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Paolo Valera
La catastrofe degli czars

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  • Dalle esequie di Rasputin all'abdicazione dello Czar.
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Dalle esequie di Rasputin
all'abdicazione dello Czar.

 

La Czarina non poteva sciorinare la propria vergogna con più impudenza. Il marito stava perdendo la corona trecentenaria della dinastia e lei con la faccia foderata della prostituta non pensava che al ganzo. Pareva pazza. La si è trovata lunga e distesa sul pavimento degli appartamenti imperiali che si dibatteva con se stessa con gridi di donna male sgozzata. Protopopof, il ministro dell'interno che si era rifugiato alla reggia come un fattucchiero dell'occultismo, faceva sollevare i tavolini, interrogava lo spirito di Rasputin perchè rivelasse all'imperatrice i nomi dei suoi assassini. Furono queste rivelazioni per cui alcuni presenti alla scena vennero esiliati dallo Czar, anche quando tutta la parentela delle vittime si prostrava e giurava sulla loro innocenza. «Sire, noi tutti, che sottoscriviamo questo foglio, vi chiediamo ardentemente con istanza di mitigare la Vostra severa decisione riguardo Dmitri Pavlovic. Sappiamo ch'egli è ammalato, profondamente depresso. Voi che siete il suo tutore sapete quale amore profondo per Voi e la nostra Patria abbia sempre nutrito il suo cuore». Sua maestà ha respinta la lettera di tutti i firmatari con questa nota scritta di suo pugno:

«Nessuno ha diritto di occuparsi degli assassini. So che la coscienza di molti non è tranquilla, poichè Dmitri Pavlovic non è il solo che sia implicato in questo affare. Sono sorpreso della supplica che mi rivolgete. - Nicola».

Dopo una simile risposta i granduchi non si fecero più vivi a Corte. Il granduca Nicola Mikhailovitc, cugino dell'imperatore e padre di Dmitri che aveva avuto il giuramento dal figlio che le sue mani non erano state imbrattate del sangue di Rasputin si è trovato chiuso l'uscio in faccia della reggia. Il piccolo padre non aveva tempo di riceverlo. Fu solo quando erano per l'aria i rintocchi dell'impero che il 28 febbraio Alessandra Feodorovna lo fece chiamare d'urgenza a Corte.

Andate subito al fronte — gli disse —. Cercate di condurre soldati che ci siano devoti. Bisogna salvare il trono a qualunque costo. Esso è in pericolo. — Il granduca, il più liberale della risma, non volle prestarsi. Egli sapeva che ormai era inutile. L'impero non aveva soldati devoti che per la rivoluzione. Più tardi la massima mondana della reggia lo fece richiamare. Il granduca non ne volle sapere. Il manifesto che concedeva la costituzione al popolo russo era stato redatto nella notte in casa sua. Era inteso che esso doveva essere firmato da lui, dallo Czar, dal granduca Michele e dal granduca Cirillo, marito di una donna che aveva avvertita la czarina che l'impero era nel braciere popolare. Fu lei, la grande duchessa Vittoria che mostrò alla vituperevole donna di Zarkoie-Selo che anche i nobili erano nel movimento di liberazione. Alessandra Feodorowna se ne indignò.

— Io sono sul trono da 22 annidisse — e conosco la Russia. So che il popolo ama la nostra famiglia. Chi oserà levarsi contro di noi?

Ritorniamo al manifesto. Sottoscritto venne inviato alla Duma. Malgrado questi trambusti che sarebbero bastati a turbare una popolazione, l'imperatrice non sapeva che andare alla ricerca del cadavere del suo adorato Rasputin, il quale aveva consigliato Nicola di sciogliere, come venne sciolta, la Duma.

Le esequie del maiale erano avvenute il 19 dicembre, due giorni dopo la sua uccisione. Gli agenti di pubblica sicurezza lo hanno portato a un ospedale involto in un pezzo di tela e legato da una corda. Il cadavere divenne proprietà di un generale che doveva curarne le esequie per conto della amasia imperiale. Nell'intervallo, tra l'ospedale e la sepoltura, una donnaccia lo trasse dalla tela e pagò cento rubli all'agente perchè la aiutasse e tutti e due lo vestirono con un paio di calzoni di velluto nero e una bluse ricamata in argento. Le autorità avevano già ricevuto l'ordine di trasportare la salma del «santo» a Zarkoie-Selo. Il convoglio vi giungeva a sera. Non c'erano lumi. Il colonnello Leman, vice-comandante di palazzo, lo aspettava. Saltò nell'automobile e fece da guida attraverso la foresta. Si fermarono tutti sull'area dove doveva costruirsi una cappella. Cinque agenti lo scaricarono e lo adagiarono in una cassa e lo rovesciarono nella fossa. Terminata la funzione il colonnello distribuì 200 rubli ciascuno, con l'ingiunzione di tacere di quello che avevano veduto.

La Corte sviava l'opinione pubblica facendo spargere la voce che fosse stato sepolto altrove. La Czarina voleva che il cadavere fosse tutto suo. Ella vi andava sovente. Vi aveva messo dei guardiani che facevano tornare indietro i curiosi. Una sera è stata veduta in una slitta con sua figlia Olga. Ne uscirono e vi si prostrarono. L'imperatrice il 27 febbraio 1917 gli aveva dedicato una cappella che doveva sorgere.

La truppa di Zarkoie-Selo si era confusa col popolo in rivoluzione. Dai soldati si è saputo subito che alle esequie di Rasputin avevano preso parte l'imperatrice con tutte le sue figlie, un generale e la sua compagna Vyrubov. Aveva ufficiato un diacono. Molte lagrime erano state versate sulla tomba del «martire».

I prodromi della rivoluzione erano nelle strade e nei palazzi. Si sentiva che la fine dello Czar era a poche ore di distanza. Due reggimenti in piazza, incaricati l'uno di ammazzare l'altro, hanno dato questo spettacolo al pubblico. Il comandante del reggimento imperiale ha detto: «Non posso comandarvi di tirare sui vostri fratelli, ma io sono troppo vecchio per mancare al mio giuramento!». Con una rivoltellata si fracassò il cranio. I suoi soldati lo avvolsero in una bandiera rossa. — Paolo Miliukof, storico, sociologo, deputato, uomo che sapeva a fondo sei lingue, storico autorevolissimo per i suoi studi sulla Russia, professore dell'Università di Mosca, autore dell'annata della lotta, con un programma legalista, vale a dire che non esigeva che un Ministero responsabile, contribuiva al colpo di Stato con un discorso nella gran sala Caterina che fu considerato il crollo della monarchia. Non era caduto nel fango che il Ministero dello Czar. La storia, diceva, non ha mai conosciuto governo tanto stupido, disonesto, vile e traditore. «Siate uniti», diceva alle folle accorse a udire il discorso. «Siate uniti voi pure soldati e ufficiali del nostro grande e glorioso esercito russo». L'assemblea ha voluto sapere da chi erano stati scelti come nuovi ministri. «Chi ci ha scelti? Nessuno. Se avessimo atteso l'elezione del popolo i nostri nemici sarebbero ancora al potere. È la rivoluzione che ci ha scelti. Non serberemo il posto un minuto di più se i rappresentanti del popolo non ci eleggeranno. E i ministri chi saranno? Non ho segreti. Alla testa del nuovo Governo collocheremo un uomo che fu spietatamente perseguitato dai despoti passati: il principe G. L. Lyov, presidente degli Zemstvo.

Censuario!

Censuari!

Censuari! -rispondeva il professore. — Ma è la sola organizzazione che darà modo agli altri strati sociali di organizzarsi. Io sono pure felice di annunciarvi che abbiamo con noi un deputato che non è un censuario: Kerenski. Egli sarà il nostro ministro di Giustizia. I tristi eroi dell'antica tirannide saranno nelle sue mani. A me, Miliukof, sarà affidato il portafoglio degli esteri. — Gutckov, uomo di tradizione nera, è stato fischiato. Il vecchio professore dopo avere fatto passare il ministro della Guerra, della Marina, della Agricoltura, ecc., venne a parlare della dinastia. «La mia risposta non piacerà a tutti. L'antico despota che ha condotto la Russia sull'orlo dell'abisso rinuncerà benevolmente al trono, oppure sarà rovesciato. Il potere passerà al reggente Michele Alessandrovic (rumori furiosi), Alessio sarà erede.... (grida più violente),

— Voi ci conservate la vecchia dinastia!

— Sarà una monarchia costituzionale parlamentare.

La seduta fu sciolta fra il malcontento generale. Non valeva la pena di sbattere giù un tiranno per mettere al suo posto uno che forse potrà essere peggiore. La monarchia non era più voluta da nessuno. Intanto che si issavano le bandiere rosse sulle alture del Palazzo d'inverno, sulla sede del Soviet e sulla Duma, Nicola II riceveva al quartiere generale la notizia della rivoluzione.

Il sovrano si rimise subito in viaggio per Zarkoie-Selo. Giunse a Pskov il 14 marzo alle otto di sera. Alle due di notte fece sapere ch'egli era disposto a fare delle concessioni. Scrisse un manifesto in questo senso. Troppo tardi. Rodzianko, presidente della morente Duma, glielo fece sapere attraverso l'ordigno auricolare. Troppo tardi! Per lui non c'era più che l'abdicazione. Lo Czar si dichiarò pronto a ubbidire alla volontà del paese. Lo Czar non domandava che la presenza di Rodzianko. Il presidente aveva altre cose da fare.

Gli giungevano invece due delegati: Giulghin, deputato e Gutckov. È quest'ultimo che narra:

«Quando entrammo nel vagone imperiale vi trovammo il barone Fredericks, ministro di Corte, e un generale sconosciuto. Poco dopo apparve lo Czar Nicola. Ci salutò piuttosto amabilmente e ci invitò a sedere. Il Comitato della Duma gli aveva chiesto di assistere al colloquio. Gutckov espose la situazione. Non nascose nulla. Teneva gli occhi bassi per dissimulare la sua emozione e parlare più agevolmente. Terminando disse che la sola via d'uscita era l'abdicazione dello Czar in favore di suo figlio Alessio. Lo Czar con voce quasi calma rispose:

— Ho riflettuto. Gli avvenimenti d'oggi mi hanno deciso all'abdicazione, ma non posso separarmi da mio figlio. Vi propongo in sua vece mio fratello Michele.

I due delegati si consultarono e riapparvero.

— Non abbiamo il diritto di immischiarci nei vostri sentimenti di padre. Inoltre il piccolo imperatore ricordando sempre i suoi genitori, potrebbe nutrire sentimenti ostili contro coloro che da essi lo avrebbero separato. Fate come volete.

Lo Czar Nicola passò nel vicino scompartimento donde ritornò con l'atto di abdicazione firmato. Vi facemmo dei cambiamenti. Lo Czar firmò di nuovo.

L'orologio segnava le 11 e 50.

Dopo di che ci strinse la mano.

Partimmo recando nell'animo un sentimento di compassione per l'uomo che seppe espiare le sue colpe abdicando nobilmente e senza rimpianti».

La rivoluzione era un fatto compiuto e legalizzato. Tutta la Russia leggeva sui muri la dichiarazione dell'abdicatario:

«Per grazia di Dio, noi Nicola II, imperatore di tutte le Russie, Czar di Polonia, granduca di Finlandia, ecc., a tutti i nostri fedeli sudditi facciamo sapere:

«Nei giorni della gran lotta contro il nemico esterno che si sforza da tre anni di assoggettare la nostra patria, Dio ha voluto sottoporre la Russia a nuova e penosa prova. Dei torbidi interni minacciano di avere una ripercussione fatale sull'andamento ulteriore della tenace guerra. I destini della Russia, l'onore del nostro eroico esercito, la fedeltà del popolo, tutto l'avvenire della nostra cara patria, vogliono che la guerra sia condotta ad ogni costo a una fine vittoriosa.

«Il nostro crudele nemico fa i suoi ultimi sforzi e si avvicina il momento nel quale il nostro valoroso esercito, d'accordo con i nostri gloriosi alleati, abbatterà definitivamente il nemico.

«In questi giorni decisivi per la vita della Russia abbiamo creduto nostro còmpito di coscienza facilitare al nostro popolo la stretta unione e l'organizzazione di tutte le sue forze per la rapida realizzazione della vittoria.

«Ecco perchè d'accordo con la Duma dell'impero, abbiamo riconosciuto esser bene di abdicare alla corona dello Stato russo e di deporre il supremo potere.

«Non volendo separarci dal nostro amato figlio, noi trasmettiamo la nostra eredità a nostro fratello, il granduca Michele Alessandrovic, benedicendolo per la sua assunzione al trono dello Stato russo. Noi destiniamo nostro fratello a governare, in piena unione con i rappresentanti della nazione che siedono nelle istituzioni legislative, e a prestar loro giuramento inviolabile in nome della benamata patria.

«Noi facciamo appello a tutti i fedeli figli della patria chiedendo loro di adempiere ai loro sacri e patriottici doveri, obbedendo allo Czar in questo penoso momento di calamità nazionali e di aiutarlo con i rappresentanti della nazione a condurre lo Stato russo sulla via della prosperità, della felicità e della gloria.

«Dio aiuti la Russia.

«Nicola».

15 marzo 1917.

 

Il Governo provvisorio era composto di bonaccioni. Invece di prendere l'autore di tutti i mali russi a pedate, si sono commossi. Così nel manifesto, il più stramaledetto degli uomini, che ha fatto appendere, imprigionare e morire in Siberia tanti uomini, ha potuto parlare della «cara Russia», della «benamata patria», dei «fedeli figli della patria», della «felicità dei popoli» e di altre castronerie di effetto scenico.

Di diverso tra una rivoluzione e l'altra c'è stata la sollecitudine. Quella francese è passata dallo sventramento della Bastiglia alla ghigliottinatura di Luigi XVI in tre anni. La Russia non ha impiegato a vuotare il trono che tre giorni. Il fratello Michele non ha accettato. Sfido! Sui palazzi pubblici sventolava la bandiera rossa. Per le vie si udivano le grida di «basta di monarchia. Abbasso i Romanov». Il marxismo penetrava; faceva sentire che la rivoluzione non era rivoluzione borghese. Gli operai dei grandi Stabilimenti erano per le vie col grido vecchio del pane! Grido che avrebbe dovuto essere migliorato. Del pane ne avevano mangiato abbastanza. I granduchi, i primi leticoni del regno, avevano preso il largo. Non erano che gozzovigliatori che rincasavano ubbriachi fradici. Gente odiosa. Gente che si odiava, che si temeva, che si accusava, che si pedinava, che si stracciava la riputazione imperiale come un mucchio di facchini.

Di ora in ora i treni si vuotavano di soldati che erano stufi dei tre anni di guerra. In mezzo alle folle che circolavano si udivano sovente delle scariche.

 




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