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Alberto Boccardi
Il peccato di Loreta

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  • XI.
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XI.

 

La notizia del matrimonio di Mattia Sant'Angelo con sua cugina Loreta Lambertenghi si diffuse rapidamente nel paese.

Agli amici veri e provati - e Mattia ne aveva certo di molti - essa giunse oltremodo gradita. "Era tempo (dicevano i più) che quel benedetto professore provvedesse ai casi suoi. Dopo la morte di sua madre faceva pietà vederlo. Almeno adesso tornerà a vivere tranquillo!"

Fra coloro, che facili a credere alle calunnie avevan negli ultimi tempi malignato sul conto suo e gli avevano perfino mostrato un certo riserbo, non pochi furon quelli che nell'apprendere la novella si compiacquero di potersi riconoscere in errore. "Già non era possibile (dicevano questi col facile senno da poi ed obliando assai disinvoltamente le loro stesse mormorazioni) che a casa Sant'Angelo avessero luogo le storie che si sono narrate!"

Ma chi in questa occasione se la godette un mondo fu il bravo conte Mangilli, che per il primo potè portare la notizia in "pieno campo nemico" ed anzi al quartiere generale, avente, come si sa, la sua sede nel Caffè della Posta a Tricesimo.

Non che il Mangilli dentro di sè avesse potuto far tacere neppur allora le convinzioni, che aveva sempre avute in fatto di matrimoni. Celibatario impenitente, pensava con una certa soddisfazione che lui non si sarebbe  adattato giammai a quello che il Sant'Angelo faceva.  Ma sebbene attaccato con tanta fermezza alle sue teoriche, ammetteva questa volta volentieri l'eccezione; e poichè il suo amico s'era risolto a quel passo per la propria felicità e per farla in barba ai cattivi, ne aveva sincero piacere.

- Prè Zuan ha da mangiarsi le mani! - disse il conte al professore. - Un miracolo se dalla bile non gli piglia un accidente!

E capitò al Caffè di Tricesimo proprio in momento buono. Don Morganti era più rosso del solito: per farsi passare il malumore della disdetta, che quella sera lo perseguitava accanitamente al consueto tresette, aveva già asciugato tra partita e partita un bel numero di quartini della fresca e bionda birra che la piccola fabbrica di Ospedaletto fornisce ai paeselli del circondario. Col virginia tra i denti e gli occhiali sul nasone scarlatto, il prete, col corpo un po' abbandonato sulla scranna, disfogava la sua stizza contro le carte, tirando giù delle invettive tanto fatte, di cui però nessuno pensava a scandalezzarsi essendo ormai formata da un pezzo l'abitudine di udirne da quelle labbra di più marchiane ancora.

Il Mangilli approfittò per lasciar "scappare il razzo" di un breve intervallo prima della "bella" ossia della partita che doveva essere l'ultima della giornata e nella quale prè Zuan dichiarava che avrebbe salvato l'onore delle armi.

Ma il "razzo" del conte Nardin ebbe effetto sì grande che la "bella" non ebbe più luogo. E fu tale lo sbalordimento del prete, che meglio per lui se la giocata fallì, poichè diversamente per quella sera l'onore delle sue armi, anzichè essere salvo, avrebbe toccato per certo qualche altra vergognosissima disfatta.

Ci fu taluno della comitiva, che tanto per non essere obbligato a dover riconoscere come con quella notizia fosse tappata la bocca a tutti quanti, volle far dello spirito e tentò di volgere la cosa in burletta. Spirito grossolano e burletta ben poco comica, di cui i più risero a pena a fior di labbro, mentre il solo prè Zuan strizzando d'occhio ai vicini con intenzione furbesca pareva ne avesse gustato oltre misura la lepidezza. E poichè altro non poteva, mise fuori, lentamente, senza darsene l'aria, con un tono loiolesco di bonaccione ingenuo, una di quelle facili insinuazioni velenose, che la situazione quasi naturalmente gli suggeriva.

Senonchè il conte Leonardo, che, dopo l'effetto del suo razzo, ci teneva a mettere un altro po' di rumore in mezzo alla comitiva sì degnamente presieduta dal Morganti, lasciò andare sulla tavola un pugno così sonoro, che fe' saltare le carte e per poco non mandò in rovina bottiglie e bicchieri. E con un piglio che non lasciava luogo a troppi commenti, dichiarò che in sua presenza non tollerava a danno dell'amico chiacchiere di quel genere, le quali non potevano essere calcolate che come la prova di un basso ed impotente livore.

E poichè il conte accompagnava la vigoria de' suoi pugni e la risolutezza delle sue parole con certe occhiatacce da basilisco assai poco incoraggianti alle repliche, il prete, che con quell'orso non se l'era mai fatta, si ritrasse anche questa volta per il primo; e gli altri mogi, mogi, gli tennero dietro non senza procurar di ammansare il conte con qualche timida assicurazione che essi, dopotutto, col professore Sant'Angelo nè rancori, nè inimicizia non avevano mai avuto.

Naturalmente che lo sfogo de' malumori, contenuto allora in via di prudenza per il riguardo dovuto a quello spiritato del Mangilli, ebbe modo di compiersi in tutta la violenza, ne' giorni successivi, allorchè la combriccola del Caffè di Tricesimo potè trovarsi raccolta in camera charitatis.

Allora il prete ne tirò giù di cotte e di crude e, dopo aver esaurito i più grossi improperî del suo repertorio, conchiuse coll'affermare, compiacendosi nella parte d'uccellaccio di malaugurio, che già della famosa felicità del professore non dava due palanche bucate ed anzi era pronto a scommettere che in men d'un anno "se ne sarebbero viste delle belle."

E col tossico sulla bocca, ridendo verde, il pretaccio continuò per lunga pezza sul tono istesso, anche facendo presente come quello gli paresse proprio il caso di preparare al Sant'Angelo una sonorissima sdrondenade, cioè quella serenata burlesca e fragorosa che per antica costumanza popolare, assai diffusa nelle campagne del Friuli, si fa a' vedovi quando vanno a nuove nozze e talvolta a' vecchi, che passano a matrimonio.

Ma don Morganti, a malgrado di tutte le sue astutissime manovre, restò questa volta con un pugno di mosche. All'ultimo momento anche coloro che per consueto si mantenevano fedeli nel fargli coro, gli defezionarono o con una scusa o con l'altra. Talchè il matrimonio del professore Sant'Angelo seguì fra le generali simpatie, senza che una sola nota discorde avesse in alcun modo turbata la serenità della festa.

Il matrimonio si fece alla chetichella: nelle prime ore del mattino, al duomo di Tricesimo, celebrando l'ottimo prè Letterio Prandina, venuto espressamente da Udine. Pochi amici si raccolsero poi in casa ad una bella refezione, ove si fecero degli allegri brindisi e si stapparono molte preziose bottiglie, dormenti già da varie decine d'anni sotto la polvere della cantina padronale. Poi gli sposi partirono per un breve viaggio a Venezia ed a Milano.

I pochi che assistettero alla cerimonia furono assediati da ogni parte da insistenti domande: come fosse la sposa, quale aspetto avesse avuto lo sposo e se ci fossero state delle "commozioni". La curiosità generale ebbe però pochissimo a godere. La cerimonia - tutti i presenti lo asserirono - procedette semplice, liscia, senza alcun particolare ad effetto. Una cosa soltanto era risultata chiarissima, anche a coloro che non l'avessero voluta vedere, ed era la felicità piena, manifesta, grandissima, dei due sposi.

Nè fu cotesta, vana apparenza. Il Sant'Angelo pareva rinato: nel breve volgere di pochi giorni si sarebbe detto che tutta la sua persona avesse subìto quasi un magico ringiovanimento: il sorriso, che da sì lungo tempo erasi spento sulle sue labbra, ora era riapparso mettendo un novello bagliore di vita nel suo volto sereno. Loreta sorrideva ella pure, senza parole, riconoscente  a quanti si congratulavano, levando tratto tratto gli occhi pensosi con intensa espressione di gratitudine in faccia al suo sposo.

Questo la gente vide e narrò con grande stizza di coloro che per tali fatti si rodevano nella loro astiosa impotenza. Ma ciò che avrebbe messo ben più duramente a prova gli invidi fu quello che la gente non vide e non potè narrare: l'espansione viva di reciproco affetto, che i due sposi ebbero, allorchè, terminate appena le formalità della cerimonia, si trovarono novamente soli, nella pace della loro casa.

- Vedi, Loreta, rimettendo ora il piede qui dentro, mi pare che tutto sia cambiato. Tutto mi pare più bello, tutto mi par più sorridente....

Queste furono le prime parole, che il professore disse a sua moglie, con una grande semplicità, e che pur nella dolcezza infinitamente amorosa del pensiero, non disdicevano per nulla sulle labbra di un uomo come lui, già sì lunge dalla lieta età degli amori.

Ed obbedendo a quella gentilezza d'animo che gli era connaturata, volle, per un affettuoso pregiudizio, che prima di partire andassero insieme alla stanza che fu di sua madre.

- Qui per la prima volta ti lasciai intendere il mio affetto. Ora è compiuto il voto della mia povera madre. Che il suo nome, Loreta, ci porti fortuna!

Egli aveva gli occhi, nel dir ciò, pieni di lagrime:

- Perdonami, sai; in questo sono sempre un ragazzo. Ma guai, guai per me se ora non credessi che il tuo amore durerà costante: è la mia vita.... è tutto....

Loreta non rispose: risposero per lei i suoi occhi in cui c'era una intensa, leale promessa, che Mattia comprese e dalla quale gli venne all'anima la più viva esultanza.

E Loreta non mentì.

Da quel giorno ella fu veramente la compagna buona, previdente, esemplare, che il professore aveva sognato. La vita loro - che dopo il non lungo viaggio a Venezia e a Milano riprese il suo andamento ordinato - scorreva per entrambi in una dolce serenità. Loreta tutta alle cose domestiche, attenta all'oculata amministrazione de' loro poderi, instancabile e premurosa, veniva citata nel paese, dai coloni, dai vicini, come un modello d'ottima massaia. Il professore, ora, con animo tranquillo, s'era rivolto a' suoi cari studî per lungo tempo negletti e attendendovi con molta lena era giunto al compimento della sua opera sulle Zecche friulane, che un operoso editore di Udine si accinse subito a pubblicare.

Così trascorse un anno, ne trascorsero due; e il tempo, passato senza turbamento alcuno, parve ad essi breve come un lampo. Il modo della loro vita semplicissimo e modesto li metteva in sicurezza contro quegli assalti della malignità, che quasi sempre muovono dalle altrui invidie. E il prete Morganti, che rammaricavasi tra sè d'essere stato così bugiardo profeta, evitava di parlare del suo nemico, mascherando sotto l'aspetto dell'indifferenza l'aspettazione impaziente del giorno per lui avventurato, in cui qualche grosso nuvolone venisse ad addensarsi sulla casa dei Sant'Angelo.

Però per quanto il pretaccio spiasse nell'ombra l'arrivo del temporale e ne affrettasse il momento coi più cocenti voti, tutto parea congiurare perchè i suoi pii desideri non avessero soddisfazione. Anzi troppo spesso, in cambio di quanto stava nelle sue speranze, gli toccava d'invelenirsi il sangue sempre di più, per le molte contentezze che ai Sant'Angelo capitavano e per il bene che diceasi di loro in tutto il paese.

E per vero eran sì nobili e frequenti gli atti di munificenza, che il professore, secondo l'antica tradizione della famiglia, esercitava, da conciliargli con la gratitudine de' beneficati la stima generale.

Cosi l'anniversario del suo matrimonio aveva egli voluto solennizzare con un'opera di carità tanto squisitamente pensata da doverne ottenere il plauso di tutti.

A Tricesimo mancava fino lì un asilo infantile regolato secondo le norme igieniche e didattiche, che si richiedono dalle esigenze odierne per siffatti istituti. Più e più volte il Comune, che pur provvede con lodevole larghezza alla scuola popolare, aveva progettato di aprire uno di questi stabilimenti desiderato vivissimamente da tutto il paese. Ma l'attuazione del progetto dovette essere sempre aggiornata per molte difficoltà, tra le quali non ultima la mancanza di adatti e corrispondenti locali.

Fu a questo che il Sant'Angelo volle provvedere offerendo al Municipio l'uso gratuito per un lungo numero d'anni d'una piccola casa ch'egli possedeva in capo al paese: la stessa casa dove tanti decenni innanzi i Sant'Angelo avevano cominciata la loro fortuna e dove qualche vecchio ricordava ancora l'antica caffetteria; in cui il nonno Sant'Angelo, col berretto di velluto e gli occhiali sul naso, recitava allegramente agli avventori le sue gustose strofette dialettali.

Con quanto plauso quest'atto nobilissimo fosse accolto non è da dire. Ma il professore non volle saperne di ringraziamenti, nè tollerò che si facesse in quel proposito pubblicità alcuna. Al sindaco e agli assessori, che vennero a manifestargli la riconoscenza del Municipio, rispose con molta semplicità pregandoli che di quell'argomento non si facessero altre parole e sforzandosi a convincerli come a conti fatti la sua offerta si risolvesse in una cosa di ben esiguo valore.

I soliti brontoloni del Caffè della Posta, ebbero un bello stillarsi i cervelli per esercitare anche in questo caso la loro parte di denigratori sistematici. Essi di meglio non seppero trovare, se non l'affermazione che dopo tutto il professore non faceva certo un grande sacrificio col cedere quella sua "vecchia baracca" dove, in mancanza d'inquilini, ballavano da gran tempo i topi. Però queste buone lane dovettero smettere per forza anche coteste asserzioni, quando s'avvidero com'esse facevano manifestamente ai pugni col vero. Per l'autunno seguente quella ch'essi chiamavano la "vecchia baracca" era bella e pronta per accogliere i piccoli allievi. La casina, ridipinta a nuovo e convenientemente ridotta alla novella destinazione, aveva un aspetto pieno di gaiezza. Due belle sale spaziose e chiare s'aprivano sopra un piccolo giardino; e sulla facciata bianca a grosse lettere nere spiccava la scritta ancor fresca di colore: "Asilo infantile municipale."

Il professore e sua moglie a quei preparativi prendevano il massimo interesse. Loreta, ricordevole sempre del tempo passato come maestra in istituti di quel genere, si compiaceva di cooperare anche da parte sua con qualche consiglio. E fu lei stessa che, attendendosi la maestra già nominata dal Municipio, provvide volontariamente di persona a parecchie minute disposizioni inerenti all'apprestamento dell'asilo.

E mentre il Sant'Angelo, un po' tra gli studî, un po' con tali cure, vedeva trascorrere tranquille le sue giornate, un altro e grandissimo motivo di consolazione gli era offerto dall'incontro insperato che la sua opera sulle Zecche friulane veniva trovando. L'editore aveva fatto le cose a modo: il volume, stampato con molta diligenza e con copioso corredo di tavole, era riuscito magnifico e nel corso di pochi mesi aveva raggiunto una diffusione superiore di assai a quanto avvenga di solito per una monografia d'interesse più che altro provinciale. Un cenno di calorosa lode, che il Friedlaender ne fece nella Archeologische Zeitung di Stoccarda, ebbe per effetto che molti eruditi della Germania se ne interessarono. I maggiori Musei d'antichità d'Italia e dell'estero ne commisero degli esemplari. E il Valussi, in una brillante sua appendice nel Giornale di Udine, citando cotesti fatti, conchiudeva a giusto titolo coll'asserzione avere il Sant'Angelo compiuta un'opera che onorava veramente la scienza italiana.

Il modesto erudito, che intorno a quel lavoro aveva speso tanti anni di pazienti e costose indagini, esultava a questi elogi. Ma non è a descriversi la gioia intensa ch'egli provò quando un bel giorno, chiamato cortesemente dal prefetto della provincia in Udine, ebbe da lui la comunicazione che il ministro dell'istruzione pubblica, riconosciuta la sua benemerenza, aveva chiesto per lui la croce di cavaliere.

Raccontando a sua moglie e all'amico Mangilli l'emozione da lui provata a quella inattesa notizia, il buon professore affermava candidamente la sua contentezza. Nè, parlandone con altri, velò in modo alcuno cotesto suo sentimento.

- Sarebbe una stupida ipocrisia se volessi ostentare indifferenza. La croce che il mio re mi manda sarà per me il ricordo più caro del lavoro a cui ho dedicato tanti pensieri.

E con una allegrezza da bambino, con quella semplicità cara e nobile, che era in lui tanto bella, scherzava con Loreta.

- Vedrai che figurona farà adesso al dì dello Statuto il tuo povero vecchio con la croce al petto! Quel giorno la barba bianca sfigurerà assai meno. E prè Zuan se mi vede.... colla croce sul petto.... figurati che occhiatacce!

E prè Zuan, senza aspettare che venisse il dì dello Statuto e che il professore gli passasse accanto colla sua brava decorazione, si rodeva già allora allegramente dalla bile. L'antica pretesa ad archeologo, a cui ostinavasi ancora il Morganti, a ore perse, tra la messa e il tresette, era stata la prima, la vera ragione dell'odio implacabile ch'egli covava contro il Sant'Angelo. Costretto cento volte a vedersi rinfacciati i madornali spropositi detti non solo, ma, quel ch'era peggio, stampati in qualche giornalucolo clericale della provincia: vistosi portar via dal professore per le sue collezioni parecchie anticaglie, su cui aveva posto l'occhio subodorando qualche buon commercio, ora le lodi della stampa e l'onorificenza che il Sant'Angelo aveva avuto, lo facevano addirittura uscir dalla pelle. Tanto, che incapace di contenere più a lungo il suo sdegno, se la pigliava con tutti: col governo, che regala a occhi chiusi titoli e croci al primo che capita; contro i "famosi liberaloni" che hanno ciò che vogliono; perfino contro il bravo Valussi, che almeno lui, giornalista vecchio ed onesto, avrebbe dovuto disdegnare di profondere a quel modo tante turibolate....

Il conte Nardin, che di tutte queste espettorazioni del prete ebbe notizia e che ormai provava un gusto matto - com'egli diceva - "a farlo ballare" pensò allora di prendere due piccioni ad una fava: dare una soddisfazione al Sant'Angelo e procurare all'altro un nuovo argomento di dispetto.

E per ottenere tale intento passò parola con alcuni membri del Municipio e con pochi altri fidati amici perchè nel giorno fissato per la inaugurazione dell'asilo, si improvvisasse una bella serenata al Sant'Angelo, con la banda comunale: sarebbe questa una dimostrazione di gratitudine per l'atto generoso da lui compiuto e in pari tempo un festeggiamento per la onorificenza da lui ricevuta.

La proposta del bravo conte fu accolta con grande trasporto. E tutto fu disposto assai bene senza che nulla ne trapelasse al festeggiato od alle persone a lui attinenti.

La sera di quella domenica in cui l'asilo fu inaugurato, a casa Sant'Angelo c'era un po' di festa. Intorno alla mensa, con pochi altri amici, sedeva il prè Letterio Prandina venuto da Udine a passare la giornata in campagna: sedeva il conte Nardin, che tratto tratto, facendo lo gnorri, gittava delle occhiate furtive fuor dal balcone, verso il paese, senza che alcuno sospettasse affatto a ciò ch'egli pensava.

E fu una sorpresa generale, proprio al momento in cui si sturavano certe vecchie bottiglie di moscato, l'udire lo scoppio di un'allegra musica a breve distanza dalla casa. Tutti balzarono in piedi e corsero alle finestre, curiosamente; e fu allora che si vide avanzarsi su per lo stradone in bell'ordine di marcia tutta la banda di Tricesimo, coi pennacchioni verdi alla bersagliera e un codazzo di gente dietro.

Quasi contemporaneamente entravano nella sala il sindaco ed altri cinque o sei signori del luogo; e al professore, che non capiva ancor nulla, spiegarono la ragione di quella improvvisata.

Inutile dire i ringraziamenti in cui il Sant'Angelo si profuse per quel pensiero gentilissimo. E inutile il descrivere l'allegria, con cui trascorse quella serata.

Bastarono i primi concenti della musica perchè da tutte le parti accorressero a frotte i contadini. E poichè il maestro, ritto in mezzo al circolo formato dalla sua banda nell'ampio cortile, attaccò sulla cornetta, ch'egli dirigendo suonava, una di quelle polche gioconde, che formano la delizia delle sagre paesane, si videro presto unirsi le coppie e principiare il ballo, animatissimo, caratteristico, colla calada, in cui i contadini del Friuli mettono una passione ed una grazia straordinaria.

Si ballò assai tardi, si fecero de' grandi evviva al Sant'Angelo, alla signora Loreta, a tutti, e si vuotarono due grossi barilotti del buon vinello asprognolo e leggiero, che i padroni di casa fecero portare nel mezzo del cortile affinchè ballerini e sonatori potessero di tratto in tratto rinfrescarsi la gola a ripigliar nuova lena per altre sonate ed altri balli.

Il Sant'Angelo fra tutti questi festeggiamenti era raggiante, non aveva più parole per ringraziare; stringeva le mani a tutti; voleva attribuire a tutti il merito della gentile affettuosa sorpresa.

E quando prè Letterio gli accennò con benevolenza a Loreta che affaccendatissima, rossa in viso, andava e veniva, intenta a far onore agli ospiti, il professore, volgendo verso di lei uno sguardo pieno di tenerezza:

- Sì, prè Letterio, - esclamò con accento profondamente sincero - non potrei essere più felice! È così grande la mia felicità, che quasi, ve lo giuro.... ho paura!...

 

 

 




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