quelle parole, che
nella rozza loro semplicità, pur sulle labbra di quella povera serva, ignorante
di tutto ed inspirata unicamente da un cieco sentimento di devozione,
chiudevano un sì grande significato.
Far tornare la
consolazione in quella casa - ancora una volta - ora? No, non era più
possibile: tutto era ormai finito: tutto ormai era deciso!... "Che vita
sarebbe se dovesse continuare così?" La domanda, che la vecchia domestica
fedele s'era fatta poco prima, ingenuamente, quasi ammettendo la lieta fidanza
che ogni nube dovesse dileguarsi tosto, avrebbe avuto una ben triste conferma.
Colle tempie addolorate
da una pulsazione violenta, lottando contro uno smarrimento, in cui le pareva
che le sue idee si confondessero senza nesso in una nebbia oscura, Loreta sentì
il bisogno di raccogliere tutte le sue facoltà per seguire col pensiero suo
marito, per indovinare quanto avveniva tra quei due uomini, laggiù, dove la
voce del presentimento le diceva che in quell'ora dovesse compiersi il fatto
decisivo della sua vita.
Ma per quanto Loreta
nell'agitazione del suo spirito immaginasse quanto si passava allora nell'animo
di Mattia, era ella ben lunge dal sapere a quale strazio quell'uomo generoso e
forte si trovava in preda e quale sforzo immane di volontà egli avesse durato
per mascherare in quegli ultimi giorni ciò che egli soffriva.
Al Sant'Angelo la verità
era apparsa di schianto, con evidenza inesorabile. La lettera infame, che una
mano nemica gli aveva fatto pervenire, non era stata che la conferma brutale
del dubbio, onde l'anima sua era avvelenata. Mille volte, nelle ore pensierose,
quando il suo spirito aveva piegato alla malsana evocazione delle previsioni
nere, a quel bisogno tirannico di sognare gli avvenimenti nefasti, il quale
sorge nell'anima dei felici quasi a rendere poi più inebbriante la preziosa
realità del benessere e della pace, mille volte aveva sognato con terrore ciò
che oggi vedeva sorgere con aspra verità dinanzi a' suoi occhi. Era il crollo
della sua felicità, l'annientamento crudele d'ogni sua gioia, la fine di tutto.
Le larve temute prendevano consistenza e forma. Le fantasime minacciose non
erano più la evocazione melanconica della sua mente turbata. Ogni illusione
sarebbe stata vana; qualunque rivolta, per quanto disperata, non avrebbe potuto
tornargli nulla di ciò ch'egli vedeva ormai irremissibilmente perduto. E nella
piena del suo dolore, pur nella prima crisi acutissima che gli aveva fatto
piangere le più tristi lagrime le quali possono sgorgare da un cuore
esulcerato, un pensiero solo non l'abbandonò mai, dominando con fredda lucidità
nella sua mente: lo stesso pensiero nel quale una volta aveva già così a lungo
esitato di cedere alla voce imperiosa del suo cuore, e di legare il proprio
destino a quello di Loreta....
Perchè s'era lasciato
vincere? perchè non aveva seguito quel primo istintivo consiglio della ragione,
che era giusto e previdente e nel quale sarebbe stata la sua salute!... Egli
era stato leale: a Loreta, nel giorno in cui la loro sorte si era decisa, aveva
detto con candida lealtà, per quale affliggente esitanza si fosse arrestata
tante volte sul suo labbro la confessione di quell'amore per cui egli viveva e
del quale rimproveravasi come di una follia; poi aveva ceduto, aveva creduto
che la virtù, la bontà dell'animo, le premure costanti, l'affetto diuturno -
fatti religione immutabile della casa - sarebbero bastati ad assicurargli per
sempre quella felicità che gli era apparsa come la meta radiosa d'ogni più
ardita e più lusinghiera sua aspirazione.
Ed ora il vero tornava:
la legge eterna della giovinezza, più forte dei doveri sociali, più forte
d'ogni legge umana, doveva necessariamente trionfare. Il segreto di Loreta,
ch'egli aveva sempre ignorato fin là, la stessa colpa del suo passato, ch'egli
aveva cancellato col perdono, gli si erano appalesati crudamente. Quell'uomo,
ignaro d'ogni raffinatezza mendace ed incredulo d'ogni inganno, aveva
ricostituito con ispietata divinazione la storia dell'amore di Loreta e
d'Alvise. La fede ch'egli aveva nutrito che quell'amore fosse morto per sempre,
e il sogno, lungamente accarezzato, che nell'animo di Loreta null'altro affetto
regnasse più se non quello ch'egli le aveva offerto con tanta appassionata
sincerità, svanivano insieme, in un punto solo.
E mentre col cuore in
orgasmo e colle vene ardenti egli chiedevasi a quale partito dovesse
appigliarsi; mentre un'impetuosa brama lo afferrava di rompere ogni dubbiezza e
di erigersi a tutore vigile e severo del suo onore o minacciato o forse già
offeso, egli pure non riusciva a difendersi da un dolore acutissimo nel pensare
alla crudeltà degli eventi che ora lo trascinavano, dopo tanta illusione di
pace, al più fiero combattimento, che anima umana potesse sopportare.
Poichè anche fra gli
spasimi della gelosia, sotto l'impulso del risentimento, non cancellavansi
dalla mente del professore tutte le ragioni d'affetto, che lo legavano per
diversi fatti, ma con pari strettezza, a Loreta e ad Alvise.
Loreta era stata il buon
genio della sua casa. Per qualunque volgere di eventi non poteva egli
dimenticare quanto quella donna avesse saputo fare per rendere men dolorose le
sofferenze, men triste l'ultimo periodo di vita, dell'adorata sua madre. In
quegli istanti terribili di scoramento, di esasperazione, era costretto a
pensare alle lunghe notti, durante quell'ultimo inverno sconsolato, vegliate
insieme a Loreta, accanto al capezzale della povera vecchia inferma; era
costretto a pensare al sorriso che la sofferente aveva sempre avuto, pur nelle
ore più crudeli del suo male, per la vigile e infaticata custode; nè aveva
dimenticato mai, mai, malgrado tutto, come la sua santa madre, poco prima di
abbandonarlo per sempre, avesse accomunato in un solo abbraccio, lui, figlio
devoto e rispettoso, e quella giovane buona, paziente, coraggiosa. Loreta da
quel momento gli era divenuta sacra: il suo affetto per lei si era, purificandosi,
fatto così forte ed intenso, che nulla avrebbe potuto distruggerlo mai più. E
in quell'affetto era rinato: per esso aveva egli avuto una serie d'anni senza
nubi, senza turbamenti, pieni di sole: anni rapidi, in cui la giovinezza pareva
tornata, in cui le speranze parevan risorte, in cui la vita gli era sembrata
ancora piena di allettative e di ebbrezze....
Ed Alvise? Se v'era
persona al mondo a cui il Sant'Angelo sarebbe stato lieto di poter mostrare,
anche col massimo sacrificio, la propria devozione, era quest'uomo, ultimo
erede di un nome, ch'egli era stato abituato a benedire fin dai primi giorni
dell'infanzia: il figlio del patriotta esemplare, del generoso amico, alla cui
abnegazione egli doveva la vita, la salvezza, le cure dolci e indimenticate del
padre suo. Il giorno, in cui l'aveva visto entrare, ospite inatteso nella sua
casa, era stato per lui una grande gioia di fratello ricordevole ed amoroso. E
quando ne' primi momenti del loro avvicinamento egli ebbe appreso dalle labbra
di Alvise la storia triste della giovinezza di lui, trascorsa così priva di
ogni gioia, in mezzo alle conseguenze dolorose lasciate nella famiglia desolata
dalla tragica morte di Gottardo Polverari, aveva egli sentito non solo
accrescersi quella riconoscenza alta e profonda, che i suoi vecchi gli avevano
inspirata come un dovere sacrosanto, ma s'era trovato avvinto istintivamente,
potentemente, da un nuovo sentimento di simpatia, di pietà, di amicizia per
quell'uomo sventurato che pareva venuto a ricordargli, in tutta la sua generosa
magnanimità, l'eroico sacrificio, pel quale gli era stato conservato suo padre.
In questa lotta
penosissima, in cui egli temeva di veder ad un tratto annientate le sue forze
intellettuali, il suo isolamento gli sembrò mille volte più pauroso. E subito
la mente gli corse, con desiderio ardentissimo, al solo vero amico ch'egli
avesse mai avuto: eguale sempre, nelle avversità e nel tempo felice: l'ottimo
don Letterio Prandina. Come in un altro incontro decisivo della sua vita, a lui
solo avrebbe potuto chiedere un consiglio ed un conforto: a lui, che pratico
nella dura scienza dei dolori umani, possedeva tanta rettitudine di giudizio e
tanta dolcezza di sentimenti.
Ed invero, laggiù tra le
pareti ospitali di quella casa, in cui tutto spirava come un alito benefico di
pace e tutto facea pensare all'esercizio costante di virtù pietose ed austere,
egli trovò ancora una volta l'amico desiderato, pronto, indulgente:
l'inestimabile amico dei giorni dolorosi. A lui egli aperse il suo cuore,
provando la voluttà refrigerante di poter dire alfine, senza freno di timori o
di vergogna, tutto ciò che s'era forzato a tener chiuso, sino a quel momento,
ne' più intimi penetrali dell'anima. Tra le braccia di quell'amico egli potè
trovare, dopo tanto tempo, il sollievo di piangere liberamente, non trattenuto
più dall'umiliante pensiero che quelle lagrime potessero essere giudicate come
segno d'animo debole e vile.
Da quel colloquio sortì
riconfortato. La crisi violenta di dolore, che il vecchio amico, antivedendone il
beneficio, aveva favorito colle sue parole amorevoli, gli era stata di un
immenso sollievo. Quell'uomo onesto, che anche dinanzi alla cruda evidenza de'
fatti forzavasi a scuotere le dubitanze altrui con l'ottimismo delle ipotesi
inspirate sempre ad una serena indulgenza, era riescito, se non ad illuderlo
ancora, certo a ricondurre il suo spirito ad una calma relativa. Venuto colà
con una fiera indecisione tenzonante nel cervello, ne usciva con un piano
prestabilito di condotta. Mentre da prima tutto gli era parso irrimediabilmente
perduto, ora un bagliore fioco di speranza veniva a rompere ancora la tenebria
luttuosa di cui si sentiva circondato. E forse quella sera, nelle parole dette
a sua moglie al momento che stavano per lasciarsi: "Oggi è stato un giorno
assai brutto. Domani.... Sarà meglio forse domani...." era un riflesso di
quel sentimento, che l'amico suo buono gli aveva saputo infondere.
Durante il cammino da
Tricesimo a Morò-Casabianca il Sant'Angelo aveva ripensato a tutte queste cose.
Deciso ad uscire, come il suo amico gli aveva consigliato, recisamente, da una
posizione insostenibile e falsa, che ogni ora trascorsa avrebbe reso più ardua
e più grave, egli si sentiva compenetrato dall'idea che quanto aveva stabilito
di fare stava nel suo diritto, ch'era in ciò la tutela sacra del suo onore, la
difesa legittima della sua felicità; e ciò nullameno a tratti gli sembrava che
le forze necessarie gli sarebbero mancate.
Aveva preso la strada
fra i campi, lunghissima, per raggiungere l'ora in cui potesse presentarsi al
palazzo senz'offesa de' voluti riguardi e senza dar ombra alla malignità, che
certo vigilava, allarmata. E più volte s'era dovuto arrestare côlto da una
repentina ambascia. A poca distanza da Morò-Casabianca, mentr'egli già
discerneva tra il verde del bosco, di là dalla linea gialla del Cormor, il
profilo bizzarro dell'antica fabbrica colle due torri tozze emergenti sul
caseggiato, una cantilena che usciva da un casolare solitario, intonata da una
voce muliebre in cadenza col battito secco della spola d'un telaio da tessere,
lo colpì nel cuore, con una trafittura acuta. La tessitrice invisibile cantava
lentamente, con profonda tristezza, la vecchia villotta paesana che gli era
notissima:
Oh!
denant di maridassi
Nome
rosis, nome flors,
E po dopo
maridadis
Nome
spinis e dolors.
Egli ricordò. Ricordò le
parole che quella stessa canzone gli aveva inspirate una notte non lontana,
sulla strada di Nimis, quand'egli credulo, felice, sicuro, piegavasi
all'orecchio della sua Loreta, appassionato come un amante, mormorandole un
complimento che era una carezza, una benedizione, l'espressione fervidissima
della riconoscenza ch'egli le doveva per la propria felicità invidiabile ed
invidiata: "Questa canzone?... Ebbene?.... chi meglio di noi può affermare
ch'essa è bugiarda!"
E adesso?...
Pochi minuti di poi il
fattore Beppo, accoltolo con la sua solita festosità cordialona, lo conduceva
al conte Alvise.
- Nella sala dei
quadri.... - aveva detto il vecchio fattore con quella specie di orgoglio, che
la rinomanza del palazzo affidato alle sue cure giustificava, - è sempre lì: ci
si trova tanto bene!
Alvise era infatti nella
sala dei quadri e quando Mattia Sant'Angelo entrò stava ordinando alcune carte
sulla scrivania posta presso uno de' grandi veroni, dov'era il busto marmoreo
di Sebastiano Morò.
Il professore ristette
con un involontario atto di titubanza presso alla soglia. Ma il conte subito
sorse in piedi e gli mosse incontro.
Benchè Alvise nel
compiere quest'atto cortese non avesse tradito il menomo imbarazzo, tuttavia
non isfuggì al Sant'Angelo il pallore straordinario del suo viso e
l'aggrottamento subitaneo della sua fronte quand'egli entrò nella camera.
- Professore, lei! È una
lieta sorpresa!
- L'ora è poco
dicevole.... mi deve perdonare.
- Che dice, professore!
Non permetto ch'Ella dica queste cose. Venga piuttosto qui e segga accanto a
me.
- La ringrazio.
Sedettero. E per un
momento rimasero tutti e due silenziosi, subendo un penoso imbarazzo, quasi
nella prescienza che quell'incontro, improntato sulle prime di così scambievole
cordialità, dovesse tramutarsi in una spiegazione per entrambi difficile e
dolorosa.
- Signor conte, - disse
pel primo il professore, - Ella deve essere sorpreso di vedermi qui a
quest'ora, senz'un annuncio, senza nulla che potesse farmi attendere.
- Mi è sempre grato il
vederla, professore. Tuttavia....
- Tuttavia Ella
comprende che dev'essere un grave motivo che mi conduce qui?
- Un motivo grave?
- Sì, conte. E se non
glielo avesse detto l'ora insolita.... Ella, che è esperto degli uomini e della
vita, l'avrebbe dovuto leggere in quel turbamento, che io so di non riuscire, a
malgrado di tutti i miei propositi, a dissimulare in questo momento.
- Non comprendo,
professore.
- È strano! - esclamò
Mattia amaramente. - Speravo mi potesse essere risparmiato il dolore di una
spiegazione.
- Una spiegazione?
- Sì. Poichè non è
possibile che Ella, conte, non mi intenda. Un suo sforzo di generosità, ora,
sarebbe vano. Non servirebbe ad ingannare nessuno.
- Ma io ripeto,
professore, che non la intendo. Tanto meno la intendo adesso, dopo queste
parole.
La voce di lui, dicendo
così, era leggermente alterata dall'emozione, ch'egli studiavasi di dominare.
- Mi comprenderà subito,
- disse allora Mattia con una certa risolutezza. - A lei, legga!
E tratta dalla tasca
interna dell'abito una carta, la porse al conte.
Questi la prese, la
spiegò, lesse. Era il foglio di carta grossolana, trovato due notti innanzi
legato al collare del Terranova ferito: la denuncia anonima, scritta con
velenosa acrimonia contro Loreta Sant'Angelo ed Alvise Polverari.
- Ebbene? - mormorò il
professore quando l'altro ebbe finito di leggere.
- Oh! - esclamò il conte
sgualcendo con indignazione il foglio, - una infame vigliaccheria!
- Sì, l'ho detto
anch'io: una vigliaccheria di persona nemica, una bassa vendetta suggerita
certo da vecchi rancori.... Ma che importa! Non è per giudicare questo atto
codardo che io sono qui....
- Ed allora? - chiese
Alvise lentamente, levando lo sguardo interrogatore in volto al Sant'Angelo.
Questi ebbe un momento
di esitanza. Poi riprese subito:
- Allora.... È per fare
innanzi tutto appello a quel sentimento, col quale io ho salutato la sua
presenza in casa mia come quella di un fratello. Poi.... È per dirle, conte,
con aperta schiettezza, quale battaglia si vada combattendo dentro di me.... Se
un giorno un sospetto aveva potuto farsi strada nel mio cuore, ho combattuto
con ogni mia forza per cacciarlo, per farlo tacere.... È venuto questo foglio
maledetto.... Non fui più padrone di me: non si ragiona più quando ci par di
veder crollare in un punto solo tutti i nostri affetti, tutti gli ideali nostri
più cari. Mi vedevo colpito in quello di più sacro che io avevo al mondo:
Loreta, la compagna adorata e stimata: Ella, conte Alvise, l'uomo a cui mi legano
tante memorie incancellabili di gratitudine e di reverenza! Se avessi potuto
darle il mio sangue, i miei beni, la vita, sarei stato pronto: sarebbero stati
nulla di fronte a quello che i Polverari hanno fatto per la famiglia mia.... Ma
il mio onore, l'aspirazione gelosa di tutta la mia esistenza!... Comprende ora
ciò che deve essersi agitato in me dopo la lettura di quella lettera infame?
Comprende la necessità alla quale obbedisco nel chiedere alla sua fede di
gentiluomo una franca dichiarazione, alla sua lealtà di amico una parola
sincera, che metta in fuga i miei dubbî e mi torni alla mia pace?...
Mentr'egli parlava ognor
più concitato, con l'irruenza d'un'emozione crescente, Alvise Polverari sentiva
farsi sempre più forte nel suo interiore quello sgomento strano che non l'aveva
più abbandonato dall'istante in cui Loreta, lasciandolo la sera innanzi, gli
aveva mormorato con tanto sentimento quella frase supplice e così eloquente:
"Ed ora, Alvise, siate forte ed abbiate pietà di me!"
Il male, ch'egli aveva
fatto con la sua comparsa in quella casa onorata e felice, gli appariva chiaro
alla vista: la debolezza, cui aveva ceduto e nella quale aveva trascinato pure
quella donna, sedotta dall'irresistibile miraggio del passato, gli risorgeva
ora al pensiero come un'ignobile colpa: la parola seria e cordiale dell'uomo
semplice ed onesto, che veniva a lui con tanta nobiltà di espansione a
difendere il proprio onore ed a tutelare la propria felicità e che, mentre
avrebbe avuto il diritto di erigersi a giudice implacabile, non sapeva
rinunciare ancora ad un estremo raggio di fede, al culto delle sue memorie
custodite come un pio retaggio nella sua anima intemerata - la parola di
quell'uomo generoso gli era penetrata nel cuore, acuta come il più duro dei
rimproveri, dolce come la più commovente delle preghiere.
Nell'ora del delirio, in
cui non aveva saputo più nulla, non aveva ascoltato più nulla, tranne la voce
irragionevole dell'istinto reclamante con fiero grido l'esaltamento supremo
dell'amore lungamente frenato, lungamente deluso, s'era egli lasciato già
sfuggire, alla povera donna languente sotto il fascino della sua parola
infocata, la promessa ch'egli sarebbe partito, che l'avrebbe ridonata alla sua
pace, che non avrebbe attentato più alla tranquillità in cui ella erasi
conseguito il diritto di continuare e fornire la sua travagliosa esistenza.
Sarebbe stato questo un
sacrificio immenso: la rinuncia a tutto: il distacco definitivo dalla parte
migliore della sua vita.
Ma se un'esitanza fino a
quell'ora era rimasta in lui; se, pensando al bene ch'egli perdeva, ancora
s'era affaticato a ricercare morbosamente con tutte le sottigliezze del suo
spirito, il modo di eludere la voce che l'ammoniva a non volere il male di
quella donna da lui così fortemente amata, ora, dinanzi al nobile contegno,
alla commovente bontà del Sant'Angelo si sentiva sopraffatto, novellamente,
come da una chiara perfetta nozione di ciò che ormai era il suo dovere
impreteribile, d'uomo di cuore e di gentiluomo.
Nel suo pensiero la
decisione di quello che avrebbe fatto s'era determinata nettamente; si sentiva
sicuro di sè, obbediente ad un impulso interamente sincero.
Tuttavia, benchè forte
di questa coscienza, Alvise cercò invano di darne manifestazione concreta con
una esplicita risposta al Sant'Angelo.
Ma il professore dopo
una breve pausa rinnovò con voce molto commossa la sua domanda:
- Ebbene, conte Alvise,
ebbene?
- Ebbene, professore....
Quando poco fa ho letto quelle brevi linee, che non so chi - un'anima certo
malvagia - le ha diretto, non ho saputo qualificarle altrimenti che come una
sozza vigliaccheria. Dopo quanto mi ha Ella detto adesso io non saprei più
trovare una parola atta a qualificare cotesta azione bassa ed infame. Ed ora,
di fronte ad un simile atto codardo dovrei scendere ad una giustificazione! No.
Ella non può domandarmelo ed io non lo farei. Questo solo le dico: che Ella si
renda conto del vero, dai fatti.... Fra poco, domani ancora, io partirò:
vissuto appena poche ore in un luogo, dove mi parve di aver trovato tanto sorriso
di amicizia e di simpatia, me ne allontano, come vuole la mia sorte, non ancor
paga di cospirare contro di me.... Andrò lunge ad aspettare la fine di questa
miserabile mia vita.... Non sarà lontana, per fortuna: lo sento e vi sono
preparato.... Ma così.... che cosa potrei io più farle di male? di quali timori
potrei io esserle ancora la causa?...
Il Polverari aveva detto
questo con una grande tristezza, forzandosi ad infondere alle sue parole, pur
pronunciate con palese pena, quell'accento di sincerità che induce ed afferma
in altri la fede.
Il Sant'Angelo fu scosso
dalla risposta, ma l'animo suo non ne restò persuaso.
- Ella partirà? -
domandò vivamente.
- Partirò, l'ho detto.
- Partirà.... per
riguardo a quello che si è parlato oggi fra noi?
- Anche per quello.
- E sta bene. Non mi
dovevo attendere meno dalla sua onestà. Peraltro ancora una domanda io debbo
farle, per la mia pace, per il mio bene.... Conte, può Ella giurarmi che tra
lei e Loreta non ci fu nulla nel passato?
- Non è una domanda
generosa ch'Ella mi fa ora.... Credevo che il mio contegno gliene avesse tolto
il diritto.
- Sarà vero. Ma io debbo
sapere: tutto sarebbe più atroce di questo dubbio.... Mi può Ella affermare sul
nome che ci è parimenti sacro.... sul nome di suo padre.... che non c'è stato
nulla nel passato fra Loreta e lei?
- Sul nome di mio padre?
Ne' lineamenti di lui
era l'espressione di una tremenda battaglia: colle mani nervose egli si
stringeva il petto che gli balzava ansimante: smarrito, egli aveva levato in
alto gli occhi lucenti come per chiedere un'ispirazione che venisse a
sorreggerlo in quell'arduo momento.
Finalmente obbedendo ad
una incoercibile esortazione della sua anima, scossa ogni riluttanza, con
un'alterezza energica che gli brillava nelle pupille, egli lasciò prorompere la
risposta, che l'altro ansiosamente attendeva, pendente dalle sue labbra:
- Ebbene, sì, è vero....
È vero! Io ho creduto che questo ricordo, morto ormai nel passato, le fosse
noto; ho creduto che la sua generosità l'avesse obbliato per sempre.... Poichè
così non è, è meglio confessarlo.... Al punto in cui oggi noi siamo tutto
potrebbe rendere, nella nostra vita, nella nostra pace, nelle nostre memorie,
più gravi quelle conseguenze, che coraggiosamente e onestamente dobbiamo
forzarci ad evitare.... È vero! Ci siamo incontrati nella giovinezza, ci siamo
amati coll'entusiamo di chi ha vent'anni, e non sa, e sfida la contrarietà
della sorte. Poi....
- Poi?
- Fummo divisi. Il
destino, avverso al nostro amore, ci volle separati per sempre.... Passarono
gli anni: non ci siamo rivisti mai più: di quell'antico sogno non restava che
una traccia dolorosa nel nostro pensiero, come la memoria di una illusione
svanita.... Ciò che avvenne di me, Ella lo sa. Loreta.... Se ebbe, per causa
mia, un'ora cattiva nella sua giovinezza, ella seppe riconquistarsi il diritto
alla felicità.... Fu sua sposa, fu amata, lo meritava.... Questo è tutto.
Ora....
- Ora? - domandò il
professore lentamente, con una grande severità di accento come avesse voluto
raccogliere in quell'unica parola tutto ciò che in quell'istante si agitava nel
suo cuore.
Alvise comprese; e
s'arrestò titubante.
Per quanto gli
ripugnasse di dover mentire, ne sentiva adesso la inoppugnabile necessità. Non
era una colpa il farlo, nè una bassezza. La stessa memoria del padre suo, che
l'altro aveva invocata, non ne avrebbe patito offesa.
Egli si posò la palma
sul petto e fissando in volto il Sant'Angelo, senza esitanze:
- Ora, - egli disse, -
se il caso ha voluto ricondurci uno di fronte all'altra, se anche per un solo
momento s'è potuta risvegliare in me la voce del passato.... Loreta non ha
rimprovero a farsi.... veruno!... Quello che oggi sia il mio dovere lo so ed
avrò la forza di compierlo. Questo le giuro, professore, per i ricordi che
uniscono le famiglie nostre; come le giuro che nulla mai sarà da me fatto per
attentare alla sua felicità.... Me lo crede?
Il professore lo guardò
intensamente.
- Sì, glielo credo! -
esclamò poi subito. - Guai se in questo momento non avessi una tal fede!
Il conte, pallidissimo,
affranto dalla violenza delle emozioni sostenute, gli tese la mano, quasi
richiedendo una conferma di queste parole.
Il Sant'Angelo allora,
sinceramente la prese e la strinse.
Ma Alvise Polverari al
tocco di quella mano leale, che s'abbandonava alla sua senza sospetti, come in
una attestazione fiduciosa di amicizia, provò un cordoglio profondo, di cui
sentiva che non avrebbe potuto liberarsi mai più.
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