La Czarina non poteva sciorinare la propria vergogna con più impudenza. Il marito stava perdendo
la corona trecentenaria della dinastia e lei con la faccia foderata della
prostituta non pensava che al ganzo. Pareva pazza. La si è trovata lunga e
distesa sul pavimento degli appartamenti imperiali che si dibatteva con se
stessa con gridi di donna male sgozzata. Protopopof, il ministro dell'interno
che si era rifugiato alla reggia come un fattucchiero dell'occultismo, faceva
sollevare i tavolini, interrogava lo spirito di Rasputin perchè rivelasse
all'imperatrice i nomi dei suoi assassini. Furono queste rivelazioni per cui
alcuni presenti alla scena vennero esiliati dallo Czar, anche quando tutta la
parentela delle vittime si prostrava e giurava sulla loro innocenza. «Sire, noi
tutti, che sottoscriviamo questo foglio, vi chiediamo ardentemente con istanza
di mitigare la Vostra severa decisione riguardo Dmitri Pavlovic. Sappiamo
ch'egli è ammalato, profondamente depresso. Voi che siete il suo tutore sapete
quale amore profondo per Voi e la nostra Patria abbia sempre nutrito il suo cuore».
Sua maestà ha respinta la lettera di tutti i firmatari con questa nota scritta
di suo pugno:
«Nessuno ha diritto di occuparsi
degli assassini. So che la coscienza di molti non è tranquilla, poichè Dmitri
Pavlovic non è il solo che sia implicato in questo affare. Sono sorpreso della
supplica che mi rivolgete. - Nicola».
Dopo una simile risposta i granduchi non si fecero
più vivi a Corte. Il granduca Nicola Mikhailovitc, cugino dell'imperatore e
padre di Dmitri che aveva avuto il giuramento dal figlio che le sue mani non
erano state imbrattate del sangue di Rasputin si è trovato chiuso l'uscio in
faccia della reggia. Il piccolo padre non aveva tempo di riceverlo. Fu solo
quando erano per l'aria i rintocchi dell'impero che il 28 febbraio Alessandra
Feodorovna lo fece chiamare d'urgenza a Corte.
— Andate subito al fronte — gli
disse —. Cercate di condurre soldati che ci siano devoti. Bisogna salvare il
trono a qualunque costo. Esso è in pericolo. — Il granduca, il più liberale
della risma, non volle prestarsi. Egli sapeva che ormai era inutile. L'impero
non aveva soldati devoti che per la rivoluzione. Più tardi la massima mondana
della reggia lo fece richiamare. Il granduca non ne volle sapere. Il manifesto
che concedeva la costituzione al popolo russo era stato redatto nella notte in
casa sua. Era inteso che esso doveva essere firmato da lui, dallo Czar, dal
granduca Michele e dal granduca Cirillo, marito di una donna che aveva
avvertita la czarina che l'impero era nel braciere popolare. Fu lei, la grande
duchessa Vittoria che mostrò alla vituperevole donna di Zarkoie-Selo che anche
i nobili erano nel movimento di liberazione. Alessandra Feodorowna se ne
indignò.
— Io sono sul trono da 22 anni —
disse — e conosco la Russia. So che il popolo ama la nostra famiglia. Chi oserà
levarsi contro di noi?
Ritorniamo al manifesto.
Sottoscritto venne inviato alla Duma. Malgrado questi trambusti che sarebbero
bastati a turbare una popolazione, l'imperatrice non sapeva che andare alla
ricerca del cadavere del suo adorato Rasputin, il quale aveva consigliato
Nicola di sciogliere, come venne sciolta, la Duma.
Le esequie del maiale erano
avvenute il 19 dicembre, due giorni dopo la sua uccisione. Gli agenti di
pubblica sicurezza lo hanno portato a un ospedale involto in un pezzo di tela e
legato da una corda. Il cadavere divenne proprietà di un generale che doveva
curarne le esequie per conto della amasia imperiale. Nell'intervallo, tra
l'ospedale e la sepoltura, una donnaccia lo trasse dalla tela e pagò cento
rubli all'agente perchè la aiutasse e tutti e due lo vestirono con un paio di
calzoni di velluto nero e una bluse ricamata in argento. Le autorità avevano
già ricevuto l'ordine di trasportare la salma del «santo» a Zarkoie-Selo. Il
convoglio vi giungeva a sera. Non c'erano lumi. Il colonnello Leman,
vice-comandante di palazzo, lo aspettava. Saltò nell'automobile e fece da guida
attraverso la foresta. Si fermarono tutti sull'area dove doveva costruirsi una
cappella. Cinque agenti lo scaricarono e lo adagiarono in una cassa e lo
rovesciarono nella fossa. Terminata la funzione il colonnello distribuì 200
rubli ciascuno, con l'ingiunzione di tacere di quello che avevano veduto.
La Corte sviava l'opinione pubblica facendo spargere la voce che fosse stato sepolto altrove. La Czarina voleva che il cadavere fosse tutto suo. Ella vi andava sovente. Vi aveva messo dei
guardiani che facevano tornare indietro i curiosi. Una sera è stata veduta in
una slitta con sua figlia Olga. Ne uscirono e vi si prostrarono. L'imperatrice
il 27 febbraio 1917 gli aveva dedicato una cappella che doveva sorgere.
La truppa di Zarkoie-Selo si era
confusa col popolo in rivoluzione. Dai soldati si è saputo subito che alle
esequie di Rasputin avevano preso parte l'imperatrice con tutte le sue figlie,
un generale e la sua compagna Vyrubov. Aveva ufficiato un diacono. Molte
lagrime erano state versate sulla tomba del «martire».
I prodromi della rivoluzione
erano nelle strade e nei palazzi. Si sentiva che la fine dello Czar era a poche
ore di distanza. Due reggimenti in piazza, incaricati l'uno di ammazzare
l'altro, hanno dato questo spettacolo al pubblico. Il comandante del reggimento
imperiale ha detto: «Non posso comandarvi di tirare sui vostri fratelli, ma io
sono troppo vecchio per mancare al mio giuramento!». Con una rivoltellata si
fracassò il cranio. I suoi soldati lo avvolsero in una bandiera rossa. — Paolo
Miliukof, storico, sociologo, deputato, uomo che sapeva a fondo sei lingue,
storico autorevolissimo per i suoi studi sulla Russia, professore dell'Università
di Mosca, autore dell'annata della lotta, con un programma legalista, vale a
dire che non esigeva che un Ministero responsabile, contribuiva al colpo di
Stato con un discorso nella gran sala Caterina che fu considerato il crollo
della monarchia. Non era caduto nel fango che il Ministero dello Czar. La
storia, diceva, non ha mai conosciuto governo tanto stupido, disonesto, vile e
traditore. «Siate uniti», diceva alle folle accorse a udire il discorso. «Siate
uniti voi pure soldati e ufficiali del nostro grande e glorioso esercito
russo». L'assemblea ha voluto sapere da chi erano stati scelti come nuovi
ministri. «Chi ci ha scelti? Nessuno. Se avessimo atteso l'elezione del popolo
i nostri nemici sarebbero ancora al potere. È la rivoluzione che ci ha scelti.
Non serberemo il posto un minuto di più se i rappresentanti del popolo non ci
eleggeranno. E i ministri chi saranno? Non ho segreti. Alla testa del nuovo
Governo collocheremo un uomo che fu spietatamente perseguitato dai despoti
passati: il principe G. L. Lyov, presidente degli Zemstvo.
— Censuario!
— Censuari!
— Censuari! -rispondeva il
professore. — Ma è la sola organizzazione che darà modo agli altri strati
sociali di organizzarsi. Io sono pure felice di annunciarvi che abbiamo con noi
un deputato che non è un censuario: Kerenski. Egli sarà il nostro ministro di
Giustizia. I tristi eroi dell'antica tirannide saranno nelle sue mani. A me,
Miliukof, sarà affidato il portafoglio degli esteri. — Gutckov, uomo di
tradizione nera, è stato fischiato. Il vecchio professore dopo avere fatto
passare il ministro della Guerra, della Marina, della Agricoltura, ecc., venne
a parlare della dinastia. «La mia risposta non piacerà a tutti. L'antico
despota che ha condotto la Russia sull'orlo dell'abisso rinuncerà benevolmente
al trono, oppure sarà rovesciato. Il potere passerà al reggente Michele
Alessandrovic (rumori furiosi), Alessio sarà erede.... (grida più violente),
— Voi ci conservate la vecchia
dinastia!
— Sarà una monarchia costituzionale parlamentare.
La seduta fu sciolta fra il
malcontento generale. Non valeva la pena di sbattere giù un tiranno per mettere
al suo posto uno che forse potrà essere peggiore. La monarchia non era più
voluta da nessuno. Intanto che si issavano le bandiere rosse sulle alture del
Palazzo d'inverno, sulla sede del Soviet e sulla Duma, Nicola II riceveva al
quartiere generale la notizia della rivoluzione.
Il sovrano si rimise subito in
viaggio per Zarkoie-Selo. Giunse a Pskov il 14 marzo alle otto di sera. Alle
due di notte fece sapere ch'egli era disposto a fare delle concessioni. Scrisse
un manifesto in questo senso. Troppo tardi. Rodzianko, presidente della morente
Duma, glielo fece sapere attraverso l'ordigno auricolare. Troppo tardi! Per lui
non c'era più che l'abdicazione. Lo Czar si dichiarò pronto a ubbidire alla
volontà del paese. Lo Czar non domandava che la presenza di Rodzianko. Il
presidente aveva altre cose da fare.
Gli giungevano invece due
delegati: Giulghin, deputato e Gutckov. È quest'ultimo che narra:
«Quando entrammo nel vagone
imperiale vi trovammo il barone Fredericks, ministro di Corte, e un generale
sconosciuto. Poco dopo apparve lo Czar Nicola. Ci salutò piuttosto amabilmente
e ci invitò a sedere. Il Comitato della Duma gli aveva chiesto di assistere al
colloquio. Gutckov espose la situazione. Non nascose nulla. Teneva gli occhi
bassi per dissimulare la sua emozione e parlare più agevolmente. Terminando
disse che la sola via d'uscita era l'abdicazione dello Czar in favore di suo
figlio Alessio. Lo Czar con voce quasi calma rispose:
— Ho riflettuto. Gli avvenimenti
d'oggi mi hanno deciso all'abdicazione, ma non posso separarmi da mio figlio.
Vi propongo in sua vece mio fratello Michele.
I due delegati si consultarono e
riapparvero.
— Non abbiamo il diritto di immischiarci
nei vostri sentimenti di padre. Inoltre il piccolo imperatore ricordando sempre
i suoi genitori, potrebbe nutrire sentimenti ostili contro coloro che da essi
lo avrebbero separato. Fate come volete.
Lo Czar Nicola passò nel vicino
scompartimento donde ritornò con l'atto di abdicazione firmato. Vi facemmo dei
cambiamenti. Lo Czar firmò di nuovo.
L'orologio segnava le 11 e 50.
Dopo di che ci strinse la mano.
Partimmo recando nell'animo un
sentimento di compassione per l'uomo che seppe espiare le sue colpe abdicando
nobilmente e senza rimpianti».
La rivoluzione era un fatto
compiuto e legalizzato. Tutta la Russia leggeva sui muri la dichiarazione
dell'abdicatario:
«Per grazia di Dio, noi Nicola
II, imperatore di tutte le Russie, Czar di Polonia, granduca di Finlandia,
ecc., a tutti i nostri fedeli sudditi facciamo sapere:
«Nei giorni della gran lotta
contro il nemico esterno che si sforza da tre anni di assoggettare la nostra
patria, Dio ha voluto sottoporre la Russia a nuova e penosa prova. Dei torbidi
interni minacciano di avere una ripercussione fatale sull'andamento ulteriore
della tenace guerra. I destini della Russia, l'onore del nostro eroico
esercito, la fedeltà del popolo, tutto l'avvenire della nostra cara patria,
vogliono che la guerra sia condotta ad ogni costo a una fine vittoriosa.
«Il nostro crudele nemico fa i
suoi ultimi sforzi e si avvicina il momento nel quale il nostro valoroso
esercito, d'accordo con i nostri gloriosi alleati, abbatterà definitivamente il
nemico.
«In questi giorni decisivi per
la vita della Russia abbiamo creduto nostro còmpito di coscienza facilitare al
nostro popolo la stretta unione e l'organizzazione di tutte le sue forze per la
rapida realizzazione della vittoria.
«Ecco perchè d'accordo con la Duma dell'impero, abbiamo riconosciuto esser bene di abdicare alla corona dello Stato russo e
di deporre il supremo potere.
«Non volendo separarci dal
nostro amato figlio, noi trasmettiamo la nostra eredità a nostro fratello, il
granduca Michele Alessandrovic, benedicendolo per la sua assunzione al trono
dello Stato russo. Noi destiniamo nostro fratello a governare, in piena unione
con i rappresentanti della nazione che siedono nelle istituzioni legislative, e
a prestar loro giuramento inviolabile in nome della benamata patria.
«Noi facciamo appello a tutti i
fedeli figli della patria chiedendo loro di adempiere ai loro sacri e
patriottici doveri, obbedendo allo Czar in questo penoso momento di calamità
nazionali e di aiutarlo con i rappresentanti della nazione a condurre lo Stato
russo sulla via della prosperità, della felicità e della gloria.
«Dio aiuti la Russia.
«Nicola».
15 marzo 1917.
Il Governo provvisorio era
composto di bonaccioni. Invece di prendere l'autore di tutti i mali russi a
pedate, si sono commossi. Così nel manifesto, il più stramaledetto degli
uomini, che ha fatto appendere, imprigionare e morire in Siberia tanti uomini,
ha potuto parlare della «cara Russia», della «benamata patria», dei «fedeli
figli della patria», della «felicità dei popoli» e di altre castronerie di
effetto scenico.
Di diverso tra una rivoluzione e
l'altra c'è stata la sollecitudine. Quella francese è passata dallo
sventramento della Bastiglia alla ghigliottinatura di Luigi XVI in tre anni. La Russia non ha impiegato a vuotare il trono che tre giorni. Il fratello Michele non ha
accettato. Sfido! Sui palazzi pubblici sventolava la bandiera rossa. Per le vie
si udivano le grida di «basta di monarchia. Abbasso i Romanov». Il marxismo
penetrava; faceva sentire che la rivoluzione non era rivoluzione borghese. Gli
operai dei grandi Stabilimenti erano per le vie col grido vecchio del pane!
Grido che avrebbe dovuto essere migliorato. Del pane ne avevano mangiato
abbastanza. I granduchi, i primi leticoni del regno, avevano preso il largo.
Non erano che gozzovigliatori che rincasavano ubbriachi fradici. Gente odiosa.
Gente che si odiava, che si temeva, che si accusava, che si pedinava, che si
stracciava la riputazione imperiale come un mucchio di facchini.
Di ora in ora i treni si
vuotavano di soldati che erano stufi dei tre anni di guerra. In mezzo alle
folle che circolavano si udivano sovente delle scariche.
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