Matilde Serao: Raccolta di opere
Matilde Serao
Il romanzo della fanciulla
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SCUOLA NORMALE FEMMINILE.

III.

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III.

 

 

Fingevano, chi la tranquillità, chi la disinvoltura, chi un’indifferenza assoluta: tutte fingevano, come meglio sapevano, e potevano, per nascondere la paura, l’inquietudine, la tristezza, la nervosità. Riunite in due o tre gruppi, sedute a caso sui banchi in disordine, nella sala del terzo corso esse fingevano di ammirarsi scambievolmente una pel vestito nuovo, tagliato e cucito in casa, l’altra per una mantellina di trina, fatta ad applicazione, l’altra pel cappellino nuovo che costava in tutto nove lire e cinquanta, la quarta per certa sciarpetta ricamata nei piccoli, brevissimi intervalli di ozio; parlavano dei bagni di mare, a Santa Lucia, al Chiatamone, alla Riviera di Chiaia, a Posillipo, combinavano delle comitive per spendere meno e per divertirsi di più: ogni camerino costa un franco: diviso per quattro, si tratta di cinque soldi al giorno, per ognuna, e si va a piedi, che importa? Parlavano del grande divertimento estivo serotino ed economico, che è il desiderio delle fanciulle borghesi napolitane, la Villa, la Villa col gas, con la musica, con la folla delle ragazze e dei giovanotti, con le sedie di ferro che costano un soldo e il mare e la luna che non costano niente. Sì, cercavano di avere l’aria disinvolta: ma sotto tutti quei sorrisi il tormento trapelava, sotto quei discorsi di vestiti, di bagni, di seratine, trapelava il pensiero angoscioso, l’altro, quello per cui nessuna di loro aveva dormito alla notte, quello per cui si erano affaticate otto mesi e per cui negli ultimi due mesi estivi, giugno e luglio, avevano sgobbato dalla mattina alla sera sui libri, sui quaderni, sui sunti, sulle formole; il pensiero profondo e dominante, per cui in quel giorno chiamate in scuola alle nove, si erano alzate alle sei, erano uscite di casa alle sette, e dopo molti giri di passeggiata erano tutte capitate alle otto, un’ora prima. Quello era il giorno dell’esame orale, del diploma superiore. E l’esame, l’esame era il pensiero pauroso, angoscioso, profondo e dominante.

Tanto che, non reggendo a lungo la finzione in quelle anime giovanette, involontariamente, non vergognandosi più, nella comune inquietudine, ognuna si abbandonò alla propria. Pallida e sgomenta Annina Casale, appoggiata ai vetri della finestra, guardava nel cortile, senza vedere; e Caterina Borelli, la sua prepotente amica, per darle coraggio, la sgridava.

— Sei una stupida ad aver paura. Non hai studiato tutto l’anno? Di che ti spaventi?

— Di tutto.

— E tu fa una cosa: pensa che gli esaminatori di , ne sanno tutti meno di te. Ci pensi? Cerca di convincertene e non avrai più paura. Hai capito?

— Sì: ma non lo penso.

Pensane un’altra: riproveranno anche me. Faremo l’esame di riparazione insieme, ci prepareremo insieme.

— Ma che, ma che, vuoi che ti riprovino te, che sei così brava e così ardita?

— Ti giuro che mi riproveranno, Nannì: ho un cattivo presentimento.

Altrove, parlando a voce bassa, ognuna narrava il proprio terrore speciale.

— La pedagogia, la pedagogia, certo sono riprovata in pedagogia, — diceva De Sanctis, come se parlasse a se stessa. — Non l’ho mai capita, ci ho perduto sopra ore ed ore, anche questa notte non ho dormito per ripassare tutto il volume. E se mi domanda i metodi di lettura, che gli rispondo? Io non so nulla dei giardini d’infanzia, del sistema simultaneo

— Per me, le difficoltà sono le scienze fisiche, — soggiungeva Carolina Mazza, — è uno studio troppo complicato, per imparare bene l’ottica si dimentica l’acustica; l’elettricità, poi, vi confonde la testa e non si capisce più nulla...

— Io sono stata sempre sfortunata, per la storia, — esclamava Mercanti, — scommetto che mi domandano le crociate, quelle maledette crociate, quante sono state, nove, quindici, trentaquattro?

— E l’aritmetica, l’aritmetica, vi pare una cosa da scherzo? — chiese Luisetta Deste, sorridendo amaramente.

— Oh, Dio, l’aritmetica! — ripeterono in coro quattro o cinque, di cui lo sgomento cresceva.

Intorno a Checchina Vetromile altre si erano riunite e, incalzate dall’incubo dell’esame, con la testa vuota a furia di aver troppo studiato, si chiedevano e si davano certe ultime spiegazioni, di lettere italiane, di geometria, di chimica, finendo di stordirsi. Checchina Vetromile aveva descritto a Cleofe Santaniello il termometro, minutamente; la Pessenda aveva due volte raccontato a Emilia Scoppa la scalata di Carlo Ottavo in Italia. Scapolatiello presso la lavagna, aveva fatto vedere a Carmela Fiorillo come si trova il raggio minore del tronco di cono; e quelle che ascoltavano, assorte, come in sogno, ripetevano, balbettando, la spiegazione. Sola in un angolo Giustina Marangio, già uscita di collegio, già vestita di nuovo, si dondolava sopra una sedia, canticchiando: sola in un cantuccio, Isabella Diaz che aveva ricucito dei nastri ritinti in verde al suo vecchio cappello, stringeva nelle mani la sua borsetta. Poi, come suonavano le nove, un silenzio si fece: la bidella Rosa comparve sotto la porta, con una carta in mano e lesse i primi quattro nomi:

Abbamonte, Barracco, Bellezza, Borrelli, all’esame!

Abbamonte si fece pallida, Barracco si segnò rapidamente, Bellezza prese il suo ventaglio con un’aria convulsa, Borrelli dette un bacio a Casale, e si rizzò risolutamente gli occhiali sul naso: tutt’e quattro si avviarono senza parlarsi. Sottovoce, Isabella Diaz disse loro, mentre passavano:

Dio vi assista!

Le altre non dissero nulla; già tremanti, senza fiato non ricominciarono a parlare che dopo dieci minuti. Casale avendo perduto anche gl’incoraggiamenti di Borrelli, s’era seduta sullo sporto della finestra e diceva fra delle avemmarie. Carolina Mazza raccontava la disperazione di Nobilone, la povera Nobilone che era stata riprovata all’esame scritto e non era passata all’esame orale; un anno perduto, tante speranze svanite.

— E che farà la povera Nobilone? — chiese Donnarumma.

— Che deve fare? È stata riprovata in quattro materie, come può prepararsi in tre mesi, alla riparazione? Dovrebbe pagare dei maestri: poveretta, ha così pochi quattrini!

— Potrebbe far l’esame di telegrafista, — suggerì Defeo.

Giusto! Tre mesi di scuola, pagando venti franchi il mese, libri, maestri, quattro posti e trentacinque concorrenti.

— È vero, è vero, — mormorarono due o tre.

— O dovrebbe andarsene agli asili, — soggiunse Mercanti.

— Sì, sì, cinquanta lire il mese, e la ritenuta, e la salute rimessa!

— È vero, è vero, — ripetevano le altre a bassa voce. E ognuna, in , provava uno scoramento profondo; ognuna pensava a quello che le resterebbe da fare, essendo riprovata. E all’idea morale dello scorno che faceva salire il rossore al loro volto, si sovrapponeva quella materiale più urgente, del bisogno che stringeva loro il cuore; ognuna pensava a quel lungo sacrificio di tre anni, andando a letto tardi per studiare, levandosi presto quando s’aveva voglia di dormire, uscendo con la pioggia, col freddo, con l’umido, senza ombrello, senza mantello, con le scarpe sottili, con la tosse, mangiando poco, risicando il soldo per comprare i libri e rinunziando a un cappello per aver una scatola di compassi. Che schianto, la riprovazione! Che fare, dopo? Dove trovare i quattrini, la pazienza, la volontà, la forza per continuare quella vita, un altro anno? Come ricominciare quell’ansietà degli esami, pel telegrafo, per gli asili?

Quaranta minuti erano passati; la bidella Rosa comparve sotto la porta e lesse altri quattro nomi:

Casale, Dedonato, Defeo, De Sanctis all’esame!

Ma la uscita delle altre quattro fu poco osservata, niuna badò alla titubanza malinconica di Annina Casale, alla rassegnazione muta di Defeo, alla falsa aria di sicurezza della Dedonato che aveva una paura immensa; all’aria di povera bestia che va al macello di De Sanctis: ritornavano quelle già esaminate, l’interesse era intorno a loro, furono subito circondate. Abbamonte, nel corridoio aveva incontrato il suo vecchio padre, un ufficiale pensionato, e si era buttata nelle sue braccia: ora passeggiavano su e giù, il padre appoggiando amorosamente la mano sulla spalla, e lei con l’aria beata, rossa tutta nella faccia con gli occhi fuori dalla testa. Le altre erano in classe: Barraco pallidissima con una macchia rossa sulla guancia destra, come la striatura di uno schiaffo; Borrelli, l’aria gloriosa, una treccia mezza disfatta e la cravatta arrivata sulla spalla; Bellezza, rossa rossa, con l’aria indecisa. E attorno fiottavano le domande, tutte volevan sapere, se i professori erano burberi, se i problemi erano facili, se chiedevano quello che era nel programma, se il direttore era nervoso, se i dieci minuti di esame presso ogni esaminatore passavano presto, se la geografia si diceva sulla carta.

— Niente, niente, — narrava convulsivamente Barracco. — La geografia è nulla, figuratevi, mi hanno chiesto i fiumi della Spagna, chi non li sa? De Vincentis, al solito, è un po’ collerico, ma si vede che non vuole fare sfigurare la scuola...

— Il male è la pedagogia, — soggiunse Borelli. — Estrada ci ha fatto un bel servizio, con le sue poesie: invece l’esaminatore è severissimo, vi giuro, che se non improvvisavo un poco, così a casaccio, ero riprovata. Scusate, ci ha mai spiegato che cosa era la riflessione ontologica?

— No mai, mai, — risposero tre o quattro, guardandosi fra loro, — questo Estrada ci ha rovinate!

— Un consiglio vi , — continua Barracco la nevrotica, — non rispondete mai precipitosamente, è male, l’esaminatore vi guarda con una brutta faccia, vi domanda troppe cose, e il tempo non passa mai. Io ho risposto troppo presto, ha dovuto dire tutto il sistema di Linneo, non finiva mai...

— Vi è anche dell’intoppo alla letteratura italiana, me lo immaginavo, non ve lo avevo sempre detto che Radente era una bestia? — esclamò Caterina Borrelli. — Figuratevi che vogliono sapere tutta la storia della letteratura italiana che non abbiamo mai studiato. Oh, quel Radente! Ma perchè non lo destituiscono?

— Non vi preoccupate della storia sacra e della morale, le domande sono facili, — mormorò Barracco.

— Non vi preoccupate più di nulla, l’esame è meno difficile di quel che pare, — esclamò allegramente la Borrelli. Io dovrei andarmene, ma voglio aspettare l’esito di Casale e di due o tre altre. Ora scrivo un biglietto a mamma, per dirle che tutto è andato bene. O povera mamma, questo la consolerà!

E la voce si intenerì fino al pianto; la Barracco che era presso a lei, si fece livida, tremò, strinse i denti, disse con voce straziante: — Oh mammà, mammà — poi si arrovesciò sopra un banco e svenne. Una crisi nervosa scongiurata per tre ore, era venuta a quel nome di mamma: e la Barracco aveva riveduto come in un sogno truce, il suicidio di sua madre, la misera donna che, diventata vedova e povera per la morte di suo marito, avendo cinque fra figliuole e figliuoletti che non sapeva come far vivere, si era buttata giù sul selciato, dal balconcino di un ignobile albergo, in un vicolo dei Guantai. Nella convulsione, di sotto le palpebre abbassate, sulle guance della Barracco scendevano grosse lacrime e le compagne, intorno, non sapevano far altro, dopo averle aperto il vestito, che farle odorare una rosa che portava sul petto la Mercanti. L’avevano approvata, la Barracco, ma non era possibile esser mai felice, mai più, con quella tetra visione della madre sfracellata, giù nella via: tutte parlavano sotto voce della tragedia, Borrelli bagnava le tempie di Barracco con un fazzoletto molle di acqua. E Bellezza non sorrideva, non piangeva, aveva sempre il suo contegno di persona dubbiosa: e dentro di sospettava forte di aver sbagliato tutta la dimostrazione di aritmetica. Non osava domandare a Checchina Vetromile se bastava il metodo di falsa supposizione, a risolvere quel problema di regola di società: non osava, temendo di avere la certezza del suo errore.

Deste, Diaz, Donnarumma e Fiorillo! — chiamò la bidella.

Tutte si rivolsero a veder passare Isabella Diaz. In verità era così laida col suo viso senza ciglia e senza sopracciglia, di un pallore giallastro e come untuoso, con quella vecchia parrucca rossastra, con quel cuffiotto di merletto di cotone dai nastri verde-pisello, che faceva nausea: e con lei Luisetta Deste era così carina nella sua bellezzina piccoletta, Carmela Fiorillo era così simpatica coi suoi occhi andalusi e le sue labbra vivide come il fiore e piacente nella sua robustezza, che Isabella Diaz parve più brutta, più meschina, più ripugnante in quel contrasto. Ora Casale era ritornata dall’esame e De Sanctis e Defeo e Dedonato: le notizie erano sempre più contradditorie. Defeo si era imbrogliata giusto alla storia sacra, una materia così facile; Casale aveva fatto sforzi di valore, ma giusto alla storia non aveva potuto ricordare il nome della battaglia, a cui aveva preso parte Dante Alighieri.

Campaldino, stupida. Campaldino! — Strillava Borrelli.

Dedonato se ne stava tranquilla, sapeva di aver risposto mediocremente, ma sapeva anche di essere stata approvata a stento in tutte le materie. Che fanno i punti? Sono una sciocca questione di amor proprio, basta avere un diploma. In quanto a De Sanctis, il fenomeno di trasformazione era completo: con le guance accaldate e gli occhi lucenti, ella narrava che aveva risposto benissimo a tutti: e le compagne, sapendo la sua inettezza, si guardavano scettiche senza che ella capisse.

Figuratevi, — diceva lei, esaltata, — che il professore di scienze fisiche mi domanda: qual’è l’istrumento con cui si misurano i gradi di calore della temperatura? Il barometro: rispondo io. Chi lo ha inventato? Lo hanno inventato in molti, il signor Celsius, il Torricelli, il Réamur. E glielo ho anche descritto. Benissimo. Alla pedagogia lo stesso. Qual’è la legge fondamentale dell’istruzione? Vi sono varie leggi, la legge psicologica le riassume tutte e il signor Froebel ne ha fatto lui l’applicazione ai metodi di lettura. Bene. La storia, la storia? La battaglia di Gavinana e Pier Capponi che esclama, contro Malatesta Baglioni, tu uccidi un uomo morto! Alla geografia: gli Appennini sissignore, cominciano dal Colle di Tenda, finiscono in Calabria. E io che mi spaventava tanto! L’esame è una sciocchezza, andatevi di cuor contento.

E le altre non osavano dirle per non disilluderla, quale strano pasticcio ella aveva fatto di termometro e di barometro, che imbroglio nella pedagogia, nella storia, nella geografia, essa aveva impastato: e l’ascoltavano con un sorriso pietoso stravolgere tutto, chiacchierare, come un’oca stordita e chiassosa. La esaltazione di quelle che ancora dovevano fare l’esame cresceva sempre più, a tanti spettacoli, a tante notizie, a tante contraddizioni; e mentre il calore di quelle che avevano già finito si allargava in un’allegrezza nervosa, il pallore delle esaminande, il loro silenzio aumentava. Oramai, non pensavano più a ripassare quel tale brano ancora oscuro della storia, non si curavano più di farsi dire da Checchina Vetromile, come agisce la luce sulle piante: tutto era inutile, oramai, tutto era deciso, non avrebbero mai più imparato niente. Sapevano quel che sapevano, sarà quel che sarà, una specie di sfiducia di tutte le cose, vinceva quelle anime scosse da un turbamento profondo. E come il tempo passava, la giornata fatale si complicava sempre più di avvenimenti: vi era il caso di Luisetta Deste, la bellina che non aveva mai studiato niente, salvo qualcosellina, un po’ qui, un po’ a spizzico, tutta intenta alla civetteria e agli amoretti, e che aveva avuto la fortuna di sentirsi domandare giusto le pochissime cose che sapeva e di essere approvata, come se fosse stata la più zelante, la più studiosa fra le alunne, e tornando, ridacchiava, la sfacciatella, e si burlava degli esami e degli esaminatori e del diploma e di tutte le cose scolastiche noiose e odiose, il che contristava le buone fanciulle che avevano perduto la salute a studiare. Vi era il caso della Scapolatiello, che giusto la sera prima aveva sentito in casa l’annunzio delle nozze di sua sorella, con quel giovinotto che ella adorava silenziosamente: si sposavano in settembre, non ci era più rimedio e questa notizia le aveva sconvolto talmente la testa, che era andata all’esame come una trasognata senza intender nulla di quello che le chiedevano trasalendo ogni tanto dolorosamente e pigliando una riprovazione coi fiocchi: in un angolo della terza classe, la infelice, senza piangere, senza respirare, andava ripetendo che le restava solo la morte. Vi era il caso delle due sorelle Santaniello: l’una già tisica, che quell’anno di lavoro aveva disfatta e a cui gli esaminatori avevano dato il diploma quasi per pietà, guardandola con commiserazione e parlando sottovoce fra loro, mentre quella restava tutta imbarazzata, tutta vergognosa della sua malattia e l’altra anemica, timida, intelligentissima, senza coraggio, a cui gli esaminatori avevano dovuto strappare le parole ad una ad una, con sforzi immensi, tanta era la confusione e il timore della poverina. E vi era il caso di Giustina Marangio, la quale, giunta innanzi alla lavagna dove Fraccacreta, prima di lei, aveva trovato la superficie della piramide, aveva fatto osservare al professore un errore nella dimostrazione, a cui egli non aveva badato; aveva rifatta lei, vittoriosamente, questa dimostrazione, e per causa sua Fraccacreta aveva preso cinque in geometria.

Poi, tutte quante, felici o infelici, pensierose o allegre, guardandosi in cagnesco, serbandosi rancore, invidiandosi, amandosi, avevano aspettato le tre per leggere la sentenza, il risultato ufficiale dell’esame, affisso nel cortile. Tutte, più o meno, lo sapevano, questo risultato, ma un’ultima curiosità le mordeva. E De Sanctis restò stupefatta avendo preso dei cinque, dei quattro, persino degli zeri, in tutte le materie: e la meraviglia di tutte fu che Isabella Diaz, avendo avuto il massimo dei punti era riuscita la prima.

 

 

 


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