Kerenski non fu giusto. Vissuto
in una Duma di «gentiluomini» non è stato all'altezza del còmpito nè come
Ministro di giustizia, nè come Ministro di guerra. Nell'Assemblea dei
montagnardi francesi non gli sarebbe rimasta la testa sulle spalle. Egli non ha
saputo disfarsi dell'antico regime. Non ha dato soddisfazione al popolo che lui
chiamava «plebe». I suoi atti e il suo linguaggio non facevano che offendere la
opinione pubblica. Non c'è lettore straniero che non sappia dell'odio russo per
la polizia russa che massacrava per conto della autocrazia. Gli arnesi del
delitto — coloro che gettavano tutta una popolazione in crisi di sangue e di
spavento — dovevano essere eliminati, fugati, buttati nei fiumi. Le provincie
erano tutte piene delle loro vittime. Fino agli sgoccioli della vita imperiale
si sapeva che il Ministro dell'Interno non era che un capo di polizia non meno
aggressivo di Plehwe — assolutista feroce e astuto, giacobino dell'aristocrazia
che gli intellettuali hanno dovuto sopprimere facendolo saltare in aria con la
vettura e il portafoglio che conteneva i progetti per distruggere mezza umanità
e fare della Siberia un grande deposito di malcontenti. In rivoluzione si
agisce. Un uomo come Protopopof — l'ultimo Ministro degli Interni dell'antico
regime, non doveva sopravvivere al suo arresto due minuti, il tempo per un
interrogatorio sommario. I suoi delitti erano leggendarii. Bastava l'ultima sua
concezione legislativa per consegnarlo al boia. Un tribunale rivoluzionario non
avrebbe aggiunto nulla. Il suo atroce misfatto era nell'ultima seduta di
Zarkoie-Selo. Narriamo e giudicate.
Prima che scoppiasse la grande
rivoluzione di mutamento sociale, Protopopof che si credeva poliziescamente al
sicuro, malgrado il fermento nelle fabbriche e nelle officine, ideava un
attentato contro la terza Duma, come lo Czar lo aveva ideato contro la seconda,
quando la ridusse a una maggioranza reazionaria sostenitrice di autocrazia. Per
lui bisognava andare avanti e mettere sul lastrico i sessanta cadetti, i 25
travaglisti e i 17 sociali-democratici che non facevano, al Palazzo Tauride,
che dell'ostruzionismo. Ma non è stato a tempo a sciogliere la Duma. Avrebbe avuto bisogno di qualche settimana e la rivoluzione non gli ha dato che qualche
giorno. Come poliziotto e capo di tutte le polizie segrete e monturate ha
saputo inferocire lo Czar. I decimatori di popolo sedettero a Consiglio a
Zarkoie-Selo. Presenti: Nicola, il principe Galitzine, Vaichy, comandante del
palazzo, Nilof, Protopopof e alcuni altri del gabinetto alla Duma. Lo Czar
inclinava a fare concessioni misurate dalla grettezza alla Duma. E ne diceva la
ragione. Dopo tutto non dava molto. Si contentava di darle un po' di quella
libertà ch'egli stesso aveva proclamato il 17 ottobre 1905, quando i selciati e
gli acciottolati erano ancora sfatti e chiazzati del sangue rivoluzionario. La
minoranza si pronunciò contraria. Di concessione in concessione si sarebbe
andati allo scoronamento. Protopopof si contorse e pronunciò parole vigliacche.
Egli assicurava lo Czar che per lui non c'era trionfo che col pugno di ferro.
Avevano veduto Thiers. Non ha vinto che con la resistenza e con le stragi nelle
vie. I macelli comunardi furono suoi. Bismarck era ancora un tipo moderno. La
brutalità era più saggia che la debolezza. Le vie berlinesi sono state
inaffiate del sangue proletario per ordine del cancelliere di ferro.
Lo Czar, come distratto e senza
poter consultare la Czarina, interruppe il Ministro alzando la mano e dicendo a
se stesso ad alta voce:
— Sia! Ebbene sia! Poichè è
necessario, concediamo.
Nicola diceva che le concessioni
dovevano essere infuse in un manifesto da redigersi seduta stante. Per non
sdrucciolare in un gabinetto responsabile, suggeriva d'inchiudere fra i nuovi
Ministri i membri più influenti e più abbaianti della Duma.
— Domando il permesso di dire
un'ultima parola, disse caldamente l'esecrato Ministro dell'interno — più
poliziotto e più liberticida e più assassino degli assassini del due Dicembre
parigino.
«Maestà, io credo che queste
concessioni, per minime che siano, siano inutili e pericolose. Inutili, perchè
l'opinione pubblica non se ne contenterà; pericolose, perchè esse ci
trascinerebbero a poco a poco ad altre concessioni più disastrose alle
istituzioni di Vostra Maestà. Affermo che non vi è nulla di minaccioso nel
movimento operaio e che la situazione non è punto aggravata. Vi sono forse in
tutta la Russia tre centri ammutinati. Basta distruggerli perchè rinasca subito
la quiete.
Nicola si sentiva
ringagliardire.
— Io vi prometto il ritorno alla
tranquillità pubblica solo se metterete a mia disposizione quattrocento o
cinquecentomila rubli per la compera delle mitragliatrici allo «scopo di
schiacciare la rivoluzione nell'uovo».
Questa somma, diceva dopo una
pausa, è indispensabile all'acquisto delle mitragliatrici e all'insegnamento di
usarle agli agenti di polizia della capitale. Così provvisti di materiale di
combattimento, il Governo la farà facilmente finita con le sommosse, con le processioni,
con gli scioperi, con i comizi segreti e pubblici. Le persone che desiderano la
rivoluzione verranno mietute come campi di fieno. Con le mitragliatrici ogni
pericolo sarà evitato.
Lo Czar rimase alcuni secondi perplesso.
Poi come se avesse ricevuto l'ispirazione del defunto Rasputin si volse al
terribile Ministro:
— Poichè voi siete persuaso
della riuscita, eseguite il vostro programma. Io confido in voi.
Il Consiglio concedette 350.000
rubli con lo scopo preciso di «schiacciare la rivoluzione nell'uovo».
Il resto è noto. Le
mitragliatrici fecero meraviglie. Rovesciarono al suolo centinaia e centinaia
di uomini assembrati. I maneggiatori di mitragliatrici non se la cavarono come
aveva predetto Protopopof. Centinaia e centinaia di loro vennero massacrati a
colpi di fucile dai rivoluzionarii.
La rivoluzione si è incendiata. Quindici giorni
dopo la testa di Protopopof e la testa dell'ultimo Romanov dovevano essere in
processione sui pali come quelle degli aristocratici della grande rivoluzione
francese. Invece!
Kerenski era mite e proteggeva i
delinquenti con la mitezza. Cito un altro fatto imperiale della arrendevolezza
e della benevolenza e della tenerezza del grande Ministro. La gente cercava
nell'aria la testa di Nicola. Non le pareva possibile che ci fosse della
clemenza per l'uomo che aveva legiferato fino all'ultimo giorno con la
mitragliatrice, con i cosacchi dalle lance lunghe e con i gendarmi bordati di
rosso, come ditte di spargitori di sangue. Kerenski era più legale della legge.
Ai rimproveri dei Soviets rispondeva come un gentiluomo sordo alle incitazioni.
Non si poteva demolire tutto in una volta. Cromwell era Cromwell. Distanziava
di parecchi secoli. Cromwell aveva abbattuto anche le folle, anche i paesani.
In Russia non c'era legge per abbattere i sovrani. C'era la violenza, non la
legge. I nichilisti avevano assassinato Alessandro II e si capisce. Hanno
scontato il loro delitto. Volevano la rivoluzione e la reazione li ha
schiacciati. Lui, Kerenski, non voleva circolare per la posterità come il più
rosso dei giacobini russi. Ma i membri del Soviet della capitale e i membri dei
Soviets delle provincie insistevano e minacciavano di rovesciare il Ministero
provvisorio, il quale, dopo sei mesi, non aveva ancora osato interrogare le
masse elettorali per paura di rimanere a sua volta sul campo della disfatta.
Lo Czar e la sua famiglia, dopo
l'abdicazione del 15 marzo 1917, non erano stati scomodati. Vivevano nello
stesso fasto imperiale. Nicola, abdicatario, era giunto a Pietrogrado,
circondato da una scorta militare che aveva avuto per lui il rispetto
dell'antico regime.
Intorno a Nicola si respirava un
alito di sangue umano. Senza la sua aria modesta lo si sarebbe creduto il
Calcraft della costituzione inglese o il Deibler della costituzione francese.
Si vedeva in lui un carnefice.
Kerenski, ministro della
giustizia nel gabinetto del principe Lvof, non si lasciò commuovere. I Soviets
e i sovietisti urlavano per un po' di giustizia, ma lui teneva duro. Lui vivo non
avrebbe mai permesso di insultare la monarchia trecentenaria per violare la
legge. Non voleva che il capo di un impero assoluto fosse responsabile degli
avvenimenti che erano avvenuti nel suo regno. Mancherebbe! Lo Czar non poteva
essere alla reggia e in ogni luogo. Il Consiglio dei Ministri fu con Kerenski.
Neppure gli altri volevano maltrattare il povero Nicola. Per contentare gli
insaziabili di giustizia, il Consiglio aveva aderito a mantenere la famiglia
del Palazzo Alessandro di Zarkoie-Selo sotto una certa sorveglianza. E così
venne sedato il tumulto che incominciava a ingrossare.
L'ex-sovrano abitava un
appartamento separato dalla famiglia, al secondo piano del Palazzo, dando la
sua «parola d'onore» che non avrebbe mai cercato di rivedere la sposa. Durante
la sua visita quotidiana ai figli la ex-Czarina doveva allontanarsi in un'altra
ala del Palazzo. I funzionari e le persone del vecchio seguito non dovevano
avere comunicazioni con la gente di fuori. L'uscita era loro proibita.
Nicola era poltrone. Si alzava
tra le nove e le dieci. Sdigiunava con una tazza di tè, con alcuni biscotti e
con un uovo. Si faceva comperare i giornali da un soldato e li leggeva
avidamente. Colazionava alla una e pranzava alle otto. Le sue vivande erano
legumi, pesce e frutta. Dai suoi pasti era esclusa la carne. Non beveva vino.
La mezza bottiglia che gli portavano rimaneva intatta. L'ipocrita imperiale si
faceva credere sobrio!
La cucina di Nicola detronizzato
era diretta da Carlo Oliviero, chef francese, il quale aveva promesso di
spendere per gli ospiti confinati nel Palazzo in ragione di dodici lire a
testa. Il menù veniva sottoposto ogni mattina all'ufficiale di guardia.
L'erede al trono, Alessio, era l'unico che poteva ordinare a capriccio e fin
che voleva. Piccolo e sempre ammalato, i membri del Governo che lo avevano
scelto per successore al trono, non hanno voluto sottoporlo al menù dei
confinati. Il piccolo mangiava sovente a letto.
L'ex-Czar fatta la colazione,
indossava l'uniforme di colonnello, grado al quale era pervenuto durante la
vita del padre, e scendeva in giardino per la sua passeggiata, dove era atteso
dagli incaricati di sorvegliarlo. Sera e mattina, lui e la famiglia, si
recavano in chiesa. Vi si inginocchiavano. Alessandra Feodorovna si prostrava
distante dal marito e separata da un paravento. Costei era divenuta più
bigotta. La morte di Rasputin le aveva smagrato il volto. Era ammalata di
religiosità. Pareva vivesse fuori del creato. Terrea, con le labbra smunte e
premute l'una sull'altra, rimaneva sulle ginocchia come una statua di marmo.
Pianse una sola volta, quando andarono a portarle via la Vyrubov-fattucchiera degli appartamenti dell'ex-imperatrice. Essa era stata destinata alla
fortezza di Pietro e Paolo con le sue grucce che le servivano a stare in piedi
dopo il suo infortunio ferroviario.
L'ex-sovrana una volta che aveva
cessato di collaborare alla tirannia dell'impero per conto del marito,
coadiuvata dalla nobiltà assassina, nobiltà che sfollava il regno con salassate
spaventose, era divenuta triste. La sua faccia era sfigurata. Feodorovna non si
occupava più che di leggere libercoli noiosi e religiosi. Nicola era divenuto
più indifferente di lei. Non amava più che la famiglia. Era stanco di sommosse
— stanco di essere alla testa di un impero di malcontenti e di riottosi e di
congiurati contro la sua vita. Voleva la quiete. Gli bastavano la moglie e i
figli. Il suo favorito era l'Alessio, al quale non avrebbe mai dato le
tribolazioni del trono. Ah no! diceva stringendoselo al petto.
Egli era molto riconoscente a
Kerenski per le gentilezze. Non gli aveva dato nulla di eccessivo, ma non aveva
permesso che a lui e ai suoi si facessero delle scortesie. Il Ministro avrebbe
indubbiamente fatto di più senza la presenza del Soviet il quale insisteva perché
l'ex Nicola II venisse messo in istato d'accusa. Lasciare uno Czar nel proprio
Palazzo di regnante era una buaggine criminosa, dicevano i sovietisti. Gli si
dava modo di far scomparire i documenti che lo avrebbero fatto impiccare. I
membri del Soviet del maggio e del giugno 1917 avevano ragione di dubitare,
della energia del ministro Kerenski. Che cosa faceva? I sovietisti erano pronti
a spazzarlo via dalla piattaforma governativa con tutto il suo Governo
provvisorio.
Kerenski rimase ostinato più di
prima. Tuttavia, per l'insistenza del Comitato dei soldati, permise a una
Commissione di esaminare le carte della Corte imperiale. Nulla! Nulla di
compromettente! Bisognava supporre la coppia dei delinquenti imperiali bestie.
Era troppo tardi.
Con la complicità del vecchio
servidorame le lettere anonime, le denuncie, erano andate al falò. Le proteste
del Soviet fecero arrabbiare Kerenski.
Per la maldicenza egli non
faceva che «favorire» l'«assassino del popolo». Che fare? domandava ai colleghi
di gabinetto. Abbandonarlo al Soviet era condannarlo a morte. I Soviets non
volevano transigere. O processarlo o mandarlo via col Governo provvisorio.
Kerenski prolungò il benessere di Nicola con una intervista e con l'esilio,
nella speranza che con la famiglia imperiale in Siberia i sovietisti se ne
sarebbero scordati.
Egli era di cuore e non voleva
consegnare gli ex-sovrani alla «plebe». Bisognava portarli via, chiuderli in
una zona siberica meno scellerata. Andava a Zarkoie-Selo in automobile e
pensava alla bufera che si condensava su di lui. L'intervista era stata
domandata dallo Czar, pauroso di esiliare a Tobolsk. Alla Siberia egli
preferiva la Crimea, dove era morto suo padre.
— Io sono pronto, gli diceva lo
Czar, a subire senza mormorii la sorte che mi serba il destino. Non mi
spaventano nè la prigione nè l'esilio. Ma c'è mia moglie e ci sono i miei
figli! Quali sofferenze per loro, quando si svolgerà un simile processo,
suscitato dalle passioni politiche! Io ho paura, sopratutto per mio figlio
sempre sofferente.
Kerenski, commosso, si affrettò
a tranquillarlo asciugandosi gli occhi umidi di commozione. Avvocato, sentiva
la causa. Con la sua eloquenza lo avrebbe strappato ai giurati. Gli prese le
mani e con un leggero scotimento lo rese meno agitato.
— Poichè voi leggete i giornali,
gli disse, conoscete come la penso. Avversario assoluto di ogni processo,
l'eviterò ad ogni costo. Io inclino a credere che una volta esiliato, i Soviets
vi dimenticheranno... Contate sulla mia imparzialità.
L'ex Czar non era ancora
rientrato nella calma e nella sicurezza per quello che aveva udito dal ministro
della guerra.
— Lo so, conosco le vostre
intenzioni a mio riguardo: Esse sono benevole e ve ne sono riconoscentissimo.
Ma io temo che un giorno i Soviets vi forzino a levarvi contro di me.
Forse non aveva torto. Una volta
a Tobolsk i Soviets ricominceranno a urlare per riavere i Romanov. Non volevano
assassinarli come avevano fatto «gli assassini del popolo», ma esigevano che
tutti fossero processati e tutti subissero la loro sentenza. Era come innalzare
il patibolo.
I rappresentanti dei Romanov
hanno lasciato Zarkoie-Selo alla mezzanotte del l° agosto 1917, accompagnati da
nugoli di soldati a piedi e a cavallo. Prima che il veicolo si muovesse l'ex
Czar fece i suoi addii agli ufficiali e ai soldati che lo avevano custodito. La
sua voce tremava. Disse loro che sperava di ritornarvi. Un'ora dopo prese posto
con la moglie e i figli in una automobile aperta. I soldati gli presentarono le
armi e gli ufficiali lo salutarono. Sei persone dell'entourage della Czar
furono autorizzati, compreso il medico, a seguirlo in esilio. Tale e quale come
gli inglesi avevano fatto per Napoleone I. L'ex Czarina che non parlava da due
o tre giorni domandò a sua eccellenza Kerenski se dall'esilio avrebbe potuto scrivere
alle sue amiche di Pietrogrado.
— A condizione che tutte le
lettere passino dalla censura.
Il fischio del treno imperiale
mise fine al momento angoscioso.
Nicola salutò di nuovo gli ufficiali,
strinse la mano al ministro della guerra, e via! Il treno portava in Siberia
colui che pochi mesi prima era l'autocrate di tutte le Russie, colui che aveva
negato un po' di libertà ai sudditi, colui che aveva conceduto la somma per
mitragliare il popolo che non gli aveva domandato che un governo di
responsabili!
La stretta di mano di Kerenski
al dittatore del regno dei delitti è stato un oltraggio alla rivoluzione e a
tutti i Soviets.
Un'altra azione più vile è stata
compiuta dal presidente del governo provvisorio Kerenski. Egli più di tutti noi
sapeva e sa l'odio inveterato dei russi per le polizie russe, in borghese e in
uniforme. Tutta zavorra disumanata. Strumenti di atrocità. Colluvie umana
rovesciata sul mondo che aveva accenti di verità, che portava nella vita la
giustizia e l'uguaglianza, dove non era che malcontento. Polizia, delittuosa,
capace di tutte le abbominazioni. L'indice di cento volumi solo per il regime
di Nicola non sarebbe bastato a riassumere l'opera inumana di tanti assassini
che hanno sfogato i loro istinti di tagliagole su milioni e milioni di persone.
Truculenze, vendette, spionaggi, ricatti, ribalderie inaudite. La sola
gendarmeria era una ditta di assassinii. I soli risvolti della sua divisa
facevano tremare. Dove entrava, la gente scappava. Terrorizzava con la semplice
presenza. Non parliamo dei cosacchi. Pirati, ladroni di cavalli, sgozzatori,
parricida, barbari coltivati in diverse regioni, come milioni di individui di
steppe che si arruolavano per venti anni con il còmpito di accoppare,
sdocchiare, azzoppare, uccidere i rivoluzionari, gli «intellettuali», gli
adoratori di regimi con il suffragio universale. Erano più atroci dei Cento
neri, un'unione di feccia composta di ladroni di strada, di cenciosi di
sottosuolo e di apaches di sentina. Vera Sassulitch, uscita dalla couche
dei nobili, ha dovuto tirare sul prefetto di Pietroburgo per punirlo di avere
scudisciato un prigioniero politico. E questi cani di cosacchi hanno continuato
fino all'ultima sera dell'abdicazione a inseguire e a caricare le folle delle
vie e delle piazze con il knout, il famigerato castigo cosacco che ha
portato via la pelle a tante facce della democrazia. Noi non diciamo a Kerenski
di caricare questo milione di svenatori salariati bene da Nicola sulle navi per
scaricarli e disperderne la razza in alto mare. Ma diciamo che ci vuole del
fegato a farsi chiamare travaglista e scoronatore del più turpe sovrano, per
poi fare l'elogio di una classe che non dovrebbe avere posto neppure in galera.
Documento. In Russia, come abbiamo già detto, ci sono state delle sommosse,
specialmente in luglio e in agosto. Potete immaginarvi la presenza di questi
arnesi dell'assassinio legale. Si vedono e il sangue si capovolge. Il governo
provvisorio invece di allontanarli come ha allontanato lo Czar, ne faceva
arrivare parecchie compagnie. In Pietrogrado questi uomini dai diciotto ai
venti anni, tiravano, aggredivano, caricavano. I massimalisti venivano fugati a
colpi di nagaika, di palle dei fucili a tiri rapidi e dalle lance
banderuolate di nero. I rivoluzionari non fuggivano. Da una parte e dall'altra
morti e feriti. All'indomani giungevano altre compagnie di cosacchi di 500
uomini ciascuna. Arrivati in una piazza dove erano i vittoriosi della decadenza
dinastica, scaricarono qualche revolver. Ne nacque una terribile effusione di
sangue. Cosacchi e rivoluzionari non esitavano a rincorrersi a colpi di fuoco.
La piazza era seminata di cadaveri. I governativi vollero fare ai cosacchi le
esequie statali. I Soviets allibirono. Si ritornava all'antico regime. Intorno
alle bare c'era tutto l'apparato scenico borghese. Preti e stole, acquasanta e
croci e bandiere a lutto alle lance dei cosacchi. Dodici orchestre si
succedevano con la marcia funebre, dolcezza che immalinconiva i passanti. Le
colonne della basilica di S. Isacco erano in gramaglie. La cattedrale
formicolava di gente statale. La piazza era piena di soldati a cavallo. In
alto, nella cupola, la campana suonava a funerale. Comparve nella piazza,
davanti le bare, Kerenski. Grande meraviglia dei sovietisti. In piedi, sopra un
largo tabouret, egli dominava le moltitudini del recinto a cancelli
aperti. Indossava un costume kaki. La sua faccia era piuttosto
giallastra, kaki anche essa; la sua testa tonda e calva era dello stesso
colore. Come d'abitudine, egli si piegava con una leggera contorsione e
pronunciava le parole di «dovere e di patria» con la voce calda dell'oratore
consumato.
— Voi — con la mano protesa
verso i cosacchi — voi, da secoli siete schiavi. Ora siete dei cittadini
liberi. Difendete dunque la libertà così caramente conquistata. Il nemico è
sulla Dvina. Fra poco sarà qui, se voi continuerete la lotta fratricida.
Kerenski fece un largo gesto con le due braccia e poi con la voce sempre
commossa:
— Sulle bare di queste vittime
del dovere, giurate di rispettare le leggi..., di salvare la patria e la
libertà.
La gente ufficiosa e i cosacchi
alzarono le mani e gridarono tutti assieme:
— Lo giuriamo!
Il corteo si è messo in moto. Fu
lungo. Passarono due reggimenti di cosacchi in uniforme azzurra e rossa,
spettacolo di colori e di disgusto.
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