Lasciamo i confronti e
occupiamoci dell'ultimo tiranno russo. Nicola non è un bastardo dei Romanov.
Egli è del ceppo. Ma il padre non fu Alessandro III. Lo Czar che percorse lo
stradone della reazione e delle rappresaglie ha avuto un altro padre. Il
genitore di Nicola fu il granduca Alessandrovitc, fidanzato alla Dagmar di
Danimarca. Alla morte del granduca Alessandro II salì al trono Alessandro III
con la eredità fraterna, cioè con la Dagmar pregna di colui che divenne l'erede
del trono dei Romanov. Per la rassomiglianza basta dare un'occhiata al supposto
padre e al supposto figlio. Nessuna identità fisica. Se c'era nel principe
qualche cosa che lo avvicinasse alla famiglia imperiale era nella mentalità
materna. Deficienza in lei e deficienza in lui. La stessa stupidità. Grettezza,
testardaggine, simulazione in tutti e due. Egli era infingardo e menzognero.
Così la genitrice. Egli era insensibile come la madre. L'insensibilità di
Nicola fu accentuatissima. Gli avvenimenti che facevano trasalire e inorridire
i russi di tutti i ceti lasciavano indifferente il monarca. Basterebbe
ricordare la catastrofe umana della sua incoronazione. Il terreno intorno a
Mosca, preparato da tre squilibrati che si ubbriacavano e si abbandonavano a
tutte le follie carnascialesche, era fatto a buche di lupo per frenare nella
corsa i contadini invitati dallo Czar a bere la vodka (acquavite) e a prendere
in regalo cose mangerecce avvolte nei fazzoletti-ricordo. All'ora del pasto le
venticinquemila persone chiuse nello steccato vennero distecconate. Fu un fiume
umano. Le buche di lupo divennero fosse di morti. Gli uni sugli altri. Fra
tutti gli accorsi al banchetto czarista ottomila vennero raccolti cadaveri. Non
parliamo dei feriti. Lo Czar rimase senza emozione. Più di un milione di
abitanti di Mosca si teneva la testa dalla disperazione. E lo Czar? Nè tremore
nè pallore. Non se ne occupò. Saltò via il fattaccio. Nessun rincrescimento.
Alla sera, come se nulla fosse avvenuto, partecipò alla festa da ballo data in
suo onore dall'inviato speciale della Repubblica francese. Fu il sovrano che
iniziò la danza.
Durante i suoi ventitre anni di
regno conservò la stessa freddezza per qualunque disastro nazionale e per
qualunque tragedia che toccasse i suoi ministri o i suoi consiglieri o i suoi
generali o ammiragli. Abbiamo sul tavolo un imperatore e dobbiamo documentare.
È nota come la sua strafottenza obesa abbia provocata la guerra col Giappone.
Il conte Jto era a Pietroburgo, inviato speciale del Mikado per evitare il
conflitto. Lo Czar non si fece mai vedere. Non volle vederlo. Si faceva credere
a caccia o assente, o con qualche imperatore o oppresso dal lavoro, o
indisposto. I russi trepidavano e speravano in una conciliazione e lo Czar
aveva già fatto telegrafare che se la marina giapponese avesse passato il 38°
di latitudine nord, l'ammiraglio russo doveva considerare il fatto come una
dichiarazione di guerra. Nella stessa sera lo Czar frigido andò al pranzo di
gala con il telegramma in tasca che l'avvenimento era un fatto compiuto. La
giornata del 19 gennaio 1904 era nei nervi dei sudditi. Tutti nervosi, tutti
eccitati. Tutti si aspettavano di minuto in minuto il grido degli strilloni con
i supplementi straordinari. I commensali spiavano il monarca. Bevevano e
mangiavano automaticamente. Lo Czar, mangione come Luigi XVI, ingoiava una
vivanda dopo l'altra senza che traspirasse dalle sue parole e dai suoi gesti
un'allusione alla guerra.
— Sire, gli domandò la moglie di
un ambasciatore al suo fianco, avremo la guerra?
Cadde dalle nuvole. Non ne
sapeva niente. L'interrogazione non lo ha nè scaldato nè raffreddato. Egli
rimase tale e quale.
— La guerra? Le rispose, non la voglio.
Non la concepisco. In altri tempi, ai tempi di Paolo I, egli sarebbe stato
strangolato dai propri cortigiani a tavola. Tempi di carne floscia. Tempi di
menzogne e di malvagità. All'indomani questo criminale del trono fece allestire
una partita di caccia. Analgesetico come alla catastrofe di Kodinka, per la sua
incoronazione!
*
Intorno a una guerra è sempre
una ridda di milioni. Lo Czar e i suoi eminenti Kuropatkine curavano più la
speculazione che la guerra. Tre navi russe vennero colate a fondo dai
giapponesi. Qualcuno intorno all'imperatore divenne pallido. L'imperatore con
il piglio del noceur, disse: «questa perdita è per me meno di una
puntura di pulce». La costernazione di tutti era per lui uno svago. In
Porto-Arthur, bloccato, i soldati russi cadevano come le mosche. Venivano
mietuti dalle palle giapponesi, dalle febbri tifiche. La flotta nella baia
veniva distrutta simultaneamente. Gli obici russi non raggiungevano la flotta
del Mikado. Tutto periva. La corazzata più portentosa dello Czar venne fatta
saltare da una mina con tutto l'equipaggio, compreso l'ammiraglio. Non
aspettatevi lagrime dall'imperatore Nicola. Egli aveva tutte le notizie del
disfacimento russo. Vedendo Radjensky che andava da lui ad aggravargli la
sventura, lo prese per la mano e lo trascinò fino al finestrone con fare
tranquillo. Guardate, disse, che bel tempo!
In Nicola II viveva l'anima
feroce di Nicola I — lo Czar che durante il suo regno, dal 1825 al 1854, aveva
mandato in Siberia due milioni di sospetti. Coloro che piangono la morte di uno
Czar carnefice come Nicola II sono suppliziatori di moltitudini. Una lagrima
versata per lui è un delitto. Egli era duro e spietato come i suoi «nobili»
cosacchi — gli autori di tutte le stragi di piazza, di tutti gli sterminî di studenti,
di tutte le carneficine di ebrei, di tutti gli abbattimenti umani.
Francesco Giuseppe era un
sant'uomo in suo confronto. L'austriaco non aveva saputo spargere tanto sangue
come il monarca russo. Egli che aveva piantate croci in tutta l'Ungheria per finirla
con la repubblica di Kossuth, è stato superato nell'efferatezza dal mostro
moscovita. Quale canaglia feroce negli splendori imperiali!
Nicola ha meritato più che la
morte. Egli è andato sul trono seguito dalle speranze di circa 140.000.000 di
persone. Tutti speravano in un'êra di respirazione. In una libertà
giornalistica europea. In una giustizia meno cosacca. In una emancipazione
paesana. In una autonomia politica più consentanea ai tempi. Disilludetevi.
Egli non ha portato sul trono che la tradizione degli antenati della maledetta
dinastia — antenati che tennero con tutti gli strumenti della barbarie le
generazioni in ginocchio affamandole fisicamente e intellettualmente. Nicola I
e Nicola II non si possono disgiungere. L'uno è il continuatore dell'altro. Il
primo aveva una testa da boiardo. Chiuso a tutte le folate europee. La sua
concezione statale era la muraglia cinese. Chi è dentro è dentro e chi è fuori
è fuori. Internamente non fu che lui che sovraneggiasse. Guai al dissenso.
Voleva una nazione disciplinata militarmente. Ai brontoloni, nerbate. Ai
perturbatori, la Siberia. Due milioni di persone sospette di non andare
d'accordo con le sue imposizioni vennero incatenate e inviate nella Siberia
penale. Nessuna intellettualità nel suo regno. Tourguenief ha dovuto mettere
fra lui e Nicola la Francia. La stampa gli è parsa inutile. In tutta la Santa Russia non ha lasciato circolare che sette giornali fatti di notizie senza interesse.
Carnefice di teste e di parole. Gli agitatori venivano strangolati. Le parole
che per lui erano sediziose venivano mandate al macero. Nelle pubblicazioni del
suo regno non trovate una parola riottosa. La «libertà» non aveva quartiere.
Qualunque sovrano non poteva essere discusso. Il nome «Re», eliminato. Guai
all'introduzione della fraseologia giacobina. I libri esteri non avevano
passaggio. Il monarca moscovita non tollerava aria occidentale in casa sua. I
doganieri si impadronivano dei giornali di moda, dei quotidiani politici e di
tutti i valori esotici. Pareva che Pietro il Grande che aveva edificato
Pietroburgo con cervelli tedeschi e che si era compiaciuto di lasciare
intedescare la sua persona dal sarto germanico, non avesse fatto
dell'imperialismo sullo stesso trono. Con Nicola I il 49 non ha avuto
risonanza. È come se non avesse soffiato in Europa. Lo storico non ne avrà
sentore che leggendo i profughi. Più di tutti Bakunin, l'agitatore sommo — la
rivoluzione in cammino, l'uomo che lasciava dappertutto fiamme internazionali.
Guizot lo ha mandato alla frontiera dopo averlo dichiarato una «persona troppo
violenta!».
Le generazioni di Nicola I
vegetarono. Non produssero. Lavoravano per mangiare. Nei «nidi» dei signori si
poltriva. Negli ultimi anni del suo regno non si trovavano che sbadigli, che
stanchezza, che cervelli che non concepivano che il suicidio. L'ultimo
disprezzo del sovrano fu per Goethe. Egli ha fatto agguantare dai suoi
doganieri quel pazzo di Fausto che stava per entrare a indiavolare i sudditi.
Basta di lui. È Nicola II che ci interessa. I suoi primi passi furono del
vaccone. Lo si trova fra gli ufficiali della guardia e due futuri arcivescovi —
Serafino e Ermogene — e il granduca Nicolaievic che si ubbriacavano come scrofe
e si abbandonavano all'omosessualismo degli Oldemburg della Tavola rotonda,
di puzzolentissima memoria. Il granduca che ne comandava il reggimento è
rimasto celebre a Zarkoie-Selo per le sue potenti sbornie. Più di una volta
cadeva a terra come corpo morto. Beone di razza, si abbandonava a tutti i
bagordi e a tutte le crapule. L'erede al trono invertito si gettava sul corpo
degli invertiti come un indemoniato. L'inversione pare una malattia ducale.
Passa di trono in trono. Il principe di Galles, figlio di Edoardo VII — è stato
colui che ha spaventato il Regno Unito. Egli si era messo alla testa di una
frotta di aristocratici che defloravano i fattorini telegrafici. Egli è morto
tutto ulcerato e sconciato. Lo scandalo di Berlino è ancora nelle orecchie dei
lettori italiani. Gli Oldemburg delibavano gli ulani più belli della Pomerania.
In ogni combriccola è il traditore. I pederasti di Zarkoiè-Selo hanno avuto il
loro. La rivelazione è nelle memorie di un certo M. G. dello stesso reggimento
in cui lo czarevic faceva il suo noviziato militare.
Il padre Alessandro III, deve
avere schiaffeggiato il figlio senza riuscire a sviarlo dalle scene di lupo
messe in azione dal granduca e dal suo colonnello.
Quattro parole per la
documentazione.
«Si passavano intiere giornate a
bere, e la sera si era in preda ad allucinazioni fra le quali alcune così frequenti
che i domestici avvezzi a quella strana condizione degli ufficiali, sapevano
già cosa dovevano fare, caso per caso. Così, per esempio, il granduca
comandante del reggimento, e gli ufficiali ussari a lui famigliari, dopo una
giornata di gozzoviglia e di ubbriachezza, si immaginavano di essere diventati
dei lupi. Allora tutti si spogliavano, e, nudi, correvano di notte nelle vie
deserte di Zarkoie-Selo. Là si accovacciavano a terra, e col capo rivolto al
cielo cominciavano a emettere dei lugubri ululati. Non appena li udiva, il
vecchio dispensiere portava sulla scalinata del palazzo una tinozza, la
riempiva di champagne ed acquavite, e tutta la compagnia vi si avvicinava
saltellando, lappava la bevanda e gridava e urlava e mordeva. Queste scene non
passavano inosservate nella popolazione della piccola città, ma nessuno se ne
indignava eccessivamente, poichè i costumi della società di Zarkoie-Selo non
erano di molto superiori a quelli degli ussari. Accadeva sovente che si dovesse
strappare il granduca Nicola Nicolaievic dal tetto della casa, dove si
appollaiava, completamente nudo, a cantare una serenata alla luna o alla
diletta, una ricca mercantessa».
Da un uomo come Nicola nato il 6
maggio 1868, la gente russa non poteva aspettarsi che la decomposizione
dell'impero. I sudditi non avevano nulla da aspettarsi che i castighi di un
ubbriaco. Era un vigliacco. Con la famiglia della Kchotinskaia, dalla quale
aveva avuto due figli e della quale si diceva innamorato pazzo, ha sposato la
straniera più nefasta e più iettatrice e più odiata dai russi come una sfida al
Paese che aspettava da lui un'atmosfera di pace feconda. Il procuratore del
Santo Sinodo, l'esecrato e virulento Pobyedonostzef (il papa nero), che aveva
perseguitato il regno durante Alessandro III, accorciando le poche libertà coi
suoi veleni religiosi, è stato il suo dittatore. Gli ha divorato il cervello.
Lo Czar non ha avuto più volontà che non fosse del procuratore infame. Pauroso
e superstizioso più del falso padre Alessandro III — l'imperatore che non ha
voluto mettere piede nel palazzo d'Inverno dopo il massacro nichilista di
Alessandro II — si circondò di polizie — l'una in agguato dell'altra.
Dappertutto Nicola vedeva l'ombra del regicida. Ricordo i trambusti del 1905
considerati una data rivoluzionaria. Egli ha consumato la massima delle sue
vigliaccherie. Il Gapone — che non era ancora in pubblico come agente o spia
imperiale — aveva organizzato con gli altri leaders una processione
proletaria per ottenere i miglioramenti delle classi lavoratrici. Fra le icone
in processione erano quelle dell'imperatore e della abbominata imperatrice. I
processionisti erano avviati al Palazzo d'Inverno. Giunti, il Gapone si gettò
in ginocchio con la faccia atterrata del pregante. I cavalli dei cosacchi con i
caracollamenti e gli acculattamenti avevano provocata la tempesta. Tutti
s'aspettavano che alla lettura dei vogliamo dei lavoratori lo Czar si
sarebbe fatto vivo con una risposta commossa. La Commissione fu subito dispersa. Lo Czar faceva rispondere dalla cavalleria a sciabolate e a
revolverate: una strage. Un si salvi chi può. Gli operai venivano inseguiti da
tutti i lati. Morti dovunque. Dovunque uomini, donne, ragazzi, icone rimasti
sull'itinerario delle fughe a precipizio a documentare la nequizia czaresca.
Se vogliamo tenere dietro alla
codardia di Nicola dobbiamo correre fino alla vigilia del disastro imperiale.
Allora noi ci troveremo nel «nido» dei pusillanimi effeminati del trono. Io non
mi valgo che di una seduta segreta avvenuta a Peterhof. Lo spavento era già
nell'ambiente imperiale. Il granduca Alexis, zio dello Czar, aveva sentito per
il primo la campana che il regno era agonizzante. I suoi dieci milioni di rubli
erano già in cassa della Banca d'Inghilterra. Il granduca Sergio non aveva più membra
tranquille. Egli era in ascoltazione. I minuti per lui erano sofferenze. I
cavalli delle sue scuderie erano attaccati ai veicoli che dovevano portarlo in
salvo e lui stesso non si coricava più che vestito. Lo Czar che aveva letto il
93 francese si era fatto fare degli usci nel suo gabinetto di lavoro e in certe
parti dei suoi appartamenti per una fuga immediata, attraverso labirinti che
mettevano alla caserma della pubblica sicurezza, dalla quale, in caso di
pericolo, poteva precipitarsi a bordo del yacht imperiale Standard. Il
panico e la temerità bolscevica erano in tutta la famiglia dei Romanov. Si
sentiva vicina al supplizio.
La notte del 10 maggio 1916 fu
tragica. A insaputa di tutti lo Czar aveva radunato i membri intorno al trono a
Peterhof. Nessuno di loro aveva più fiducia nè nella polizia nè nella Duma. A
presidente della seduta scelsero il decano dei granduchi, Mikaél Nicolaievitc,
e a funzionare da segretario il granduca Costantino. Malgrado la stagione i
presenti avevano freddo. Sentivano il momento. Lo Czar non si fece aspettare.
Si alzò e descrisse la sua condizione di imperatore davanti alla Duma. Il suo
presidente Mouromtzef aveva parlato chiaro in risposta al discorso del trono.
L'organizzazione parlamentare voleva essere autonoma coi ministri responsabili:
Voleva privilegi che nessun Czar avrebbe mai concessi. Il granduca Garemtjkine
consigliava lo scioglimento della Duma. Stolypine diceva che avrebbe irritato
il paese e suggeriva una dilazione. Che cosa si doveva fare? domandava una seconda
volta l'imperatore. Che si deve fare? Il granduca Vladimiro, comandante della
guardia imperiale, propose la corruzione. Egli diceva che gli uomini sono
fragili. Che pochi resistono all'offa che eleva ed arricchisce. Promettiamo ai leaders
dei cadetti titoli, onori e denari e la Duma sarà nostra. Il principe
D'Oldemburg tendeva alla benevolenza. Voleva tentare di riacquistare la
tranquillità con una conferenza che includesse i ministri e i membri moderati
della Duma, fra i quali desiderava Stakhovic, il conte Heiden, il professore
Chernechcvie e il principe Dolgoraukof. Nessuno aveva un piano possibile. Anche
l'imperatore non sapeva che ripetersi. Che cosa fare? In quel momento giunse il
fratello dello Czar, il granduca Michele Alessandrovic. Fra tutti si rivelò il
più moderno. Il mondo era cambiato e lui propendeva per fare delle concessioni
ai rappresentanti delle classi alla Camera.
O cedere o perire.
La faccia dello Czar divenne
biancastra. Si alzò di nuovo e con la voce che sentiva della sua collera disse:
Cedere! A chi? e in nome di che?
Il fratello rispose:
— Alla Duma e al suo presidente
Mouromtzef in nome della dinastia.
— Mai, scrisse il segretario
Costantino, ho veduto lo Czar così eccitato. Egli accusò il fratello di
debolezza e con un pugno al tavolo finì per giurare ch'egli avrebbe preferito
la morte che rinunciare al diritto di scegliere i ministri della corona.
— Tu mi dài pessimi consigli,
gridò al fratello. Tu vuoi indebolire la mia autorità — tu lo fai apposta.
E gli volse il dorso. La seduta
fu sciolta. Fra i due fratelli nacque un'inimicizia senza tregua. Lo Czar aveva
sospettato dietro il granduca un complotto per truffargli il trono. Michele
Alessandrovic ebbe delle crisi che lo tennero in letto alcuni giorni. Egli
protestava. Diceva che non si sarebbe mai incoronato. La malattia costante di
Alexis, czarevic, sempre ammalato poteva lasciare credere alle supposizioni. Ma
egli era pronto a sottoscrivere la rinuncia. Non voleva troni. Gli bastavano le
tribolazioni del fratello. Pregava i granduchi di andare a convincere
l'imperatore. Per non lasciare più dubbi lasciò il letto e andò a sposare una
divorziata che fu di un luogotenente di cavalleria. Il matrimonio con una
borghese lo squalificava, lo metteva al bando degli aspiranti. Allora Michele
ridivenne il suo «caro Michelino», ma non cessò di farlo filare.
|