Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
Lettura del testo

SCUOLA NORMALE FEMMINILE.

II.

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II.

 

 

La De Sanctis restava ritta nel suo banco, con le braccia piegate, la bocca ancora leggermente schiusa, gli occhi inebetiti, nella sua posizione di papagallino umano, che recita la lezione: giusto il professore di pedagogia l’aveva interrotta a metà, mentre ella schiccherava senza capirne nulla, le quattro leggi fondamentali dell’educazione. Infastidito da quel mormorio monotono e cretino, egli le aveva chiesto, improvvisamente, se intendesse bene la legge dell’armonia: e la poveretta era rimasta smarrita, muta, senza saper riprendere il filo, la macchinetta parlante si era arrestata. Estrada, il professore aveva fatto un piccolo cenno di disgusto e poi si era lanciato in una lunga spiegazione tutta letteraria, tutta poetica, dell’armonia nell’educazione. Faceva sempre così, Estrada. Era uno spirito superiore, più versatile che profondo, un parlatore brillante: e costretto dalla necessità a insegnare pedagogia alle ragazze del terzo corso egli disprezzava palesemente quell’incarico, e stesso che lo compiva. Già, dalla prima lezione dell’anno, aveva sbalordito le sue alunne spiegando loro l’inutilità della pedagogia: e quello scetticismo amabile persisteva in tutte le sue spiegazioni; a proposito di tutto, del metodo di lettura, dei sistemi froebelliani, a proposito di Pestalozza e di Ferrante Aporti, egli improvvisava un discorso brioso o sentimentale che partiva dalla pedagogia e arrivava chi sa dove a Goethe, a Pulcinella, a Beaumarchais. Estrada era ancora giovane: un bell’uomo dalle fedine bionde che appena si cominciavano a brizzolare, dal sorriso ironico, dalla voce vibrante. Estrada era amato da tutto un gruppo di alunne: Carmela Fiorillo, Ginevra Baracco, Alessandrina Fraccacreta, Carolina Mazza, perchè erano sentimentali anche loro, perchè quella parola calda, un po’ scomposta, un po’ paradossale, rompeva la monotonia affogante delle altre lezioni. Anzi si diceva che Teresa Ponzio la piccolina fosse innamorata morta del professore, si diceva che Teresa Ponzio gli scrivesse certe lettere infuocate, che aveva l’audacia di compiegare nel cómpito di pedagogia. Ma le studiose, Giuseppina Nobilone, De Sanctis, Cleofe Santaniello, Emilia Scoppa, Checchina Vetromile, non potendo seguirlo in quel vagabondaggio fiorito, sentendo di non sapere la pedagogia, sgomentandosi innanzi al programma dell’esame, odiavano questo professore poeta e pazzo, come esse dicevano: esse si stringevano nelle spalle ai suoi discorsi e studiavano da sole, nel testo, fingendo di non ascoltarlo. Solo Isabella Diaz, con la faccia devastata dalla malattia, con la parrucca roseo bruna, che discendeva sulla fronte, combatteva con Estrada, in nome della pedagogia; ella diceva la sua lezione con un senso così profondo di ragionamento, con tanta logica tranquilla, ella ripeteva i suoi argomenti con tanta insistenza di persona umile e pacata, ella riprendeva da lui il discorso con tanto buon senso, che egli finiva per lasciarla dire, ascoltandola pazientemente, con un sorriso beffardo, tanto quella brutta, orrenda ragazza, gli pareva l’incarnazione della pedagogia.

Ma quella mattina anche Isabella Diaz taceva, ascoltando Estrada: costui era passato dall’armonia educativa alla musica di Wagner, da Wagner alla leggenda di Lohengrin e di Elsa, da Elsa al mito di Psiche. Le sentimentali ascoltavano a bocca aperta, un po’ pallide, un po’ rosse esaltate dalla voce, dalle parole; dal senso palese e ascoso di quello che egli diceva; le studiose fingevano di leggere il testo o il manuale di aritmetica ma a poco a poco quel fiume di eloquenza vinceva anche loro, esse levavano il capo, attirate, quasi sedotte. Caterina Borrelli, che aveva delle tendenze letterarie, e le cui lettere d’amicizia ad Amelia Bozzo erano piene di retorica, crollava il capo come un uccello affascinato; Teresa Ponzio, l’innamorata del sole, beveva le parole di Estrada. Quando costui da Psiche passò a parlare dell’amore, le ultime restie, che ad ogni costo volevano una lezione di pedagogia, incantate della piega che prendeva il discorso, levarono il capo. Era commossa Cristiana De Donato, che aveva dovuto lasciare un tenorino, con cui cantava le romanze al Conservatorio, poichè ella aveva perso la voce ed egli era stato scritturato al teatro di Malta, il teatro dei dilettanti; a Carolina Mazza, che amava uno studente e n’era stata tradita, si sbiancava il volto; a Clementina Scapolatiello, che amava senza speranza il fidanzato di sua sorella, venivano le lagrime negli occhi; Luisetta Deste sorrideva con malizia, la piccola furba civettuola; Maria Valente che voleva bene a un cugino, senz’essere corrisposta, chinava il capo sulle mani. E su tutte quante, innamorate felici, o innamorate desiose di amore, o miserabili creature che non sarebbero mai state amate, scendeva un grande tremito nervoso: persino Pessenda, la piemontese poverissima destinata a insegnare in una scuola rurale di qualche villaggio perduto nelle Alpi, era tutta scossa; persino Isabella Diaz, coi suoi occhi senza ciglia e senza sopracciglia, con le labbra violette macchiate dalla febbre, stava come assurta in un sogno. E mentre tutta la classe era profondamente turbata, mentre il professore Estrada usciva, mentre Teresa Ponzo arrovesciava il capo indietro, come se svenisse, Giustina Marangio, la vipera, saltò sulla cattedra e scrisse a grandi caratteri sulla lavagna:

— L’amore è una grande bestialità.

 

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Mercanti, dite la parabola delle vergini stolte e delle vergini savie, — disse il professore di religione.

Mercanti si alzò un po’ straccamente, e un po’ ridendo, un po’ tossendo, mostrando i denti, a cui mancava proprio un incisivo, rispose:

Professore, sapete, stamane ho ascoltata la vostra messa.

Il pretonzolo Pagliuca, nero nero di faccia, con gli occhiali, sorrise come lusingato.

Dite la parabola... — insistette.

Professore, perchè dite la messa così ad alta voce? — domandò l’altra, un po’ sfacciatella, col viso pallido e gli occhi già troppo maliziosi.

Egli spiegò perchè, parlò della messa: le ragazze lo ascoltavano, ridacchiando fra loro. Era un pretarello tutto storto e bruno, che spiegando la lezione faceva una quantità di gesti ridicoli a proposito di Mosè o di Cristo. Le ragazze non lo potevano prendere sul serio.

Donnarumma, dite la parabola...

Professore, scusate, ho prima da esporre una difficoltà. È vero quello che dicono i miscredenti, che Gesù sia stato troppo indulgente, perdonando la Maddalena?

Egli fece una faccia scandolezzata sulla seggiola, marcò le sopracciglia e cercò di giustificare il perdono di Gesù alla Maddalena. Ma quelle fanciulle, certe specialmente, pareva non si convincessero, lo guardavano coi loro occhi furbi ed increduli: egli sentiva l’ironia di quegli sguardi, ci s’irritava, strillava che non era decente porre in dubbio i fatti della religione. Donnarumma, la grande giovanotta di Castellammare, dagli occhi di giovenca, un po’ confusa, disse la parabola: si vide alle spalle Carolina Mazza suggerirgliela tutta, leggendola nel libro. Ma fu peggio: quel racconto delle vergini, che aspettavano lo sposo colle lampade accese, per entrare con lui a fargli scorta, eccitava quelle curiosità, eccitava i commenti di quelle ragazze già grandi, alcune venute su dalla strada, che vedevano e sentivano tutto, il bene e il male.

Luisetta Deste, Artemisia Jacquinangelo, Concetta Stefanozzo, la Donnarumma, la Mercanti, la Mazza, il gruppo, così detto, delle spregiudicate, ci si divertivano assai alla lezione di religione: esse, le sfacciatelle, preparavano una quantità di domande insidiose per confondere il professore, per non recitare la lezione. Egli si lasciava prendere, restava un po’ interdetto a quei soggetti scabrosi e si ingarbugliava in una quantità di frasi; la classe intera era presa da un solletico di risa. Giusto, dopo la lezione di Estrada, era rimasto nella classe un gran soffio profano, una fantasia di visioni amorose, uno scuotimento di nervi: alla strana parabola delle vergini, che ha bisogno di un’altissima spiegazione mistica, le ragazze si guardavano fra loro con certi sorrisi pieni di sottintesi, ed era uno stirarsi di faccie per comprimere il riso, un sollevar di libri all’altezza delle labbra per nascondersi, un curvarsi sul banco come per cercare un oggetto. Il professore guardava, tutto insospettito con quel suo viso antipatico, cercava di afferrare qualche cosa in quel mormorio di risate che cresceva. Solo il gruppo delle sante, il gruppo mistico, le due sorelle Santaniello, Annina Casale, la Pessenda, la Scapolatiello, la Borrelli, Maria Valente, si mostravano severe e scandolezzate; queste ragazze o molto infelici o molto intelligenti o molto povere, erano prese da una dolce follia religiosa mal repressa. Ogni mattina si riunivano nella chiesa di Santa Chiara, prima di entrare in classe, e pregavano per un’ora; scrivevano su tutti i compiti le iniziali G. M., i nomi di Gesù e di Maria; si scambiavano rosari, amuleti, coroncine, immagini di santi colorate; ogni domenica, per la messa e pel vespero si davano convegno, ora in una chiesa, ora in un’altra; seguivano tutti i tridui, tutte le novene, tutti gli ottavari, nelle ore di libertà; scrivevano delle frasi religiose a margine del trattato di geografia e delle orazioni nei quaderni della geometria: si chiamavano sorelle, fra loro. Formavano il gruppo opposto alle spregiudicate e si disprezzavano a vicenda, le sante più taciturne e più indulgenti, le spregiudicate più ciarliere e più insolenti.

Isabella Diaz, dite la lezione di catechismo.

La bruttissima si levò e parlò dei sacramenti, pian piano, con quella poca voce che aveva, e un lieve tremito le faceva muovere le labbra; le mani giallastre, sempre un po’ umide, erravano sul banco. Del resto quella piccola figura scarna, dal seno piatto nel vestito vecchio, parlava dei sacramenti con tanta vera pietà, con una umiltà di interpretazione tanto cristiana, che le mistiche si erano rivolte ad ascoltarla, tutte intente. Il pretonzolo scuoteva il capo da destra a sinistra, come ad esprimere la soddisfazione scimmiottesca: e Isabella Diaz continuava a dire il velo di mistero in cui si avvolgevano i sacramenti e il senso che essi esprimevano. Ma al settimo, il matrimonio, le spregiudicate ricominciarono a mormorare, a ridacchiare, a urtarsi col gomito, a fare smorfie per non ridere, e la voce acuta di Luisetta Deste chiese:

Professore, scusate, che rappresenta misticamente il sacramento del matrimonio?

 

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Il direttore e professore di scienze fisiche e naturali, immerse la mano magra come quella di una donna nella urna-scatolina di cartone, e ne trasse un rotoletto di carta:

Judicone, — disse lui schiudendo il rotoletto.

La decuriona impallidì leggermente, ma cercò di ridere e si levò per dire la lezione.

— Venite sulla cattedra: spiegherete così la macchina praticamente.

Difatti la macchina di Atwood, lunga, sottile, complicata, tutta ottone ed acciaio, drizzava sulla cattedra la sua figura di piccola forca. Judicone vi si pose accanto grassa, grossa, con la sua bonaria faccia plenilunare, coi suoi fianchi larghi di madre futura, con la sua gola piena e bianca di matrona: e lentamente, cercò di chiarire alle compagne quel congegno difficile e delicato per cui si misurano le cadute dei gravi. Con la mano pienotta dall’indice teso, ella toccava le piccole leve, le ruoticine, i volantini, le mollette dentate; gli occhi di un dolce color d’olio, pregni di bontà, si fissavano intensamente su quell’ingranaggio metallico, come se volessero estrarne tutta la verità. Ma dopo tre o quattro minuti di spiegazione la voce si andò rallentando, la frase divenne stentata, le parole s’imbrogliarono, e Judicone restò taciturna colle braccia abbandonate lungo la persona, guardando la macchina, con gli occhi pieni di desiderio e di dolore. Non era arrivata neppure a descriverne una terza parte. Il professore si carezzava la barbetta bionda, con un moto nervoso che gli era abituale: e un po’ d’impazienza, un po’ di collera gli si ammassava nell’animo buono e paziente di uomo che ha vissuto. A questa importante ma difficile lezione della gravità, a queste leggi sulla caduta dei corpi, a questa indiavolata macchina di Atwood, la classe si era impuntata da una settimana, senza poter andare avanti, confusa, stordita, non intendendo più nulla. Già tre volte egli aveva rifatta lungamente la stessa lezione, applicando la teoria alla pratica, smontando il congegno pezzo per pezzo: aveva lasciata la macchina in classe perchè le alunne potessero esercitarvisi, analizzarla liberamente. Ma pareva tutto inutile. Senza dire nulla a Judicone, egli immerse la mano nell’urna e cavò fuori un altro nome: tutta la classe teneva gli occhi fissi su quel fatale rotoletto di carta, ognuna temeva per , la macchina di Atwood era troppo diabolica:

Cleofe Santaniello.

La piccolina intelligente, studiosa, lasciò il suo posto, dopo aver guardato un’ultima volta il proprio quaderno, dove la macchina era disegnata: Judicone tornò al suo, chinando la faccia nel registro per nascondere il rossore. Cleofe Santaniello contemplò un minuto la macchina, la tastò due o tre volte con la sua scarna mano di rachitica, e cominciò rapidamente, senza guardare in nessun posto, per paura d’imbrogliarsi. Andò bene per un pezzetto, ma disgraziatamente alla parola incudinetta anteriore, udì una voce lieve, quella di sua sorella Lidia sussurrarle in fretta posteriore, posteriore: Cleofe si arrestò, tremò, perdette il filo non potette più ricominciare, il suo male nervoso che le impediva di far bella figura in classe, mentre ella intendeva tutto e sapeva tutto, la riprese. Il professore la guardò un momento, così piccola e così meschina come era, forse per pietà non la sgridò, ma la licenziò con gli occhi.

Costanza Scalera, chiamata, si levò, con la sua aria composta di grande signora e dichiarò francamente che poteva dire tutta la teoria della legge, ma che non poteva fare la descrizione della macchina di Atwood: il direttore-professore si strinse nelle spalle. La bufera, silenziosa, cresceva: una immensa mortificazione scendeva su quelle fanciulle: esse provavano una vergogna immensa della loro stupidaggine, della loro inettezza. In fondo esse amavano molto quel direttore niente espansivo, ma giusto, parco di parole laudative, ma incapace di usar loro un cattivo trattamento; e avevano una grande soggezione di lui e avrebbero voluto contentarlo in tutto e le sue lezioni erano quelle che studiavano di più. Quale scorno, per la terza classe, alla quarta lezione non saperne ancora nulla, della legge sulla caduta dei gravi! E come passava il tempo, la vergogna e la confusione si dilatavano, crescevano: due o tre altre, salendo su quella cattedra, piazzandosi sotto quella piccola forca di metallo, perdettero la testa per un terrore ignoto, come ci si ammala per paura della malattia. La macchina di Atwood pareva s’ingrandisse, si elevasse sul loro capo, pareva che si moltiplicasse nel suo meccanismo di rotelline: ella pareva acquistasse un’anima, un’anima metallica e beffarda, che si rideva dei tormenti di quelle fanciulle: esse la guardavano come un mostro, spaventate. A un certo punto il direttore si fermò: vi fu un minuto profondo, lunghissimo, di silenzio. Poi, egli che non le sgridava mai, che non pronunciava una parola di biasimo, disse lentamente:

— Sono assai dolente di quello che accade.

L’effetto fu grandissimo, molte impallidirono; a Judicone che era tanto buona, scesero i lagrimoni per le guance; Cleofe Santaniello scoppiò a singhiozzare. L’onore della terza classe era umiliato. Mentre il direttore si alzava per andarsene, Checchina Vetromile che era una delle migliori, si alzò un po’ rossa, con la voce un po’ tremante:

Sentite, signor direttore, la colpa non è nostra, di nessuno altro. La lezione è difficoltosa, complicata: la studiamo da una settimana, senza arrivare a penetrarla. Abbiamo trascurato tutto il resto per questa tremenda macchina: forse abbiamo fatto peggio, perchè ci siamo instupidite a furia di ripetere venti volte la stessa cosa. Se volete, lasciamo per un poco la macchina e andiamo innanzi: la riprenderemo fra una settimana. Vi promettiamo di impararla magnificamente: posso parlare per tutta la classe.

Ma la impressione benefica e pacificatrice di queste parole che la bella e cara creatura aveva pronunciato, fu dissipata da una vocetta stridula che esclamò:

Parli per , Vetromile. Io so la lezione: se il professore vuole, io la posso dire.

Era Giustina Marangio, la fanciulla livida, dalle labbra sottili, dagli occhi bianchi. Una meraviglia dolorosa colpì le ragazze per quella defezione, per quel tradimento: lo stesso direttore aggrottò un po’ le sopracciglia, come infastidito. E Giustina Marangio salì prestamente sulla cattedra, guardò la macchina di Atwood, con un piglio beffardo; con la sua vocetta di lima stridente, senza fermarsi mai, senza sbagliare mai, descrisse quel sistema di ottone e di acciaio, minutamente, precisamente, non tralasciando nulla, applicando la teoria alla pratica, girando attorno alla forca, attaccandosi ai più piccoli pezzi di quel meccanismo.

Alla fine quando Giustina Marangio inclinò la macchina per mostrarla meglio alla classe, gli stese sopra il piccolo pugno chiuso, dall’indice teso, ella parve più forte e più malvagia di essa.

 

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Per la ricreazione la classe si era vuotata. Le convittrici erano andate a passeggiare in convitto: le esterne passeggiavano in quel corridoio-budello.

In tutto non vi erano che trenta minuti di ricreazione, da mezzogiorno alla mezza, per andare su e giù nella penombra, in fila di quattro o cinque o in coppia di due.

Qui le simpatie, le amicizie si pronunziavano, Amelia Bozzo era scappata via dal primo corso e passando innanzi a Caterina Borrelli, le aveva consegnato un biglietto: diceva: se non mi vuoi bene o impazzisco o muoio. Le sante, in fila, ancora tutte contrite dallo scandalo avvenuto durante la lezione di scienze naturali, cercarono di distrarsene, parlando della prossima settimana santa e delle commoventi funzioni religiose. Scapolatiello vantava la parrocchia dei sette dolori, Valente preferiva Santa Maria della Rotonda, Annina Casale teneva assai alla sua parrocchia della Madonna dell’Aiuto: Isabella Diaz, creatura orrenda, leggeva, camminando tutta sola, appena vedendoci in quella oscurità, un opuscolo religioso, intitolato: Fra cento anni, dove saremo?

Le zelanti, la Vetromile, Cleofe Santaniello, Giuseppina Nobilone, De Sanctis ripassavano, passeggiando, la lezione di aritmetica, gli ultimi teoremi della radice quadrata; il professore De Vincentis, doveva venire dalla una e mezza alle tre, l’ultima lezione. Le spregiudicate in sei o sette, avendo fame, avevano riunite le loro forze finanziarie, riunendo quindici soldi e con molte preghiere avevano convinto Rosa, la bidella, a comprar loro otto soldi di pane, sei di provola affumicata, una specie di formaggio fresco, tenendosi un soldo per il suo incomodo, poi, aspettando, Carolina Mazza malinconica e cinica, cominciò a narrar loro una storiella piccante, che le faceva sganasciar dalle risa. E tutte quante convittrici ed esterne, le sentimentali, le zelanti, le sante, le spregiudicate, respiravano un poco; dopo la ricreazione, avevano un’ora di lavori donneschi: la maestra era docile, compativa quelle del terzo corso, sapeva il carico delle loro lezioni, era di manica larga, le lasciava scrivere e leggere o disegnare, purchè poi all’esame presentassero un cucito, un rammendo, un rappezzo bene eseguito.

Tutte facevano dei progetti per quest’ora, che era quasi di libertà: Caterina Borrelli voleva rispondere una lunga lettera alla sua amica Amelia Bozzo; le zelanti, ostinate, combinavano di ripetere la lezione di scienze fisiche tra loro; le santarelle contavano di chiacchierare ancora, di miracoli e di conversioni, e le spregiudicate contavano di far colazione lungamente. Tanto che, rientrate alla mezza in classe mentre la maestra osservava il lavoro di due o tre che avevano lo zelo anche per questo, le altre non rivoltarono neppure la tavoletta del banco, dove ci era il cuscinetto di lana verde per cucire. Caterina Borrelli scriveva; Carolina Mazza affettava, con un temperino, sottilmente, la provola affumicata, distribuendola equamente, Checchina Vetromile aveva rovesciata la macchina di Atwood, quasi per anatomizzarla; Clemenza Scapolatiello aveva rialzata la manica del suo vestito per mostrare alle sue amiche un rosarietto delle anime del purgatorio, che portava sempre al braccio, sotto il gomito. In questo sbandamento generale, un fruscìo si udì: le due ispettrici: una contessa gobba e zitellona, una marchesa pesante, dalle lenti sul naso, entrarono con la loro aria glaciale e sdegnosa. Esse compivano quell’ufficio gratuitamente, come se si degnassero di fare la carità della loro assistenza alle ragazze povere. Esse occupavano le loro lunghe giornate vuote a girare per le scuole, portandovi la superbia dei loro vestiti di seta, dei loro orecchini di brillanti: esse applicavano la loro nullaggine a seccare alunne, professori e maestre, con osservazioni saccenti, con dispute bizantine. Erano detestate: perchè non erano buone, pietose, utili a nulla. Ma bisognava fingere di rispettarle, se no, andavano dal provveditore, scrivevano al ministro, mettendo il mondo a soqquadro come due gazze. Onde, quell’apparizione equivalse quella di una duplice testa di Medusa. La stessa maestra si confuse:

— Non si lavora molto, mi pare? — osservò la gobba, con il tono acre della zitella schiattosa.

— Da un pezzo, queste signorine non si danno pensiero del cucito, — continuò la marchesa pedante, — esse vogliono diventare troppo sapienti...

— Il programma è un po’ pesante... — osò dire la maestra.

— Se continua così, noi riferiremo, — disse la gobba.

— Noi riferiremo, — confermò la marchesa saccente.

E principiarono il giro nella classe: in fretta molte tavolette erano state arrovesciate, per fingere che si cucisse.

— Lei, Borrelli, perchè non cuce? — chiese la gobba, dal mento pieno di peli bigi.

— Io sono dispensata dal cucito, per malattia agli occhi.

Dove sta il certificato?

— A casa, naturalmente; e un altro l’ha il direttore.

— Se si fanno far tutte il certificato, bisognerà riferire.

E passarono avanti.

Signorina Mazza, lei cuce senza anello da cucire?

— L’ho perso signora ispettrice.

— Lei si bucherà il dito e potrebbe essere più attenta ai suoi arnesi.

Luisetta Deste tossiva, come se affogasse: vedendo entrare le ispettrici aveva ingoiato un grosso pezzo di pane e un pezzetto di provola, per traverso; e rossa, con le lagrime negli occhi, si schiantava a tossire.

— Che ce l’ha sempre, questa tosse? È cronica? — domandò la vecchia gobba.

— No, per grazia di Dio, — ribattè quella fra gli schianti, — non ho mica cinquant’anni, io.

Signorina Vetromile come è che ella adopera il filo nostrano? Non lo sa che deve adoperare il filo inglese? Che trascuranza è questa? Ah, proprio, proprio non ci vogliono dare importanza ai lavori donneschi? Vedranno, vedranno, agli esami che fioritura di riprovazioni!

E le due noiose, dal cervello meschino e dal cuore inerte di donne senza maternità, le due donne inutili e tormentatrici, passo passo, alunna per alunna, trovarono modo di fare qualche osservazione acerba, qualche personalità offensiva: alunna per alunna, esse le contristarono tutte, con la frase, con l’intonazione, col lusso sempre più posto in evidenza dei loro vestiti, con certe squadrature da capo ai piedi, con certe smorfie di nausea, con certi cenni altieri del capo; con certi gesti eleganti delle mani. Quella visita fu tutta un’amarezza: quelle che contavano studiare non potettero; le affamate dovettero rinunziare alla colazione, avendola sotto il banco nascosta senza poterla mangiare; quelle che cucivano, perfino le zelanti furono amareggiate, per gli aghi, per il sopraggitto, per le filze. Finanche Isabella Diaz, che rammendava un brano di castoro, lavoro delicatissimo, fu criticata pel modo come tirava il punto: e la gobba dal mento peloso, ne guardò la parrucca con un disprezzo profondo. Sulla porta, la marchesa con voce cattedratica pronunziò un fervorino, ricordando a quelle fanciulle che la loro triste condizione le obbligava a fare le maestre che non avessero la superbia di credersi indipendenti e libere e che cercassero di conciliarsi la indulgenza delle persone importanti e rispettabili, le quali si sacrificavano per loro, per loro che in fondo erano tanto ingrate.

 

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La faccia di De Vincentis era molto arcigna quel giorno. Con la primavera gli umori acri gli avevano assalito gli occhi e lo avevano costretto a non smettere mai gli occhiali azzurri: e i dolori dell’artrite erano penetrati nelle ossa. Egli zoppicava appoggiandosi a un bastone, tutto avvolto in un grosso cappotto di lana, con una sciarpa di lana al collo e alle mani i guanti di castoro foderati di flanella: per la contrazione nervosa, il lungo pizzo pepe e sale si muoveva. Ma le ragazze non ne avevano molta paura quel giorno: la lunga e difficile lezione sulla radice quadrata, tutte o quasi tutte la sapevano, tanto egli la aveva chiaramente spiegata, con la sua precisione di matematico. E per la importanza della lezione da dover dire e per vederlo così affannato, così malaticcio, una certa sicurezza mista di pietà nasceva nel loro animo: sicurezza che poco tempo sarebbe a lui rimasto per spiegare la nuova lezione e che forse, non sentendosi bene, non ne avrebbe neppure profittato. Questo le rincorava, perchè se avesse assegnato molta roba nuova, per due giorni dopo, giammai avrebbero potuto impararla, mancava il tempo, sarebbe stato un disastro. Dolcemente, Judicone gli chiese come si sentisse, gli offrì il berretto di lana per la testa già un po’ calva: egli soffriva assai, si vedeva, ma si vinceva, neppure il pizzo aveva più quel moto nervoso. Quando chiamò De Sanctis a dire la lezione, costei si alzò, tutta vivace, andò alla lavagna, volle dimostrare il teorema: il professore la interruppe sul principio dicendole seccamente basta, chiamandone un’altra. Così per la seconda, per la terza, per la quarta appena egli si accorgeva che la lezione la sapeva, interrompeva l’alunna, e la rimandava al posto.

Le altre cominciavano a guardarsi in viso sgomente: il loro piano innocente falliva, le loro previsioni erano disperse. Quasi quasi, desideravano che la chiamata non sapesse la lezione, che incespicasse, che il professore gliela facesse dire tutta, per correggerla: macchè! La classe era in un momento di felicità aritmetica, il professore ascoltava quasi sorridente, nella consolazione del suo cervello algebrico e del suo cuore di docente. Alle due, quando ancora ci voleva un’ora per finire la lezione e la scuola, tutto era detto: le alunne, esterrefatte, videro alzarsi quel vecchietto tutto contorto dall’artrite, tutto ravvolto nelle sue lane, cavare una mano tutta nodosa e rossa dal guanto, scrivere una lunga formula aritmetica sulla lavagna, udirono una forte pronunzia cilentana che cambiava il d in erre metteva un gh innanzi a ogni e, enunciare il teorema fondamentale della terza potenza:

— Il cubo di un numero, diviso in due parti, è uguale al cubo della prima parte, il doppio prodotto della prima per la seconda, il doppio prodotto della seconda per la prima, cubo della seconda parte.

E da quel cumulo di ossa sconquassate, da quella testa i cui occhi poco vedevano più, da quella mano disfatta, contraffatta, da quel cervello tanto lucido che nulla poteva vincere, uscì per un’ora una dimostrazione precisa, insistente, continua, sempre più complicante ed esplicante le formole e le sottoformole del teorema.

La lavagna era piena zeppa di cifre, di segni aritmetici, di radicali, di lettere: sulla fine egli dovette restringere il carattere, non ci entrava più. La malattia non gli cavava un lamento, non gli infliggeva una sospensione: egli andava, andava come un vecchio meccanismo, la cui ruota fondamentale è ancora solida. Egli si fermò quando suonarono le tre all’orologio e la campana suonò la chiusura della scuola: si fermò ed uscì. Esse... non uscivano. Guardavano la lavagna inebetite, accasciate.

 

 

 


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