XX.
L'autunno era giunto con
una grande malinconia di giornate nebbiose. Dalle feste d'Ognissanti una fredda
pioggerella cadeva senza tregua. Durante le sere, già divenute lunghissime, si
principiava a sentire il desiderio delle belle fiammate invernali. Una mattina,
dopo una nottata tempestosa in cui il vento aveva infuriato con molta veemenza,
le vette dentellate della Carnia erano apparse, lontano, bianche della prima
neve.
In questa profonda
tristezza delle cose, l'angoscia che stringeva in aspro modo l'animo di Loreta,
facevasi continuamente più fiera. Ormai ella non viveva più: la sua esistenza
si era mutata in un supplizio di tutte le ore: nessun conforto che la
sorreggesse, anzi ogni cosa cospirante a farle sentire più squallido il vuoto
che si era formato intorno a lei.
Spinta da un'amara
voluttà ella era costretta a riepilogare senza riposo nell'agitato suo spirito
la compassionevole storia della sua vita. E in quel confuso risvegliarsi delle
sensazioni passate il pensiero indugiavasi più a lungo e dolorosamente a
qualche speciale e più forte ricordo; come in un sogno ella rivedeva i verdi
viali, pieni di pace e di mistero, della villa d'Arsizzo: la figura dolce di
Bianca Polverari, ancor lì, bella, buona, colla parola dell'illusione sulle
labbra pallide: le sale cupe del vecchio palazzo di Verona: il profilo dolente
e severo di donna Laura, come le era apparso l'ultima volta: poi il tipo sereno
di Chiara Sant'Angelo, che logorata dal male le sorrideva ancora, indulgendo a
tutti i suoi falli, raccomandandole di essere lei la custode degli affetti nella
casa ch'ella doveva abbandonare.
Quindi, dileguate queste
larve, tornava inesorabile il pensiero della sua ingratitudine, della sua
debolezza, della menzogna, con cui ella ancora macchiavasi, momento per
momento, senza rossore, di fronte all'uomo clemente, che con un raro esempio di
bontà aveva tuttavia per lei la parola del perdono ed era condannato in causa
sua a perdere per sempre la sua felicità così a lungo agognata.
In questi momenti il
male, ch'ella faceva, le appariva senza confini. Ella comprendeva ciò che il
Sant'Angelo doveva soffrire. Sentiva come su di lei unicamente ricadesse la
colpa se quella nobile ed utile vita s'era piegata così fiaccamente. E nelle
sue veglie prolungate, sovvenendosi di certe frasi côlte sulle labbra di suo
marito, uno snervante sgomento s'impadroniva di lei. "Se non avessi
creduto che ciò possa essere - aveva egli detto parlando della sua fiducia
nell'obblio di ogni fatto trascorso - avrei preferito morire!" E
ripetendosi questa frase, ancora una larva sinistra le appariva, lugubremente,
così come le era apparsa una volta sotto la impressione funerea delle parole di
una povera vecchia visionaria: l'immagine di Sebastiano Morò, il gentiluomo
morto laggiù, tragicamente, pel suo amore tradito e pel suo onore offeso....
Ma dunque doveva ella
proprio concambiare i beneficî ricevuti, con la rovina finale di tutto in
quella casa, con la distruzione d'ogni letizia, e forse con la morte?
No, no, sarebbe stato
troppo. Gli innocenti non dovevano portare le conseguenze del peccato altrui.
Era lei la colpevole, era lei su cui pesava la responsabilità di tutto: doveva
essere lei pure la vittima: nessun altro, assolutamente.
E nella mestizia
opprimente di quelle notti già rigide, mentre per la campagna scrosciavano le
piogge diluviali e incombeva un silenzio greve sulla casa, l'idea sinistra di
finire, di finire per sempre, risolutamente, la sua vita disgraziata, le
s'imponeva ognor più vittoriosa. Succedeva nell'animo di lei lo stesso lavorìo
lento, invadente, dell'idea disperata e fatale, che le era nata, un'altra volta
in un giorno della giovinezza, là nella sua povera stanza in un villaggio
alpestre, quando aveva visto estinguersi l'ultimo raggio di fede, che ancora la
sosteneva.... Continuare a vivere così, con un amore colpevole non ispento
peranco nel segreto dell'anima, tradendo giorno per giorno la fiducia dell'uomo
cui doveva la sua riabilitazione, il nome rispettato, l'onore.... no, non
doveva: sarebbe stato turpe e vile. Finire, era meglio, era il suo dovere. Poi,
una volta sparita, sarebbe venuto l'obblìo, il perdono. Si perdona sempre a chi
sa scontare con animo forte il proprio peccato. Lei, voleva, era decisa, era
convinta che altro più non le restava a fare. Il torbido proposito s'era così
radicato profondamente nel suo pensiero, cancellandovi ogni altra idea,
infondendo in lei quasi un benefico sentimento di calma. E fu allora ch'ella
pensò all'ultimo dovere che le rimaneva da compiere: quello di far conoscere
all'uomo, ch'era stato il compagno fedele degli anni suoi più buoni, tutto ciò
ch'ella ancora nascondeva nel suo cuore, tutta la verità del suo peccato, le
ragioni forti e ineluttabili ond'ella era trascinata al divisamente estremo.
Chiusa nella sua camera, cogli occhi gonfî dal pianto, rattenendo i singhiozzi
che le spezzavano il petto, ella scrisse, sentendo di mettere tutta l'anima
nelle parole roventi, che le scorrevano dalla penna, una lunga lettera al
Sant'Angelo. Gli diceva tutto, si doleva di tutte le sofferenze che così
ingiustamente gli aveva portato, e, benedicendolo per la sua magnanimità
infinita, gli chiedeva perdono. Terminato il foglio non volle rileggerlo,
temendo di venir meno alla sua decisione: lo chiuse rapidamente, vi pose la
soprascritta con mano tremante; indi andò a riporre la lettera in un cassetto
della piccola scrivania ch'ella aveva nella sua stanza da dormire e nel quale
tenea raccolte molte sue care memorie. Colà il professore l'avrebbe trovata dopo,
certamente e presto.
Compiuto quest'atto
pressochè in modo inconsapevole, come guidata da un potere magnetico, le parve
che già ogni suo vincolo con la vita fosse spezzato. Gli occhi le si erano
fatti aridi, le tempie le ardevano come strette da un cerchio di fuoco: una
torpidezza plumbea era subentrata all'orgasmo che l'aveva tenuta fin poco prima;
e solo, in quella invadente atonia, un'acuta trafittura al petto, con uno
spesso rinnovellarsi, la richiamava alla coscienza del suo dolore.
La sera era venuta, una
sera umida e fredda, che con le folate impetuose del vento e col romoreggiare
della pioggia insistente facea presentire l'inverno vicino. In casa erano a
quell'ora le consuete faccende. Nell'ampia cucina, la Vige, intenta al gran focolare, apprestava la cena, mentre in giro, seduti sulle vecchie
panche addossate a' muri scintillanti di arnesi di rame, i famigli attendevano
fumando e ciarlando.
Guardandosi dal far
rumore, col passo vacillante, simile ad una sonnambula, Loreta uscì dalla sua
stanza, attraversò l'andito buio, si fermò un momento ad ascoltare l'allegro
vocìo che usciva dalla cucina illuminata; poi, più lungamente presso all'uscio
dello studio di Mattia. La porta era socchiusa: una lampada ardeva sulla
scrivania: potò vederlo. Sedeva, lontano dal tavolo, in una sedia a bracciuoli,
col mento sul petto, cogli occhi semichiusi, come in un dormiveglia. Le guance
di lui le parvero, alla debole luce che la lampada riverberava, ancor più
pallide del consueto: la sua fronte scavata di rughe profonde, piegavasi
stanca; vedendo com'egli appressava al volto replicatamente la destra, le
sembrò ch'egli vi tergesse delle lagrime.
Ella appoggiò estenuata
la fronte scottante allo spigolo dell'uscio e sentendo rinnovarsi con
accresciuto furore la trafittura lancinante al suo petto, represse, con isforzo
sovrumano, un gemito di sofferenza. Poi, come riprendendo ad un tratto la lena,
scese l'ultimo ramo di scale, traversò l'atrio buio, dischiuse la pesante
imposta del portone ed uscì all'aperto.
Una raffica di vento le
flagellò aspramente il volto. Non pioveva più. Ma l'aria era tagliente; il
cielo oscurissimo.
Dove andava? Che stava
per fare? Non lo sapeva ella stessa. Doveva andare lontano, in un luogo così
lontano, d'onde non avrebbe potuto tornare mai più. E nelle tenebre folte che
si addensavano intorno a lei, di là dalla macchia bruna del bosco, nel quale il
vento strepeva con sinistre voci, ella aveva come una visione vaga del torrente
Cormor, che scendea in quella stagione coi suoi flutti limacciosi, gonfio e
vorticoso, laggiù, a' piedi del palazzo Morò-Casabianca. Sì, laggiù, laggiù:
era una voce che la chiamava, la voce del destino cui non si resiste, la voce
annunciatrice della sua liberazione.
Sfinita, ansante, ella
si afferrò alle sbarre umide del cancello per dischiuderne il battente. Ma
questo resistè. Raccogliendo tutte le sue forze ella scosse un'altra volta, con
ambe le mani tremanti, i ferri, inutilmente. Madida la fronte di sudore,
digrignando i denti in un brivido di febbre e di rabbia, ella si ostinò ancora
in quello sforzo. Ma di repente, côlta da una nuova trafittura al petto, sentendo
un gran gelo diffondersi per tutta la persona, ella stese le braccia, e mentre
un breve grido soffocato le sfuggiva dalla gola, cadde riversa sul terreno
molle urtando col capo nelle sbarre del cancello.
Ella rimase colà, sola,
senz'alcun soccorso, per alcuni minuti. Intanto in casa la sua assenza era già
stata notata. La Vige, come avea terminato di apprestare la cena, erasi recata
alle stanze della padrona per avvertirla che tutto era pronto; indi,
meravigliata di non trovarla colà, era entrata nello studio, calcolando
ch'ella vi fosse in compagnia del professore. Ma poichè questi era solo, non
potè nascondere l'inquietudine che tosto le nacque, nel presentimento di un
fatto triste che stesse per sopravvenire. Mattia vide lo sbigottimento di lei:
la interrogò vivacemente ed appena ella ebbe borbottate tre o quattro parole
provò una stretta al cuore, subendo egli pure la sensazione che facea tremare
in quell'istante la povera donna. Nello stesso momento apparve all'uscio della
camera Agnul, bianco in viso, smarrito, chiamando con voce rotta dall'ansia: -
Presto, presto.... la signora.... venite, venite.... -
Mattia balzò in piedi e
di corsa seguì il ragazzo giù per le scale, oltre l'androne buio, all'aperto.
- Qui.... qui.... al
cancello! - mormorava Agnul precedendo rapidamente.
Colà riversa, colle
braccia distese, inerte sul suolo fangoso, trovarono Loreta.
Mattia, invaso dal
terrore, s'era gittato subito a ginocchio accanto a lei, sollevandole il capo,
cercando le sue mani. Ella era fredda, inanimata, con le pugna contratte come
in una convulsione dolorosa: solo, ad intervalli, un breve respiro le usciva
affannosamente dalle labbra. Il professore ebbe un lampo di speranza: viveva,
viveva!... e tosto, ringagliardito, con una slancio pieno di passione, sollevò
da solo fra le sue braccia il corpo di Loreta e, tenendola strettamente contro
il petto, la portò in casa.
Coricata nella sua
stanza, mentre si ricorreva premurosamente a tutti gli espedienti consigliati
dalla pratica domestica per simili casi, Agnul era corso al paese a cercarvi il
medico. Ma sia che il ragazzo non l'avesse subito trovato o che per qualche
altra ragione questi non potesse incontanente rendersi all'invito, si dovette
attendere prima del suo arrivo per oltre un'ora: tempo che parve, all'ansiosa
impazienza del Sant'Angelo, più lungo d'un secolo. Loreta, a malgrado avessero
tentato ogni mezzo per ricondurre il calore alle sue membra irrigidite, pareva
scossa continuamente da un brivido di freddo: chiusi sempre gli occhi, mentre
giù per le guance livide scendevano sempre le lagrime, ella, col capo bruno
affondato ne' guanciali, rimaneva immobile, senza conoscenza.
Mattia agitato,
fremente, smorto come un cadavere, non sapeva allontanarsi da lei. Curvo sul
letto, procurando di scaldare nelle sue mani le povere mani assiderate di lei,
spiava ansimante ogni suo movimento, tendendo l'orecchio ad ogni rumore giù nel
cortile, nella speranza che il medico finalmente arrivasse. Ma il tempo passava
e questi non compariva.
La Vige pallida anche lei, taciturna,
vedendosi impotente ad ogni soccorso, s'era messa accanto alla finestra a
spiare se tra la nebbia della notte, giù per lo stradone, comparissero alla
fine le lanterne del carrozzino. Ma nulla, nulla. Le tenebre intorno alla casa
parea la chiudessero in un isolamento sinistro. Sempre, nel silenzio grave
della camera, il respiro difficile che sfuggiva a irregolari intervalli di
mezzo alle labbra azzurrastre della signora.
Finalmente a un tratto
parve a Mattia che un leggero acquietamento intervenisse in lei. Le sue dita si
agitarono, come cercando un appoggio: un sospiro profondo le uscì dal petto.
- Loreta, Loreta.... -
egli la chiamò.
Lentissimamente ella
aperse gli occhi: con uno sguardo smarrito li girò intorno a sè, poi fissando
il professore, un'espressione di sgomento le si delineò nel viso.
- Loreta, Loreta! - egli
ripetè con una intonazione supplichevole, per chiamarla alla vita, alla
coscienza, accarezzandole il capo con una carezza soave come quella di una
madre.
Ella parve riconoscerlo:
parve riacquistare subito consapevolezza di tutto e con un impeto subitaneo
s'afferrò alle sue mani:
- Mattia, perdono,
perdono!...
- Non agitarti, non
parlare.... acquietati, Loreta.... Ella per un istante tacque, poi guardandolo
sempre con malinconica fissità:
- Mattia, Mattia, perchè
non mi hai lasciato morire? Io volevo morire.... Sarebbe stato tanto meglio se
tu mi avessi lasciato morire....
Egli ebbe un senso di
raccapriccio. Morire? Voleva morire? Ma dunque era vero ciò ch'egli aveva
sospettato?... Era sì grande il rimpianto di lei per l'amore perduto?...
Si chinò sul letto,
tremante, volendo ch'ella continuasse, ch'ella dicesse tutto, ch'ella gli
confermasse ancora una volta la temuta verità.... Ma ella sembrò venir meno
novamente: piegò con uno scatto repentino il viso contro il guanciale e, mentre
gli occhi le si richiudevano, ricominciò a tremare, scossa da uno spasimo
persistente.
Il medico venne. Esaminò
l'ammalata, fece molte domande a Mattia, alla Vige, poi rimase visibilmente
incerto. Ordinò qualche calmante, ghiaccio al capo: non poteva dir nulla,
bisognava attendere il domani: certo che lo stato della signora lasciava adito
a molte apprensioni: non lo nascose, per debito di franchezza, al professore:
tuttavia non si esagerasse nelle apprensioni. E promise di tornare al domani.
La notte, trascorsa in
una indicibile agitazione, non segnò alcun miglioramento. Il dottore, tornato
all'alba, appena gittato uno sguardo sulla sofferente, apparve conturbato.
Rinnovò il suo esame, con grande attenzione. Quindi, lasciate alcune
prescrizioni, che raccomandò di seguire con iscrupolosa esattezza, nell'uscire
con Mattia gli dichiarò di aver trovato l'ammalata in condizioni di molta
gravità: un'infiammazione degli organi respiratorî s'era manifestata con una gagliardìa
pressochè eccezionale, ma quello che più lo impensieriva era lo stato anormale
del cuore, che (egli non sapeva se per congenita predisposizione o per cause
efficienti del momento) presentava un'assai notevole irregolarità del suo
funzionamento.
- Ma dunque è un caso
disperato, dottore? - chiese trepidante il Sant'Angelo.
- Non si deve disperare
mai fino a che la scienza può esperimentare i suoi mezzi e fino a che -
soggiunse il medico con dolcezza - si è ancor giovani com'è la sua signora....
Il Sant'Angelo comprese
il fine pietoso di quelle parole; ne sentì riconoscenza, ma nessun affidamento
a sperare. Vedeva. Nell'immensa angoscia, ond'era divorato, sapeva di non
essere sotto l'impressione pessimista, propria a chi si vede minacciato nelle
cose più care: lo stato, in cui Loreta trovavasi, non lasciava, purtroppo,
adito ad illusioni.
Allora, ogni altra idea
dileguò dal suo spirito per lasciar luogo a quella del dovere: bisognava
disputare alla morte il trionfo: gli pareva, che se ad ottenere questa vittoria
fosse stato necessario un miracolo, egli avrebbe trovato le forze per
compierlo.
Ma le ore passavano e
passavano le giornate senza che alcun mutamento favorevole subentrasse nello
stato dell'ammalata. A malgrado di tutte le cure, che si moltiplicavano intorno
a lei con vigilante sollecitudine, il male progrediva nel suo corso fatale. Il
medico pareva scoraggito vedendo come la fierezza del morbo persistesse ribelle
a' mezzi più energici impiegati per domarlo. Lo stato di atonia perdurava costante
in Loreta: cogli occhi pesantemente chiusi e la faccia infiammata, pareva che
un'invincibile sonnolenza la tenesse: solo un respiro rantoloso, quasi rauco,
frammezzato a tratti da suoni inarticolati, che forse corrispondevano alle
torve visioni d'un sogno, continuavano a sfuggire dal suo petto.
- Che cosa sarà,
dottore, che cosa sarà?
Il medico confondevasi,
cercava delle frasi evasive, sperava in una crisi che poteva determinarsi nel
settimo giorno, affermava di aver trovato (e l'indicava come un indizio
favorevole) una tendenza migliorata nelle pulsazioni del cuore.
Ed una sera, alla
vigilia appunto del settimo giorno della malattia, così ansiosamente atteso, il
Sant'Angelo per un momento credette di veder verificate le previsioni del
medico e la speranza ch'egli nutriva così caldamente. Quasi d'improvviso Loreta
sembrò calmarsi, la sua respirazione si fece più regolare, il secco rossore che
le affocava la faccia parve attenuarsi fin quasi a scomparire. E ad un tratto
ella aperse gli occhi, lo vide, lo riconobbe, e con un rapido gesto lo chiamò a
sè. Egli avvicinò il volto a quello di lei, sorridendole, coll'animo diviso fra
la tema e la speranza. E fu allora che con voce malferma - una voce che a
Mattia sonò nuova, come quella di persona ignota, - ella con molto sforzo potè
profferire poche parole:
- Mattia.... vedi, la
morte, che io ho chiamato, sta per venire. La sento che viene.... Ma tu non
maledirmi quando saprai perchè ho desiderato la morte.... Ho voluto che tu
sapessi tutto.... Ho confessato tutto.... Vedrai: là.... là....
E colla mano pallida e
coll'occhio brillante di una strana luce indicò la scrivania tra le due
finestre.
Egli esitò.
Ma Loreta insistette
ancora, mentre le forze visibilmente le si venivano esaurendo:
- Là....
Egli comprese, andò al
tavolo, cercò fra gli oggetti sparsi, aperse uno o due cassetti; finalmente nel
piccolo tiretto, ove sapeva ch'ella conservava i suoi ricordi, trovò il piego
chiuso, colla soprascritta a suo nome.
Prese la lettera e d'uno
slancio tornò verso il letto.
- Perdonami, Mattia,
perdonami. Ho tanto sofferto....
Loreta non potè
proseguire. I suoi occhi si velarono, un singulto le troncò la voce, e ricadde
come prima in un sopore profondo.
Da questo ella non uscì
più. Il medico chiamato in fretta non potè dir nulla: il male continuava il suo
corso; la crisi, benchè sciaguratamente molti indizî negativi fossero già
apparsi, poteva tuttavia compiersi ancora, all'ultimo istante, in senso
favorevole.
La Vige cogli occhi pieni di
lagrime venne al padrone e con poche parole lo pregò di mandare qualcuno a
Udine perchè venisse don Letterio: pareva a lei, nella sua povera fede di
contadina, ch'egli avrebbe potuto con la sua presenza determinare un miracolo.
Il Sant'Angelo accondiscese immantinente, volle anzi che a malgrado dell'ora
tarda e del pessimo tempo il ragazzo partisse subito col carrozzino.
Mattia rimase poi solo
nella stanza dell'ammalata e abbandonato in una poltrona, con lo sguardo
intento nel suo viso sofferente, parea stesse scrutando se la crisi, di cui il medico
aveva forse per ingannarlo parlato, non accennasse con qualche lieve segno a
manifestarsi.
La serata era cruda.
Fuori, sulla campagna, il vento s'era levato con insolita furia. Seguendo il
consiglio del medico, un buon fuoco - il primo di quella invernata, che si
annunciava in così tetro modo - era stato acceso. E nella camera non era che
una fioca luce, piovente dalla lampada velata, e il bagliore rossastro che
gittava a intermittenze la fiammata del camino.
Immoto al suo posto, il
professore per lungo tempo non avea saputo staccare gli occhi da Loreta, poi ad
un tratto, quasi macchinalmente, cercò nella tasca del petto la lettera, che vi
aveva rapidamente deposta poco prima. E strettala per un istante fra le dita,
la lasciò subito cadere, come preso da un istintivo orrore, sul tavolo che gli
stava dinanzi.
Il tempo scorreva
lentissimo: sempre in quella stanza, ove ora l'atmosfera s'era fatta
caldissima, durava penoso il respiro greve dell'ammalata: fuori, intorno alla
villa isolata, sempre il rombo cupo del vento, che incalzava coll'avanzar della
notte.
E il professore, in
quell'ora lugubre, dinanzi a quel foglio ov'era l'ultima parola del segreto fra
lui e Loreta, la confessione estrema di tutto ciò che aveva deciso
irreparabilmente la perdita d'ogni suo bene, ebbe come una rapida visione di
tutto il passato: sentì, nel fondo dell'anima, risorgere tutta la lotta de'
suoi affetti. Egli ripensò alla crudeltà del destino che l'aveva gittato fra
quelle due anime, ancor legate da tanta tenacia di sentimenti, obbedienti
ancora ai richiami imperiosi de' ricordi e della giovinezza: ed anche ripensò,
con un'amarezza infinita, a tutto ciò onde egli era debitore ad Alvise
Polverari, a quanto egli doveva alla misera donna che ora moriva, che gli aveva
chiesto il suo perdono e ch'egli sentiva di amare ancora, sempre, immensamente.
Di nuovo i suoi sguardi
caddero sulla lettera chiusa: una curiosità acuta, ardente, s'impadronì di lui:
sapere tutto, subito, leggere confermato da lei stessa il fatto abbominevole,
ch'egli aveva presentito e per il quale ella moriva.
Ma mentre le mani
afferravano già il piego, egli ad un tratto s'arrestò, repentinamente, come se
un sentimento nuovo fosse venuto a mutare il corso de' suoi pensieri.
I suoi occhi, che
fissavansi ora assorti nel volto dell'ammalata, parvero accendersi d'un vivido
lampo: una profonda espressione di bontà si diffuse su tutti i suoi lineamenti.
Egli stette alcuni
istanti immobile, come porgendo ascolto ad una voce segreta, che venisse da
lontano, da un mondo migliore del nostro: la cara voce familiare, che nelle ore
più gravi della sua vita gli aveva parlato nell'anima la santa parola
dell'amore, della pietà, del perdono.
Col viso bagnato di
lagrime egli sorse in piedi e, presa con atto risoluto la lettera di Loreta, la
gittò vivamente tra le fiamme del camino.
Poi, subito, come
obbedendo a un violento impulso, egli cadde ginocchioni presso il letto,
piegando sulle coltri la sua povera testa canuta. E congiunte le palme, in un
risveglio inconscio e potente della fede appresa nel dolce tempo infantile,
quell'uomo forte, provato già tanto alla scuola della sventura, pregò
fervidamente, con tutte le forze del suo cuore, per la salvezza di Loreta.
Fine
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