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Alberto Boccardi
Il peccato di Loreta

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  • XVII.
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XVII.

 

Quando la mattina seguente Loreta si vide innanzi suo marito non potè reprimere un atto di sgomento, tanto le parve mutato e sofferente. Pallido, con gli occhi congestionati e con un tremore convulsivo, che gli contraeva le labbra ad ogni parola, tutto tradiva in lui una celata angoscia. E allorchè Loreta, trovatolo così nel suo studio, lo interrogò se si sentisse male, stette un istante perplesso, come côlto da un dubbio circa la vera significazione di quella domanda. Poi avendo ella insistito, sostenendo lo sguardo scrutatore ch'egli figgeva in lei, rispose seccamante con alcune frasi evasive:

- Sto male. Ti ho detto già ieri che mi sento un po' spossato. L'eccesso di lavoro in questi ultimi giorni....

Quindi vedendo com'ella accennava a soggiungere qualche parola, con fare un po' aspro ne la impedì:

- Non ho bisogno che di un poco di riposo. Lasciatemi stare: passerà.

Ma Loreta conosceva così bene l'animo di suo marito, ribelle ad ogni simulazione, che quelle parole, cercate con tanto stento e pronunciate con tanto sforzo, non potevano ingannarla. E poichè l'eccitazione vivissima, in cui ella stessa trovavasi, doveva di necessità farle apparire chiaro il vero motivo del turbamento di Mattia, ella pensò tosto con un senso di terrore, ch'egli avesse potuto già intuire di quale recondita lotta ella fosse in preda. Per un risveglio repentino d'onestà e di gratitudine, ogni altra riflessione tacque in quel momento in lei. Il pericolo a cui stava dappresso le balenò con piena evidenza. E con uno slancio, altrettanto pronto quanto sincero, si propose di uscire coraggiosamente da quella situazione. Conveniva non vedere più il Polverari: sottrarsi a tempo al fascino di cui pareva egli possedesse il segreto e contro il quale, come in un giorno lontano della giovinezza, ella sentiva già vacillare la propria volontà.

Penetrata della necessità di tradurre ad effetto questo divisamento, ella si tenne sicura di potervi riescire. Alvise l'avrebbe compresa e sarebbe stato costretto ad apprezzare il sentimento, al quale ella imponevasi di porgere ascolto. Era il dovere d'entrambi e bisognava compierlo senza esitanze.

Con l'anima tutta piena di questo pensiero, Loreta s'era chiusa nella sua camera e febbrilmente aveva cominciato una lettera per il conte Polverari. La penna le era corsa veloce per un intero foglietto, senza un pentimento, con quell'ardore di frasi che le veniva dalla sincerità del suo proposito. Era un appello energico al cuore di lui, alla sua bontà, al suo antico affetto: ed era in pari tempo un ultimo richiamo a quel passato, che doveva cancellarsi per sempre dalla loro memoria.

Ma a questo punto Loreta si arrestò. La mano, improvvisamente irrigidita, lasciò sfuggirsi la penna. E la signora, reclinato il capo, rimase con gli occhi immobilmente assorti nelle ultime parole da lei tracciate.

Dinanzi a quelle parole, che eran pure la ingenua confessione di quanto aveva sofferto per il suo amore infelice, uno scoraggiamento la invase paralizzandole d'un sol tratto le forze, dalle quali poco prima si sentiva sorretta. Nell'atto di dare così un addio decisivo al sogno della sua giovinezza, la poesia di quel sogno la riafferrava violentemente con una potenza nuova di seduzione.

In questo momento Loreta ebbe onta della propria fiacchezza. L'idea di trovarsi vinta le repugnò. Ma poi, persuasa ormai di non poter riprendere il dominio di so stessa, quasi si compiacque della riflessione, a poco a poco sôrta nel suo cervello, che il mezzo al quale aveva pensato di ricorrere fosse scelto con sì poca accortezza da dovervisi senz'altro rinunciare. Pensò a tutte le difficoltà, che avrebbe incontrato per far pervenire la lettera ad Alvise: si domandò quale contegno avrebbe egli tenuto dopo la lettura di quel foglio. Se, lunge dal piegare alla preghiera di lei, egli avesse voluto rivederla ancora? Se, come un giorno le aveva minacciato, fosse ricorso, pur di avere con lei una nuova spiegazione, ad un atto d'imprudenza?

Con una sùbita risoluzione Loreta balzò in piedi e lacerò la lettera. Indi, quasi con un senso di sollievo e con un rinnovamento d'animo, uscì dalla sua camera per tornare alle faccende di casa. Avrebbe trovato di meglio: il suo dovere l'avrebbe saputo compiere ad ogni modo.

In tutto quel giorno vide suo marito appena per brevi momenti. Pareva abbattutissimo; al pranzo scambiò con lei poche parole: di sera non volle prendere cibo e si mostrò d'umore così tetro, che a Loreta venne meno il coraggio di muovergli alcuna domanda.

La mattina appresso, subito dopo che il procaccia di Tricesimo gli ebbe rimesse le lettere, fe' chiamare il famiglio Agnul:

- Attaccherai la Grigia col carrozzino piccolo. Vado a Udine per affari e non tornerò che tardi questa sera....

Loreta, che aveva notato come il professore avesse cercato nel pacchetto della posta e percorsa con molto interesse una lettera, sulla cui soprascritta ella aveva riconosciuto il carattere grosso e malfermo di don Letterio Prandina, che sapeva da più tempo sofferente:

- Ti scrive Prè Letterio? - domandò al Sant'Angelo. - Sarebbe per caso aggravato?

- Sì, mi scrive. Sta molto meglio. Se sbrigo presto ciò che ho da fare.... alla prefettura e al municipio.... passerò un momento a salutarlo.

- Farai bene. Povero Prè Letterio, quello è un amico! Il professore la guardò in viso un istante. Poi con una lievissima intonazione di ironia:

- Quello.... sì! - rispose.

E poichè in quel momento Agnul veniva a dirgli che il carrozzino era pronto e se desiderava ch'egli venisse con lui:

- No, puoi restare, - soggiunse subito. - Forse la signora può aver bisogno di te. Se vuoi uscire.... colla carrozza....

Quindi volgendosi a Loreta:

- Uscirai oggi? - domandò con naturalezza.

- Non so.... forse. C'è la fiera a Moruzzo. Sai che s'era stabilito di andarvi.... Avevamo promesso alla Vige....

E siccome la Vige, che dalla porta della cucina aveva ascoltato il dialogo, avvicinavasi ora sorridendo, la signora accennò a lei benevolmente:

- È da un anno che predica perchè si vada proprio a questa fiera a comperarle le stoviglie nuove per la credenza.... Una sua fissazione..... Se il tempo si mantenesse bello....

La buona Vige a questo punto sarebbe stata ben lieta di poter mettere a sua volta quattro parolette nel discorso. Ma il professore non gliene lasciò modo:

- Bene, bene, bisogna accontentarla! - disse brevemente, con l'aria di chi comincia già a sentirsi infastidito.

Poi, scambiato un rapido saluto con la moglie, prese posto nel carrozzino e partì.

Durante la giornata Loreta stette a lungo indecisa. Ella pensava che non approfittando di quell'assenza di suo marito, difficilmente le sì sarebbe più offerta occasione di rivedere da sola a solo il Polverari, per potergli dire ciò ch'ella si era risolutamente fissato nell'animo. E ricordando come in presenza di lui si fosse ne' giorni antecedenti fatto cenno della loro andata alla fiera di Moruzzo, giudicò ch'egli, tenuto di ciò memoria, vi si sarebbe certamente recato egli pure. In quel luogo popoloso il loro incontro non poteva destare sospetti ed essi avrebbero avuto adito di parlarsi con tutta facilità anche lungamente, senza correre nessuno de' pericoli, ch'ella ravvisava in ogni altro modo di abboccamento. Le sue esitanze furono con ciò completamente vinte: anzi riconobbe come felicissima la combinazione che le si era presentata. Epperò verso le prime ore del pomeriggio die' ordine al ragazzo di apprestare la carrozza.

Il ragazzo a quell'ordine fe' un salto dalla consolazione. Era una delle sue grandi gioie quando poteva uscire con la signora. E così tutta quella mattina, attendendo ch'ella si decidesse, non aveva fatto che consultare il cielo, nel timore che una grossa nuvola, comparsa improvvisamente ad offuscare il sole, non fosso venuta a rovinargli ogni cosa. Ma questo pericolo per fortuna fu scongiurato e in pochi minuti Agnul si trovò lesto con la carrozza, così azzimato e liscio nel suo abito da festa che la Vige, uscita ad accompagnare la signora, non si tenne dal fargli i suoi complimenti, cui egli - bisogna dire anche questo - mostrò di accettare con molta modestia, ma non certo senza una visibile soddisfazione.

Contento come una pasqua il ragazzo con quattro belle schioccate di frusta mise a buon trotto il cavallino e lungo tutta la strada che da Tricesimo conduce a Moruzzo non lasciò di rivolgere alla signora ad ogni momento qualche domanda, non tanto per tenerla allegra, quanto per ottenerne, - ambiziosetto com'era, - almeno una parola di elogio per la propria abilità di valente auriga.

Loreta però non era in vena di discorrere: di quanto il ragazzo le veniva dicendo pareva accorgersi appena, tanto che l'ottimo Agnul, vedendola così persistentemente seria, finì egli stesso per sentirsi sfumare tutta la sua allegria di poco prima. Faceva egli ancora scoppiettare la sua frusta, ma adesso non era più in segno di letizia, anzi le frustate sul dorso del cavallino eransi fatte così rabbiose, che questo, se avesse potuto, non avrebbe certo mancato di protestare contro la immeritata parte che gli toccava, di servire di sfogo all'altrui malumore.

Poi, dopo circa un'ora di corsa, il tempo s'era venuto peggiorando. Il sole, che dal meriggio in poi aveva lottato vittoriosamente con l'addensarsi delle nubi, ora era sparito sotto un fitto velo di nebbia, che cacciata da un'aria frizzante si stendeva rapidamente pel cielo.

Il bravo Agnul, che come tutta la gente di campagna era pratico di queste sorprese del tempo, cominciò a guardarsi intorno impensierito. Egli sapeva come quel nebbione, che fumava ognora più fosco laggiù dai piedi delle Alpi, era sempre stato foriero di temporali. Ma poichè la signora nulla diceva, egli guardavasi bene dall'essere il primo a parlare. Mentre attraversavano i villaggi la gente guardava con un po' di sorpresa la carrozza dei Sant'Angelo che passava veloce a malgrado della minaccia del tempo. E quando, nel salire l'erta un po' faticosa che costeggia il palazzo Morò-Casabianca, il cavallo rallentò il passo, il fattore Beppo, uscito dal cortile al rumore delle ruote, s'avvicinò alla carrozza, per salutare la signora.

- Va a Moruzzo, contessina? - domandò garbatamente, col berretto in mano.

- Sì, a Moruzzo.

- C'è andato anche il signor conte Alvise. Ma mi pare che il tempo voglia farne una delle sue. C'è un buio laggiù dalla parte di Tarcento.... Sarebbe meglio tornare, contessina.

Loreta sorrise.

- Non ne indovinate mai una voialtri. Non sarà nulla. In meno di mezz'ora avremo il sole.

E la carrozza proseguì.

Ma non erano trascorsi dieci minuti che un improvviso incalzare del vento die' ragione a' consigli del vecchio fattore. Un polverone bianco, accecante, si sollevò sulla strada maestra, mentre in fondo all'orizzonte oscuro, di là dalla città di Udine, un rapido balenio rompeva a tratti con un solco rossastro la nuvolaglia bigia.

Lungo la strada vedevansi ora le contadine chiudere affrettate le finestre dei casolari e sbarrare le porte degli stallaggi. Dalla parte di Moruzzo scendevano di seguito numerosi carrozzini coi cavalli lanciati a gran trotto: molte donne e molti uomini coi canestri in capo e con fardelli in mano venivano frettolosi nel gran polverone, cacciati evidentemente dal campo della fiera, ove l'avvicinarsi del temporale aveva disertato il mercato e rotte le contrattazioni.

Il cavallo dei Sant'Angelo repentinamente s'arrestò recalcitrando, colle orecchie ritte, fiutando esso pure il maltempo.

Allora Agnul si risolse a parlare:

- Che si fa, signora? Il temporale viene. Torniamo?

Ella parve per un momento indecisa. Quell'aria acuta che le sferzava il volto, quella sorda minaccia della tempesta che pesava tutto intorno, le dava quasi un senso di ebbrezza.

Agnul timidamente ripetè la sua domanda.

Fu in questo momento che una carrozza, la quale scendeva dal paese, s'incrociò con quella dei Sant'Angelo. E tosto una voce: quella di Alvise Polverari, ordinò vibratamente al cocchiere di fermarsi.

Subito i cavalli si arrestarono e il conte Alvise, balzato a terra, s'affrettò premurosamente al carrozzino, in cui sedeva Loreta.

- Ella pure diretta a Moruzzo? Peccato, peccato!... Un vero contrattempo.... Avesse visto! Un fuggi-fuggi generale: lassù ormai non ci deve più essere anima viva.

- Infatti, - ella disse, - non c'è ormai proprio che il tempo di mettersi in salvo.

- Avrebbe in mente di rifare la strada?

- E come no! Da qui a Tricesimo....

- Da qui a Tricesimo c'è un'ora buona. Il temporale sta per iscoppiare. Sarebbe un'imprudenza. Guardi....

Ed egli tese la mano sotto le gocciole della pioggia, che già cominciavano a cadere grosse e lente. Indi con molta cortesia:

- Morò-Casabianca, - proseguì, - è a due passi. Io spero ch'Ella vorrà accettare una breve ospitalità. I temporali in questa stagione durano tanto poco.... Ma avventurarsi ora....

Loreta non potè schermirsi. Era così naturale che non opponesse un rifiuto a quella profferta gentile, che ella rinunciò subito a farlo, tanto più che Agnul, il quale, al pari di tutti i contadini di quelle campagne, coraggioso d'indole si faceva piccino piccino durante le tempeste, le veniva da un pezzo ammiccando perchè ella acconsentisse. Di quel contrattempo il ragazzo a conti fatti avrebbe trovato motivo di consolarsi: alla fattoria un bicchiere di quel buono non gli sarebbe mancato, poi, dopo sì lungo tempo, non gli spiaceva niente niente di rivedere la sua vecchia nonna Mariute, l'unica parente che gli restava ed alla quale voleva bene a malgrado vivessero già da tanti anni separati.

Le due carrozze procedettero a passo spedito di conserva verso il palazzo e in meno di dieci minuti entravano sotto la vôlta dell'androne dove il fattore Beppo e le sue figliuole stavano attendendo.

Il conte, che aveva aiutato Loreta a scendere dal carrozzino, ordinò rapidamente al fattore di provvedere ai cavalli; poi, con molto garbo, invitò la signora ad entrare. La pioggia in quel momento cominciava a cadere con uno scroscio torrenziale, e il vento cacciandosi con veemenza nell'androne fe' sbatacchiare violentemente tutte le imposte.

- Vede, signora, se avevo ragione quando le dicevo che sarebbe stata imprudenza il voler continuare la strada.

- Infatti! - ella rispose brevemente salendo lo scalone, preceduta da una delle figlie del fattore.

Poco appresso, licenziata la fanciulla, si trovarono soli nella sala dei quadri, che il conte Alvise, in quei brevi giorni da che durava la sua dimora al paese, aveva scelto nel palazzo a suo luogo preferito.

Loreta, entrata appena, si guardò intorno con curiosità. Ella riconobbe quella sala, ricordando il giorno in cui parecchi anni prima c'era venuta in un pomeriggio d'aprile con Mattia, la signora Chiara ed il conte Mangilli. Nulla v'era di mutato: sempre al loro posto gli antichi mobili di noce, coperti di broccato veneziano: sempre in alto sulle pareti le vecchie tele che eternavano colla bellezza delle loro linee il nome e la gloria di Bertrando da San Genesio, il patriarca-guerriero.

- Ah! qui? - ella chiese naturalmente.

- Qui.... è il luogo dove io passo quasi tutte le mie ore. Ho scelto questo per tante ragioni: prima di tutto le memorie, anzi le leggende, che vi si connettono; poi.... la splendida vista che vi si gode.

Ella guardò dagli ampî balconi. Ma la scena non era più quella che un giorno le si era affacciata, beata e sorridente, de' campi in festa. Una bruma bassa e folta addensavasi sopra l'intero paesaggio: nel letto del Cormor, fra le due rive rocciose, l'acqua alta e giallastra scrosciava con sordo rumore fuggendo sotto le sferzate violenti della pioggia. Da lunge il brontolìo del tuono prolungavasi cupo, mentre da tutti i villaggi della vallata giungeva il suono affrettato e insistente delle campane, col quale i contadini hanno la superstiziosa credenza di scongiurare il pericolo delle saette.

- Brutta sera! - disse Loreta a un tratto come obbedendo macchinalmente alla sensazione ch'ella provava nello spingere l'occhio per la campagna sconvolta.

- Brutta sera.... - esclamò dopo un'esitanza Alvise. - Per tutti, signora.... Per me solo, no, certamente.

E fissandola in volto con gli occhi lucenti, pareva volesse dirle con l'eloquenza dello sguardo quale profondo sentimento egli avesse inteso di celare sotto il velo di quella frase, che sonava in apparenza come un semplice madrigale.

Poi, subito, con grande effusione:

- Loreta, - mormorò, - non potete sapere con quanta ansietà io attendevo questo momento. Vi ricordate l'ultima volta che ci vedemmo.... sul colle di Fontanabona? Vi ricordate la parola che mi diceste nel lasciarci? Era la promessa di rivederci ancora. Ed oggi....

Detto ciò con voce commossa, egli s'arrestò per un breve momento:

- Se sapeste come mi sento ora felice! - soggiunse poi con impeto.

Ella lo guardò fissamente, come se quel linguaggio, che presupponeva in lei un'intenzione tanto diversa da quella ond'era animata, le fosse spiaciuto.

- Non dite così, conte. È vero che io vi ho dato promessa che ci saremmo riveduti. È pur vero che io stessa ho desiderato di potervi parlare. Ma....

- Ma?... - egli chiese ansiosamente, incoraggiandola a continuare.

- Ma - ella rispose con accento severo, - ritenevo che voi doveste immaginarvi quale poteva essere lo scopo, l'unico scopo, del nostro incontro....

Poi, dopo un breve silenzio, ella proseguì lentamente:

- Se è vero, Alvise, che voi mi avete amata e che in un'ora della vostra vita io fui qualche cosa per voi, saprete ascoltare la mia preghiera; poichè è una preghiera, Alvise, che io vi faccio con tutto il mio cuore.... Lasciatemi, andate lontano, non vogliate, dopo tutto quello che ho sofferto, farmi ancora del male. Io voglio, Alvise, che voi sappiate obbedire alla ragione; e se la mia parola non sa infondervi questa forza, voglio che la chiediate alla vostra coscienza di gentiluomo. Perchè vorreste turbare una casa onorata, distruggere quella felicità che io, dopo tante traversie, mi sono finalmente creata qui, nella stima e nell'affetto di un uomo onesto e buono?...

Egli ascoltò senza rispondere, agitatissimo.

- Mi parlate di doveri! - esclamò poi vibratamente. - È bello quello che voi fate ed io ne sento e ne apprezzo tutta la generosità. Ma voi credete che a questi doveri si possa obbedire con tanta abnegazione, senza che il cuore si ribelli, senza che nulla, nemmeno la sicurezza di essere stati amati veramente, ci conforti?

E poichè ella levava su lui in atto di interrogazione gli occhi, stupita di quell'ultima frase:

- Sì, - egli ripetè, - ho detto "senza la sicurezza di essere stati amati" perchè se voi, Loreta, in un tempo lontano mi aveste amato veramente, se mi aveste amato soltanto un poco, no, non avreste potuto parlarmi ora con la freddezza con cui mi parlaste....

- Io ho fatto il mio dovere, Alvise!

- Il vostro dovere! V'ho detto già che è virtù il saperlo  compiere: facile virtù per altro quando non si ama e non si è mai amato! E voi, Loreta, non mi amaste: tutto me lo fece comprendere nel passato e tutto me lo comprova anche adesso,...

Ella erse il capo fieramente, stringendo le labbra pallide, trafitta da quelle parole.

- Nel passato! - ella esclamò. - Dite voi questo? lo pensate? lo avete creduto? Lo avete creduto dopo tutto quello che mi avete fatto soffrire! Ah! Alvise, come non mi conoscete oggi e non sapete comprendermi nella lotta di questo momento, non mi avete compresa mai!

Ma egli sempre più animato insistette:

- Oh! Loreta, non mi sono ingannato, no, purtroppo per me, purtroppo per le mie illusioni, in tutto quello che ho pensato di voi. L'altro giorno vi dissi quanti dubbi hanno distrutto la mia pace dal momento in cui la sorte ci divise. I miei dubbi eran fondati. A chi non sa amare è ben facile l'oblìo!

Di smorta ch'ella era, Loreta a questo punto s'imporporò in viso, sotto un impeto violento d'indignazione. Il linguaggio scettico ed aspro di quell'uomo la offendeva nella parte più sensibile dell'anima. Era dunque cotesto il frutto del sacrificio ch'ella aveva fatto? era questo il premio della lotta che si era imposta per fuggirlo, per far tacere il proprio amore, per restar fedele ad un giuramento fatto quasi ad espiazione d'una sua colpa?

E le sovvenne in quel momento tutto quello ch'ella dovette passare: l'ultimo colloquio da lei avuto, laggiù, in una delle vecchie sale della villa d'Arsizzo con la madre del conte Alvise: le parve di rivedere dinanzi a sè la figura di quella donna, non più severa come chi è nel diritto di punire, ma umile e mite come chi implora una grazia: le rinacque vivo nello spirito il ricordo delle sue ore di stento, di miseria, di solitudine, passate talora baciando e bagnando di lagrime una scialba miniatura, il ritratto di Alvise, l'unica memoria portata con sè del tempo felice: finalmente pensò con terrore al giorno quando, stremata di forze e di coraggio, letto in un giornale la morte di Alvise in un paese lontano, volle finirla ella pure, chiedendo alla pace del nulla la sua liberazione.

E sotto l'impressione di tutte quelle immagini risorte dinanzi a lei tumultuosamente non resse più, si sentì soffocata, e dimenticando ogni altra cosa, irresistibilmente, non obbedì che al bisogno di difendersi, di respingere la taccia ch'egli le gittava in viso, di dirgli tutto:

- Non vi ho amato? Non ho fatto nulla per voi? Mi avete creduto un'anima incapace di ogni virtù e di ogni forza?... Ebbene, no, non è vero: vi ho amato intensamente, come si ama una volta sola, come non meritavate che vi amassi. Se vi ho fuggito, se non ho cercato di rivedervi era per obbedire ad una promessa che non potevo infrangere, che avevo fatto a vostra madre.... Se la mia miseria e la mia solitudine mi parvero più dolorose, era sempre per il pensiero che voi mi aveste dimenticata.... Il giorno che vi credetti morto mi lasciai trascinare io stessa a un passo disperato, obbliando tutto, obbliando la mia fede di cristiana.... Ah! Alvise, e questo non è amore?... Come foste ingiusto verso di me, Alvise! Come mi avete giudicata male!

Egli che l'aveva ascoltata interdetto, pendente dal suo labbro, colpito da quella rivelazione inattesa, come ella ebbe finito le afferrò appassionatamente le mani:

- Oh! Loreta, - esclamò subito, - come posso io dirvi la gioia immensa che voi mi avete recato con le vostre parole? Era questo che io voleva da voi: questo il supremo bene al quale io anelava!

Ma la donna, come se ad un tratto avesse riacquistata la coscienza di ciò che faceva, sciolse subito le proprie mani dalle mani ardenti di Alvise.

- Ah! che cosa mi avete fatto dire!... Lasciatemi, lasciatemi, Alvise!

- No, Loreta, non vi pentite della parola, che più forte di voi vi è sfuggita dal cuore. Sarebbe inutile ora: non potreste più togliermi la felicità che senza volerlo mi avete data! Il vostro amore, Loreta, il vostro amore.... È stata questa l'unica gioia della mia vita: è stato in esso il compendio di tutta la mia giovinezza. Tutto era morto con esso: non ebbi più nulla poi, nè un sorriso, nè una speranza, nulla. Comprendete ora il bene che mi avete fatto, Loreta.... lo comprendete?

- Il bene che vi ho fatto! - -ella ripetè lentamente. - No, Alvise. Sarebbe stato ben meglio se questo momento non fosse venuto. Per l'affetto che ci siamo portati un giorno, abbiamo sofferto entrambi abbastanza. Nell'incontrarci dopo tanti anni avremmo dovuto avere la fermezza di non ripensare più al passato. Voi, che siete uomo, che siete più forte di me, avreste dovuto darmene l'esempio; e quando avete visto vacillare quel coraggio che io mi ero imposta e che avevo ancor oggi varcando la soglia di questa casa, avreste dovuto sentire compassione di me, non trascinarmi a dire quello che in un momento di incoscienza ho detto....

- Loreta! - egli esclamò supplichevole perchè ella non continuasse.

- Tuttavia io non deploro la confessione che vi ho fatto. Ora sapete come vi ho amato.... sapete quanto per voi ho sofferto.... Ebbene, è in nome di questo amore che io vi rinnovo la mia preghiera, alla quale dovete porgere ascolto: lasciatemi, non turbate più la mia pace, dimentichiamo entrambi!...

- Lasciarvi? E lo dite da senno, Loreta! E lo stimate possibile?

- Esitereste?

- Lo chiedete! Dopo quanto mi avete confessato adesso, dopo questa beatitudine tanto agognata, potrei lasciarvi?... Ah! no. Questo non è nelle forze di un uomo. Non vedete, Loreta, non leggete negli occhi miei ciò ch'io provo?... In questo momento tutto ciò che è passato non esiste più per me: questa è stata la potenza grande delle vostre parole, che hanno tutto cancellato, che mi hanno in un minuto solo fatto dimenticare tutto ciò che è trascorso.... Loreta, è stato un brutto sogno il nostro: un sogno la nostra separazione, un sogno quello che abbiamo uno dell'altro creduto. Noi siamo tornati al tempo che credevamo non dovesse ritornare mai più: ai primi giorni del nostro amore.... vi ricordate, Loreta, laggiù alla villa d'Arsizzo: i dolci pensieri nostri, le nostre prime confidenze, i trepidi colloqui.... laggiù, coll'ansia di essere scoperti, dicendoci mille cose senza parlare, colle mani strette l'uno all'altra - così - nell'ombra verde del parco.... vi ricordate, vi ricordate?...

Egli parlava ora irruentemente, col volto presso il volto di lei in modo che il suo respiro infiammato le bruciava la fronte. Era nel suo accento tale una soave dolcezza, tale un'intonazione di preghiera e di passione a un tempo, ch'ella ad un tratto, come pervasa da una malìa per tutte le vene, chiuse gli occhi, debolmente, infiacchita.

- No, Alvise, no.

Ma egli non le lasciava più le mani, che aveva allacciate alle sue, tenacemente, in una stretta convulsa.

- No, Alvise, no.

- Loreta, pensate, pensate: sarebbe ben tristo da parte vostra il contendermi quest'ora felice che la sorte mi ha riserbato.... Sì, sì, partirò, se vorrete: tra pochi giorni fra me e voi sarà ancora una volta la lontananza infinita.... Ma oggi.... oggi.... L'oggi, Loreta, è mio, è nostro: nessuno può rubarmi questo momento di contentezza sublime ed insperata. Poi.... sarà quello che il destino ha segnato: sapete che i miei giorni sono contati, sapete quale condanna grava sopra di me.... Morirò presto. Ma non importa, Loreta: so che tu mi hai amato, so che ti amo.... supremamente, immensamente....

Dicendo così con voce rotta, quasi con un rantolo di gioia e di trasporto, le sue mani faceansi sempre più forti, stringendola in una stretta disperata.

- Loreta, Loreta!

Ella non vide più nulla: un velo grigio s'era steso dinanzi alle sue pupille: subitamente, come se tutto il suo sangue avesse cessato di scorrere, ella si sentì irrigidita, coi nervi paralizzati, fissi gli occhi estatici negli occhi deliranti di quell'uomo che la teneva in sua balìa, vinta, incapace di sprigionare più una parola od un grido dalle labbra frementi, ch'egli premeva ormai in un lungo ardentissimo bacio....

Da quel delirio soave a cui s'erano abbandonati e l'uno e l'altra quasi inconsciamente, cedendo al fiero impulso delle anime loro; da quella ebbrezza, colpevole ma divina, che era il trionfo ineluttabile della giovinezza, dell'amore rinascente, delle memorie risorgenti, si destarono entrambi con un turbamento amaro e doloroso. Rinato appena il dominio della ragione sulla febbre cieca dei sensi, e l'una e l'altro ripresero tosto la coscienza della loro posizione.

Loreta per la prima si riebbe da quello smarrimento: per la prima riascoltò la voce del dovere che elevavasi ora con un aspro rimprovero dal fondo del suo cuore.

Smorta al pari di un cadavere, colle guance rigate di lagrime, ella sciolse lentamente le sue mani da quelle di Alvise e senza parole si lasciò cadere in una delle ampie poltrone reclinando il capo affaticato.

Nella sala regnava un silenzio profondo. Di fuori la pioggia aveva cessato: sordamente un ultimo romore di tuono si perdeva nella lontananza e qualche pallido lampeggiamento rompeva ancora a lunghi intervalli le nubi cinerognole, che sfumavano lente sull'orizzonte di là dalle campagne allagate dall'acquazzone. Sotto i balconi del palazzo, scrosciando impetuoso fra le sponde soverchiate, mormorava colle sue gialle acque fangose il Cormor. Ancora, tratto tratto, qualche rintocco di campana giungeva fioco per l'aria commossa, dai villaggi lontani della montagna.

L'ombra di quel melanconico crepuscolo autunnale aveva ormai invasa la vasta sala. Sull'alto delle pareti le fosche pitture, in cui campeggiava la rossa figura del grande patriarca, investite gradatamente dall'oscurità, si faceano a poco a poco quasi indistinte. Solo di fronte a Loreta staccavasi nitido dallo sfondo bruno della parete il volto marmoreo di Sebastiano Morò-Casabianca. E come se ad un tratto un magico influsso fosse caduto su lei, Loreta fissò gli occhi in quella immagine candida, che parea la guardasse co' suoi occhi morti, con una strana espressione di tristezza diffusa nelle fattezze severe.

Immediatamente Loreta ripensò ai discorsi, che nel giorno lontano della sua prima visita al palazzo eransi fatti colà, ed alla storia, che vi aveva udita per la prima volta dalle labbra del Sant'Angelo, di quello sventurato gentiluomo.

Una sensazione di freddo le corse per le ossa e come presa da un folle terrore balzò in piedi, agitata.

- Ch'io parta, ch'io parta di qui.... subito, subito! - ella esclamò soffocatamente.

Alvise le si fece appresso e con affettuosa sollecitudine la chiamò per nome:

- Loreta....

Ma ella arretrò tosto, con un moto di repulsione:

- Lasciatemi! - disse risolutamente, incrociando le braccia sul petto. - Lasciatemi!

Egli rimase interdetto, fissandola, indovinando il pensiero che era in lei, invaso a sua volta da un malessere sinistro, che gli gelava la parola sul labbro.

Lentamente, senza dirsi più nulla, uscirono dalla sala e scesero lo scalone, rischiarato scialbamente dalla luce tremola che pioveva da una vecchia lanterna veneziana, accesa già sotto l'arcata ampia del vestibolo.

Nel cortile il cavallo era attaccato. Ma Agnul, il fattore Beppo e le figlie di lui unitamente ad altri contadini, trovavansi a qualche distanza, raccolti tutti insieme dinanzi all'uscio d'una delle piccole case coloniche, presso il quale, sopra un ceppo rovesciato, sedeva la vecchia nonna Mariute.

La vecchia parlava a lenta voce e pareva che tutti l'ascoltassero con profonda attenzione. Era generale nel paese l'abitudine di farle narrare per ispasso le solite storielle, ma per quanto tutti le conoscessero a memoria e sapessero pure come la povera ottuagenaria da molti anni non avesse più la sua ragione, finivano sempre per ascoltarla con un curioso interessamento.

Quella sera il solo Beppo pareva che, tanto per farla arrabbiare o per crescere il divertimento degli altri, si mostrasse incredulo di quanto ella veniva narrando, poichè appunto verso di lui ella rivolgevasi stizzosamente nel momento stesso in cui Loreta ed il conte uscivano dall'androne:

- Ridete, ridete voialtri! Ma io vi dico che il conte Sebastiano è tornato.... Torna sempre nelle sere come questa.... In una sera come questa si è ucciso lassù....

E tendeva il dito verso i veroni della sala, che Loreta e Alvise avevano lasciata, illuminati in quel momento dal rapido strisciare di un lampo.

Loreta a quel discorso, che già un'altra volta aveva udito con le stesse frasi dalla bocca della strana vecchia, si sentì riafferrata dal terrore di poco prima.

E nell'atto che saliva nel carrozzino, costretta a porgere la mano al Polverari, non gli disse che alcune poche parole, rapidamente, con accento di intensa preghiera:

- Ed ora.... Alvise, siate forte.... ed abbiate pietà di me!

 

 

 




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