Kerenski.
L'impero era in pezzi. La massa
dell'autorità czaristica che aveva terrorizzato per più di tre secoli centinaia
di milioni d'uomini era nella cloaca degli orrori imperiali. Lo Czar circolava
come un nome vituperevole. Il Governo provvisorio era in piedi meravigliato di
se stesso, stupefatto della sua potenza. Tutti l'acclamavano. Pietrogrado aveva
ancora dei dubbi sulla propria liberazione. La gente era scettica, incredula
sull'abdicazione del tiranno. Kerenski, avvocato di 36 anni, capo del gruppo
travaglista alla Duma, con un passato pieno di propaganda ai minatori, ai
lavoratori della terra, alla popolazione delle fabbriche e delle officine,
passava dappertutto come una rivoluzione in cammino. Ohimè! Grandi frasi,
parole reboanti, eloquenza tronfia e patriottica, minacce di schiacciare il
nemico col ferro nel sangue.
Alessandro Feodorowitc Kerenski
era il solo che impersonava lo Stato. Miliukof, ministro degli Esteri, non era
che un legalista, un progressista, un professore di cattedra, un deputato
dell'antica Duma che aveva per programma «il Governo responsabile». Poco. Gli
altri del Governo non erano che amanuensi. Lui ordinava, organizzava,
concionava, correva dove maggiore era il pericolo a sedare, a infondere
energia, a trasmettere coraggio, a promettere un futuro d'oro. Con lui la pena
di morte dell'antico regime aveva cessato di funzionare. Il collo dei cittadini
era divenuto sacro. La polizia — abbiettezza del passato, vituperio imperiale,
creata dalla mente fosca che non produceva che delitti e disfatte — era nei
gorghi della fogna. La Russia repubblicana lo applaude. Non più poliziotti! Non
più spie! Non più Azev! Non più Gapone — il pope traditore, strangolato dalle
mani rivoluzionarie in un momento di profondo disgusto.
Kerenski si moltiplicava. In un
attimo spariva. La flotta del Mar Nero era insorta. Egli vi si precipitava. La entusiasmava
con un discorso, ne richiamava l'ammiraglio e poi via al fronte, a sostenere la
guerra. I soldati che avevano già sul registro due milioni di morti e quattro o
cinque milioni di feriti si sentivano a disagio. Il grand'uomo perdeva terreno.
Invece di abolire la coscrizione che aveva ammucchiato la gioventù per tanti
anni nelle caserme, piegava alle esigenze della Intesa. Voleva la continuazione
della guerra in un ambiente in cui si era stufi di morire per la gloria della
patria. Egli è stato preso per un gambettista, un uomo che non parlava che
dell'onore nazionale. Forse era in lui del Jules Favre, oratore spavaldo, con
prosa patriottarda. Ai tempi del '70 Jules Favre aveva affermazioni eroiche
come lui. Egli aveva affermato che i tedeschi non avrebbero avuto nè una pietra
nè un pollice di terreno. Si è veduto!...
Travaglista della terza Duma,
della «Duma nera», respingeva con orrore la volontà dei sovietisti che non
volevano più sapere degli eserciti con l'occhio nella schiena. Si sentiva il
girondino.... Non si ricordava neppure più che l'abolizione della coscrizione
era un caposaldo della Comune. Via! Egli, senza ascoltare la voce del Paese,
continuava a disseminare discorsi vuoti e fracassosi. Rifiutava di cacciare in
fondo alla fortezza di Pietro e Paolo la coppia imperiale. Uomo di legge,
voleva che nessuno fosse al disopra della legge. Lui, alla testa del Governo
provvisorio, non avrebbe mai permesso che l'abdicatario cadesse nelle mani dei
fanatici. Con un discorso focoso di più ore asseriva davanti ai delegati della
nuova Russia, che non c'era autorità legale che potesse mettere in istato
d'accusa il sovrano. Come? Si domandava l'uditorio. La rivoluzione non ha
precedenti. Rovescia tutta la legalità dell'antico regime. Essa crea un nuovo stato
d'animo nazionale. Egli non voleva imprigionamento crudele per l'uomo che
scioglieva la Duma che non gli piaceva dopo tre mesi e che mandava in prigione
per sei mesi chi presiedeva una seduta ch'egli chiamava «illegale». Come è
toccato al ministro degli Esteri del Governo provvisorio. Bisognava avere la
bontà del marzapane per tollerare fra i vivi Nicola. Nicola che ha tolto tra la
seconda e la terza Duma il diritto di voto ai paesani e che nel 1907 ne ha
fatto condannare più di 4000 dai tribunali reazionarî! È lui che ha popolata la Siberia di contadini. Nicola ve li mandava a «catene» — li mandava nel paese glaciale, dove i
prigionieri erano bastonati e sottomessi ai lavori forzati, con le mani e i
piedi carichi di ferri! E Kerenski lo proteggeva con la legge! Per soddisfare
un po' l'opinione pubblica si è convenuto di frugare nei letti dell'imperatore.
Si rivelava idealista, nutrito di chimere. Si contraddiceva. Aveva idee
confuse. Le sue aspirazioni di ieri combattevano quelle di domani. Addio ai sogni
dell'Internazionale! Non voleva collaboratori. Voleva essere solo. Il lavoro di
eloquenza lo ammazzava. Qualche volta sveniva. Ma non smetteva. Non chiamava
aiuti. Intanto sommosse, fucilate, a intervalli un po' dappertutto. I contadini
non volevano più lavorare la terra degli altri. Gli operai uscivano dagli
stabilimenti padronali con la testa in rivolta. Il Soviet — vale a dire il
Consiglio di più di duemila delegati proletari — incominciava a dissentire da
lui. Kerenski non capiva neppure la necessità della soppressione della stampa
borghese. In tempo di guerra civile, l'ancien régime deve perire
completamente. I giornali czaristi non potevano essere che immorali — come era
immorale la tipografia borghese. Kerenski sentiva più il '48 con le
insurrezioni disordinate che la Russia del 1917. La stampa nemica era una
oppressione come era una oppressione l'industria sfruttatrice.
Trotski, con un magnifico discorso, ha riprodotto
benissimo l'ambiente rivoluzionario. Durante la guerra negli armadi di ferro
del monarca passarono i documenti della sua fellonia. Troppo tardi. In
rivoluzione gli indugi sano fatali. Perchè essa riesca vittoriosa bisogna
tenere in mano l'orologio e contarne i minuti. Sapevano tutti che egli e i suoi
ministri avevano tentato di fare una pace separata con la Germania. I documenti accusatori erano spariti. La Commissione incaricata della Cancelleria ambulante che seguiva l'imperatore nelle sue visite al fronte non ha trovato
che le briciole dei suoi pensieri reconditi. In alcune lettere firmate dai
regnanti dei paesi alleati si diceva che la Germania faceva sforzi inauditi per una pace separata. Data: marzo e aprile del 1916. In un'altra missiva, si incalzava l'Italia a separarsi dagli alleati, promettendole concessioni
più importanti di quelle fatte dai parecchisti. Nicola ha scritto con la sua
calligrafia. «M. K. mi ha già parlato di tutto questo». Se la Russia avesse piegato avrebbe dovuto cedere al Kaiser una delle provincie baltiche, la Curlandia e la città di Kovno. In compenso lo Czar si sarebbe arricchito della Bucovina, di
tutta l'Armenia, di una parte della Persia e del libero passaggio dei
Dardanelli, ecc. Erano lettere senza importanza. La Czarina che aveva lavorato tanto per la pace separata si era impadronita a tempo dei documenti
del tradimento.
Kerenski voleva essere mite. Non
voleva «insudiciare» la rivoluzione col sangue dei ribaldi imperiali che
avevano fatto della Russia un campo per tutti i lupi della reazione. Marat,
Danton, Robespierre gli facevano orrore. Egli orava e riposava e non udiva il
vento popolare che strepitava per le sue indulgenze.
Riassumo Trotzki.
Durante la guerra civile, il
diritto di servirsi della violenza non appartiene che agli oppressi. Se la
violenza fosse praticata dagli oppressori sarebbe immorale. La Pravda (la Verità), l'organo del primo cittadino russo, cioè di Kerenski, non capiva
neppure la confisca. Confiscare i terreni, confiscare le Banche, confiscare gli
stabili, confiscare le proprietà imperiali, confiscare tutto. Confiscare o
perire. I kerenkisti che vivevano di utopie del passato regime vedevano in ogni
movimento l'agonia del bolscevismo. Ma era anch'essa un'illusione. Non c'erano
sepoltori per il bolscevismo. Esso andava via per il suo stradone convinto che
la rivoluzione era sua. Kerenski non aveva che il potere. Potere effimero.
L'avvenire non gli dava più salvezza che in una fuga. Si doveva preparare,
dicevano le masse del Soviet. Egli è un politicante, un salvatore di glorie
nazionali.
Kerenski sorrideva e lasciava
vivere i giornali che lo lusingavano, gonfiandolo, facendogli una statua. Con
Kerenski i quotidiani che appestavano l'aria rivoluzionaria non cessarono la
loro funzione nefasta che quando comparvero sulla piattaforma Lenin e Trotzki.
È allora che si disinfettarono le due capitali con una sovietata.
Inutile. Kerenski, ci ricordava John Burns, operaio divenuto ministro in
Inghilterra. Raggiunto il potere, gli oratori dalla prosa ampollosa finiscono
il lor compito. Si rivelano impotenti. Incomincia la loro decadenza. Kerenski toccato
lo zenit non ha avuto che lente o rapide discese. Le sue orazioni non
scaldavano più. Egli non era che un attore in fine di carriera. Fatto un
discorso credeva di avere seminato delle idee. Errore. Egli non aveva sparso
che parole altosonanti, che della eloquenza democratica, falsa, tinta di rosso.
Invece di rinvigorire i cervelli li smascolinava. Il grand'uomo era perduto.
Simpatico, bassotto, piuttosto
scarno, con un leggero tremito alla bocca, segno del suo ticchio nervoso. Sulle
guance sono le tracce dei patimenti dei tempi andati. Occhi luminosi o
voluttuosi, oltraggiati dall'assenza dei peli cigliari. Le sue sopracciglie
sembrano schizzi di penna caricaturale.
Egli deve avere pianto sulla
sterilità della sua oratoria.
Al momento di abbandonare la sua
sovranità non ha trovato un soldato che lo abbia ascoltato e si sia deciso a
prendere il fucile per il fronte. Dietro lui non vi sono che discorsi. Ha
abitato il Palazzo d'Inverno e il Palazzo di Zarkoie-Selo, come in un sogno
fantastico. Invece del porcaio rasputiniano vi ha trovato la seduzione e il
fascino. Queste soddisfazioni personali sono state considerate due atti degni
di Masaniello. Non una legge, non un decreto si sono trovati al suo dorso per
la rinnovazione del regime. Egli se ne andava dal luogo dove credeva di avere
arroventati i cervelli, mentre i soldati russi fraternizzavano con i soldati
tedeschi. Quale maledizione! L'esercito era disfatto. Gli ufficiali della
disciplina e per la guerra cadevano fulminati come nemici. I generali fuggivano
o rimanevano sulla strada. Si disertava. A Tzaritzine, a Tambof, a Odessa, a
Mosca i fantaccini rifiutavano di partire per il fronte a ricaricare i fucili.
Kerenski aveva scritto un prikase
per la cessazione dello scambio fra soldati russi e soldati tedeschi. E i
soldati continuavano a scambiarsi il pane, lo zucchero, il vino, il sapone, la
vodka. Prima di lasciare la Russia, Kerenski, ha dovuto bere il suo calice fino
al limaccio. Dopo uno dei suoi discorsi elettrizzanti della sua eloquenza, un
soldato è uscito dai ranghi per dire al Ministro che egli non voleva la guerra.
— Io non voglio più combattere,
signor Kerenski. Il soldato aveva in mano la pubblicazione intitolata la
dichiarazione del diritto del soldato.
Così gli è capitato al fronte del nord. Il Ministro
della Guerra aveva finito uno dei suoi gloriosi discorsi, sfavillanti di
scintille. Uno dei soldati usciva a ripetere la dichiarazione di quell'altro.
Kerenski è diventato smorto e ha chiamato il colonnello perchè gli mandasse il
ribelle per svergognarlo in faccia a tutti come un cialtrone indegno di
difendere il territorio russo. Il soldato perdette i sensi. Tutti gli altri che
avevano sentito il disonore del collega si votavano alla patria. Fu un vero
trionfo orale. A Kerenski sono venute le lagrime agli occhi. Poco dopo gli
ufficiali confidarono a un corrispondente che la scena che egli aveva veduta
non era stata che un fuoco di paglia. Neppure uno ha voluto sprecare la propria
vita per la vittoria degli alleati....
Più tardi ha dovuto impallidire.
Il generale Denikine che ritornava dal fronte gli ha letto una descrizione che
valeva per tutte le unità militari. Dieci milioni d'uomini si erano quasi tutti
rifiutati di battersi. L'istinto animale della conservazione gli aveva rivelato
lo stato latente della decomposizione. Più di dieci Divisioni avevano gettate
le armi in blocco. I capi di tutti i gradi, i Comitati, gli oratori, gli
agitatori per rialzare il morale degli attori della guerra erano discesi fino
alle supplicazioni, fino alla implorazione, fino alla esortazione senza
riuscire a nulla. Si perdette un mese. Il secondo Corpo caucasico e la 167a
Divisione erano in una condizione deplorevole. Molte unità avevano perduto
l'aspetto umano. Non dimenticherò mai, diceva, le ore passate al reggimento
170° e alla 173a Divisione. Certi reggimenti, udite!, si erano
costruite otto e perfino dieci distillerie. Non si occupavano più che di bere.
Giocavano, rissavano, rapinavano e qualche volta si ammazzavano. I creduti
migliori o tornavano indietro o prendevano la decisione irrevocabile di non
battersi. Il generalissimo accusava i capi. Aveva torto. Partito lui, i soldati
riprendevano la parola ed esortavano i camerati a non ascoltare il «vecchio
borghese».
La parabola kerenskiana fu
breve. In pochi mesi egli ha cambiato tre portafogli. Ministro di giustizia,
Ministro di guerra, presidente dei Ministri. Le sue giornate più dolorose che
hanno inaffiato di sangue umano il suo stato di servizio nel Governo
provvisorio furono nel luglio del 1917. Egli ha fatto tirare su i «criminali»,
cioè sui propagandisti internazionali. L'uomo che aveva mangiato tutto se
stesso in un Governo provvisorio era giunto coi piedi sull'orlo dell'abisso
leniniano. Le masse stavano per rovesciarvelo.
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