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Paolo Valera
La catastrofe degli czars

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  • La famiglia imperiale a Tobolsk. La disperazione dei Soviets.
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La famiglia imperiale a Tobolsk.
La disperazione dei Soviets.

 

Kerenski non fu giusto. Vissuto in una Duma di «gentiluomini» non è stato all'altezza del còmpito come Ministro di giustizia, come Ministro di guerra. Nell'Assemblea dei montagnardi francesi non gli sarebbe rimasta la testa sulle spalle. Egli non ha saputo disfarsi dell'antico regime. Non ha dato soddisfazione al popolo che lui chiamava «plebe». I suoi atti e il suo linguaggio non facevano che offendere la opinione pubblica. Non c'è lettore straniero che non sappia dell'odio russo per la polizia russa che massacrava per conto della autocrazia. Gli arnesi del delitto — coloro che gettavano tutta una popolazione in crisi di sangue e di spaventodovevano essere eliminati, fugati, buttati nei fiumi. Le provincie erano tutte piene delle loro vittime. Fino agli sgoccioli della vita imperiale si sapeva che il Ministro dell'Interno non era che un capo di polizia non meno aggressivo di Plehweassolutista feroce e astuto, giacobino dell'aristocrazia che gli intellettuali hanno dovuto sopprimere facendolo saltare in aria con la vettura e il portafoglio che conteneva i progetti per distruggere mezza umanità e fare della Siberia un grande deposito di malcontenti. In rivoluzione si agisce. Un uomo come Protopopof — l'ultimo Ministro degli Interni dell'antico regime, non doveva sopravvivere al suo arresto due minuti, il tempo per un interrogatorio sommario. I suoi delitti erano leggendarii. Bastava l'ultima sua concezione legislativa per consegnarlo al boia. Un tribunale rivoluzionario non avrebbe aggiunto nulla. Il suo atroce misfatto era nell'ultima seduta di Zarkoie-Selo. Narriamo e giudicate.

Prima che scoppiasse la grande rivoluzione di mutamento sociale, Protopopof che si credeva poliziescamente al sicuro, malgrado il fermento nelle fabbriche e nelle officine, ideava un attentato contro la terza Duma, come lo Czar lo aveva ideato contro la seconda, quando la ridusse a una maggioranza reazionaria sostenitrice di autocrazia. Per lui bisognava andare avanti e mettere sul lastrico i sessanta cadetti, i 25 travaglisti e i 17 sociali-democratici che non facevano, al Palazzo Tauride, che dell'ostruzionismo. Ma non è stato a tempo a sciogliere la Duma. Avrebbe avuto bisogno di qualche settimana e la rivoluzione non gli ha dato che qualche giorno. Come poliziotto e capo di tutte le polizie segrete e monturate ha saputo inferocire lo Czar. I decimatori di popolo sedettero a Consiglio a Zarkoie-Selo. Presenti: Nicola, il principe Galitzine, Vaichy, comandante del palazzo, Nilof, Protopopof e alcuni altri del gabinetto alla Duma. Lo Czar inclinava a fare concessioni misurate dalla grettezza alla Duma. E ne diceva la ragione. Dopo tutto non dava molto. Si contentava di darle un po' di quella libertà ch'egli stesso aveva proclamato il 17 ottobre 1905, quando i selciati e gli acciottolati erano ancora sfatti e chiazzati del sangue rivoluzionario. La minoranza si pronunciò contraria. Di concessione in concessione si sarebbe andati allo scoronamento. Protopopof si contorse e pronunciò parole vigliacche. Egli assicurava lo Czar che per lui non c'era trionfo che col pugno di ferro. Avevano veduto Thiers. Non ha vinto che con la resistenza e con le stragi nelle vie. I macelli comunardi furono suoi. Bismarck era ancora un tipo moderno. La brutalità era più saggia che la debolezza. Le vie berlinesi sono state inaffiate del sangue proletario per ordine del cancelliere di ferro.

Lo Czar, come distratto e senza poter consultare la Czarina, interruppe il Ministro alzando la mano e dicendo a se stesso ad alta voce:

— Sia! Ebbene sia! Poichè è necessario, concediamo.

Nicola diceva che le concessioni dovevano essere infuse in un manifesto da redigersi seduta stante. Per non sdrucciolare in un gabinetto responsabile, suggeriva d'inchiudere fra i nuovi Ministri i membri più influenti e più abbaianti della Duma.

Domando il permesso di dire un'ultima parola, disse caldamente l'esecrato Ministro dell'interno — più poliziotto e più liberticida e più assassino degli assassini del due Dicembre parigino.

«Maestà, io credo che queste concessioni, per minime che siano, siano inutili e pericolose. Inutili, perchè l'opinione pubblica non se ne contenterà; pericolose, perchè esse ci trascinerebbero a poco a poco ad altre concessioni più disastrose alle istituzioni di Vostra Maestà. Affermo che non vi è nulla di minaccioso nel movimento operaio e che la situazione non è punto aggravata. Vi sono forse in tutta la Russia tre centri ammutinati. Basta distruggerli perchè rinasca subito la quiete.

Nicola si sentiva ringagliardire.

— Io vi prometto il ritorno alla tranquillità pubblica solo se metterete a mia disposizione quattrocento o cinquecentomila rubli per la compera delle mitragliatrici allo «scopo di schiacciare la rivoluzione nell'uovo».

Questa somma, diceva dopo una pausa, è indispensabile all'acquisto delle mitragliatrici e all'insegnamento di usarle agli agenti di polizia della capitale. Così provvisti di materiale di combattimento, il Governo la farà facilmente finita con le sommosse, con le processioni, con gli scioperi, con i comizi segreti e pubblici. Le persone che desiderano la rivoluzione verranno mietute come campi di fieno. Con le mitragliatrici ogni pericolo sarà evitato.

Lo Czar rimase alcuni secondi perplesso. Poi come se avesse ricevuto l'ispirazione del defunto Rasputin si volse al terribile Ministro:

Poichè voi siete persuaso della riuscita, eseguite il vostro programma. Io confido in voi.

Il Consiglio concedette 350.000 rubli con lo scopo preciso di «schiacciare la rivoluzione nell'uovo».

Il resto è noto. Le mitragliatrici fecero meraviglie. Rovesciarono al suolo centinaia e centinaia di uomini assembrati. I maneggiatori di mitragliatrici non se la cavarono come aveva predetto Protopopof. Centinaia e centinaia di loro vennero massacrati a colpi di fucile dai rivoluzionarii.

La rivoluzione si è incendiata. Quindici giorni dopo la testa di Protopopof e la testa dell'ultimo Romanov dovevano essere in processione sui pali come quelle degli aristocratici della grande rivoluzione francese. Invece!

Kerenski era mite e proteggeva i delinquenti con la mitezza. Cito un altro fatto imperiale della arrendevolezza e della benevolenza e della tenerezza del grande Ministro. La gente cercava nell'aria la testa di Nicola. Non le pareva possibile che ci fosse della clemenza per l'uomo che aveva legiferato fino all'ultimo giorno con la mitragliatrice, con i cosacchi dalle lance lunghe e con i gendarmi bordati di rosso, come ditte di spargitori di sangue. Kerenski era più legale della legge. Ai rimproveri dei Soviets rispondeva come un gentiluomo sordo alle incitazioni. Non si poteva demolire tutto in una volta. Cromwell era Cromwell. Distanziava di parecchi secoli. Cromwell aveva abbattuto anche le folle, anche i paesani. In Russia non c'era legge per abbattere i sovrani. C'era la violenza, non la legge. I nichilisti avevano assassinato Alessandro II e si capisce. Hanno scontato il loro delitto. Volevano la rivoluzione e la reazione li ha schiacciati. Lui, Kerenski, non voleva circolare per la posterità come il più rosso dei giacobini russi. Ma i membri del Soviet della capitale e i membri dei Soviets delle provincie insistevano e minacciavano di rovesciare il Ministero provvisorio, il quale, dopo sei mesi, non aveva ancora osato interrogare le masse elettorali per paura di rimanere a sua volta sul campo della disfatta.

Lo Czar e la sua famiglia, dopo l'abdicazione del 15 marzo 1917, non erano stati scomodati. Vivevano nello stesso fasto imperiale. Nicola, abdicatario, era giunto a Pietrogrado, circondato da una scorta militare che aveva avuto per lui il rispetto dell'antico regime.

Intorno a Nicola si respirava un alito di sangue umano. Senza la sua aria modesta lo si sarebbe creduto il Calcraft della costituzione inglese o il Deibler della costituzione francese. Si vedeva in lui un carnefice.

Kerenski, ministro della giustizia nel gabinetto del principe Lvof, non si lasciò commuovere. I Soviets e i sovietisti urlavano per un po' di giustizia, ma lui teneva duro. Lui vivo non avrebbe mai permesso di insultare la monarchia trecentenaria per violare la legge. Non voleva che il capo di un impero assoluto fosse responsabile degli avvenimenti che erano avvenuti nel suo regno. Mancherebbe! Lo Czar non poteva essere alla reggia e in ogni luogo. Il Consiglio dei Ministri fu con Kerenski. Neppure gli altri volevano maltrattare il povero Nicola. Per contentare gli insaziabili di giustizia, il Consiglio aveva aderito a mantenere la famiglia del Palazzo Alessandro di Zarkoie-Selo sotto una certa sorveglianza. E così venne sedato il tumulto che incominciava a ingrossare.

L'ex-sovrano abitava un appartamento separato dalla famiglia, al secondo piano del Palazzo, dando la sua «parola d'onore» che non avrebbe mai cercato di rivedere la sposa. Durante la sua visita quotidiana ai figli la ex-Czarina doveva allontanarsi in un'altra ala del Palazzo. I funzionari e le persone del vecchio seguito non dovevano avere comunicazioni con la gente di fuori. L'uscita era loro proibita.

Nicola era poltrone. Si alzava tra le nove e le dieci. Sdigiunava con una tazza di , con alcuni biscotti e con un uovo. Si faceva comperare i giornali da un soldato e li leggeva avidamente. Colazionava alla una e pranzava alle otto. Le sue vivande erano legumi, pesce e frutta. Dai suoi pasti era esclusa la carne. Non beveva vino. La mezza bottiglia che gli portavano rimaneva intatta. L'ipocrita imperiale si faceva credere sobrio!

La cucina di Nicola detronizzato era diretta da Carlo Oliviero, chef francese, il quale aveva promesso di spendere per gli ospiti confinati nel Palazzo in ragione di dodici lire a testa. Il menù veniva sottoposto ogni mattina all'ufficiale di guardia. L'erede al trono, Alessio, era l'unico che poteva ordinare a capriccio e fin che voleva. Piccolo e sempre ammalato, i membri del Governo che lo avevano scelto per successore al trono, non hanno voluto sottoporlo al menù dei confinati. Il piccolo mangiava sovente a letto.

L'ex-Czar fatta la colazione, indossava l'uniforme di colonnello, grado al quale era pervenuto durante la vita del padre, e scendeva in giardino per la sua passeggiata, dove era atteso dagli incaricati di sorvegliarlo. Sera e mattina, lui e la famiglia, si recavano in chiesa. Vi si inginocchiavano. Alessandra Feodorovna si prostrava distante dal marito e separata da un paravento. Costei era divenuta più bigotta. La morte di Rasputin le aveva smagrato il volto. Era ammalata di religiosità. Pareva vivesse fuori del creato. Terrea, con le labbra smunte e premute l'una sull'altra, rimaneva sulle ginocchia come una statua di marmo. Pianse una sola volta, quando andarono a portarle via la Vyrubov-fattucchiera degli appartamenti dell'ex-imperatrice. Essa era stata destinata alla fortezza di Pietro e Paolo con le sue grucce che le servivano a stare in piedi dopo il suo infortunio ferroviario.

L'ex-sovrana una volta che aveva cessato di collaborare alla tirannia dell'impero per conto del marito, coadiuvata dalla nobiltà assassina, nobiltà che sfollava il regno con salassate spaventose, era divenuta triste. La sua faccia era sfigurata. Feodorovna non si occupava più che di leggere libercoli noiosi e religiosi. Nicola era divenuto più indifferente di lei. Non amava più che la famiglia. Era stanco di sommossestanco di essere alla testa di un impero di malcontenti e di riottosi e di congiurati contro la sua vita. Voleva la quiete. Gli bastavano la moglie e i figli. Il suo favorito era l'Alessio, al quale non avrebbe mai dato le tribolazioni del trono. Ah no! diceva stringendoselo al petto.

Egli era molto riconoscente a Kerenski per le gentilezze. Non gli aveva dato nulla di eccessivo, ma non aveva permesso che a lui e ai suoi si facessero delle scortesie. Il Ministro avrebbe indubbiamente fatto di più senza la presenza del Soviet il quale insisteva perché l'ex Nicola II venisse messo in istato d'accusa. Lasciare uno Czar nel proprio Palazzo di regnante era una buaggine criminosa, dicevano i sovietisti. Gli si dava modo di far scomparire i documenti che lo avrebbero fatto impiccare. I membri del Soviet del maggio e del giugno 1917 avevano ragione di dubitare, della energia del ministro Kerenski. Che cosa faceva? I sovietisti erano pronti a spazzarlo via dalla piattaforma governativa con tutto il suo Governo provvisorio.

Kerenski rimase ostinato più di prima. Tuttavia, per l'insistenza del Comitato dei soldati, permise a una Commissione di esaminare le carte della Corte imperiale. Nulla! Nulla di compromettente! Bisognava supporre la coppia dei delinquenti imperiali bestie. Era troppo tardi.

Con la complicità del vecchio servidorame le lettere anonime, le denuncie, erano andate al falò. Le proteste del Soviet fecero arrabbiare Kerenski.

Per la maldicenza egli non faceva che «favorire» l'«assassino del popolo». Che fare? domandava ai colleghi di gabinetto. Abbandonarlo al Soviet era condannarlo a morte. I Soviets non volevano transigere. O processarlo o mandarlo via col Governo provvisorio. Kerenski prolungò il benessere di Nicola con una intervista e con l'esilio, nella speranza che con la famiglia imperiale in Siberia i sovietisti se ne sarebbero scordati.

Egli era di cuore e non voleva consegnare gli ex-sovrani alla «plebe». Bisognava portarli via, chiuderli in una zona siberica meno scellerata. Andava a Zarkoie-Selo in automobile e pensava alla bufera che si condensava su di lui. L'intervista era stata domandata dallo Czar, pauroso di esiliare a Tobolsk. Alla Siberia egli preferiva la Crimea, dove era morto suo padre.

— Io sono pronto, gli diceva lo Czar, a subire senza mormorii la sorte che mi serba il destino. Non mi spaventano la prigione l'esilio. Ma c'è mia moglie e ci sono i miei figli! Quali sofferenze per loro, quando si svolgerà un simile processo, suscitato dalle passioni politiche! Io ho paura, sopratutto per mio figlio sempre sofferente.

Kerenski, commosso, si affrettò a tranquillarlo asciugandosi gli occhi umidi di commozione. Avvocato, sentiva la causa. Con la sua eloquenza lo avrebbe strappato ai giurati. Gli prese le mani e con un leggero scotimento lo rese meno agitato.

Poichè voi leggete i giornali, gli disse, conoscete come la penso. Avversario assoluto di ogni processo, l'eviterò ad ogni costo. Io inclino a credere che una volta esiliato, i Soviets vi dimenticheranno... Contate sulla mia imparzialità.

L'ex Czar non era ancora rientrato nella calma e nella sicurezza per quello che aveva udito dal ministro della guerra.

— Lo so, conosco le vostre intenzioni a mio riguardo: Esse sono benevole e ve ne sono riconoscentissimo. Ma io temo che un giorno i Soviets vi forzino a levarvi contro di me.

Forse non aveva torto. Una volta a Tobolsk i Soviets ricominceranno a urlare per riavere i Romanov. Non volevano assassinarli come avevano fatto «gli assassini del popolo», ma esigevano che tutti fossero processati e tutti subissero la loro sentenza. Era come innalzare il patibolo.

I rappresentanti dei Romanov hanno lasciato Zarkoie-Selo alla mezzanotte del agosto 1917, accompagnati da nugoli di soldati a piedi e a cavallo. Prima che il veicolo si muovesse l'ex Czar fece i suoi addii agli ufficiali e ai soldati che lo avevano custodito. La sua voce tremava. Disse loro che sperava di ritornarvi. Un'ora dopo prese posto con la moglie e i figli in una automobile aperta. I soldati gli presentarono le armi e gli ufficiali lo salutarono. Sei persone dell'entourage della Czar furono autorizzati, compreso il medico, a seguirlo in esilio. Tale e quale come gli inglesi avevano fatto per Napoleone I. L'ex Czarina che non parlava da due o tre giorni domandò a sua eccellenza Kerenski se dall'esilio avrebbe potuto scrivere alle sue amiche di Pietrogrado.

— A condizione che tutte le lettere passino dalla censura.

Il fischio del treno imperiale mise fine al momento angoscioso.

Nicola salutò di nuovo gli ufficiali, strinse la mano al ministro della guerra, e via! Il treno portava in Siberia colui che pochi mesi prima era l'autocrate di tutte le Russie, colui che aveva negato un po' di libertà ai sudditi, colui che aveva conceduto la somma per mitragliare il popolo che non gli aveva domandato che un governo di responsabili!

La stretta di mano di Kerenski al dittatore del regno dei delitti è stato un oltraggio alla rivoluzione e a tutti i Soviets.

Un'altra azione più vile è stata compiuta dal presidente del governo provvisorio Kerenski. Egli più di tutti noi sapeva e sa l'odio inveterato dei russi per le polizie russe, in borghese e in uniforme. Tutta zavorra disumanata. Strumenti di atrocità. Colluvie umana rovesciata sul mondo che aveva accenti di verità, che portava nella vita la giustizia e l'uguaglianza, dove non era che malcontento. Polizia, delittuosa, capace di tutte le abbominazioni. L'indice di cento volumi solo per il regime di Nicola non sarebbe bastato a riassumere l'opera inumana di tanti assassini che hanno sfogato i loro istinti di tagliagole su milioni e milioni di persone. Truculenze, vendette, spionaggi, ricatti, ribalderie inaudite. La sola gendarmeria era una ditta di assassinii. I soli risvolti della sua divisa facevano tremare. Dove entrava, la gente scappava. Terrorizzava con la semplice presenza. Non parliamo dei cosacchi. Pirati, ladroni di cavalli, sgozzatori, parricida, barbari coltivati in diverse regioni, come milioni di individui di steppe che si arruolavano per venti anni con il còmpito di accoppare, sdocchiare, azzoppare, uccidere i rivoluzionari, gli «intellettuali», gli adoratori di regimi con il suffragio universale. Erano più atroci dei Cento neri, un'unione di feccia composta di ladroni di strada, di cenciosi di sottosuolo e di apaches di sentina. Vera Sassulitch, uscita dalla couche dei nobili, ha dovuto tirare sul prefetto di Pietroburgo per punirlo di avere scudisciato un prigioniero politico. E questi cani di cosacchi hanno continuato fino all'ultima sera dell'abdicazione a inseguire e a caricare le folle delle vie e delle piazze con il knout, il famigerato castigo cosacco che ha portato via la pelle a tante facce della democrazia. Noi non diciamo a Kerenski di caricare questo milione di svenatori salariati bene da Nicola sulle navi per scaricarli e disperderne la razza in alto mare. Ma diciamo che ci vuole del fegato a farsi chiamare travaglista e scoronatore del più turpe sovrano, per poi fare l'elogio di una classe che non dovrebbe avere posto neppure in galera. Documento. In Russia, come abbiamo già detto, ci sono state delle sommosse, specialmente in luglio e in agosto. Potete immaginarvi la presenza di questi arnesi dell'assassinio legale. Si vedono e il sangue si capovolge. Il governo provvisorio invece di allontanarli come ha allontanato lo Czar, ne faceva arrivare parecchie compagnie. In Pietrogrado questi uomini dai diciotto ai venti anni, tiravano, aggredivano, caricavano. I massimalisti venivano fugati a colpi di nagaika, di palle dei fucili a tiri rapidi e dalle lance banderuolate di nero. I rivoluzionari non fuggivano. Da una parte e dall'altra morti e feriti. All'indomani giungevano altre compagnie di cosacchi di 500 uomini ciascuna. Arrivati in una piazza dove erano i vittoriosi della decadenza dinastica, scaricarono qualche revolver. Ne nacque una terribile effusione di sangue. Cosacchi e rivoluzionari non esitavano a rincorrersi a colpi di fuoco. La piazza era seminata di cadaveri. I governativi vollero fare ai cosacchi le esequie statali. I Soviets allibirono. Si ritornava all'antico regime. Intorno alle bare c'era tutto l'apparato scenico borghese. Preti e stole, acquasanta e croci e bandiere a lutto alle lance dei cosacchi. Dodici orchestre si succedevano con la marcia funebre, dolcezza che immalinconiva i passanti. Le colonne della basilica di S. Isacco erano in gramaglie. La cattedrale formicolava di gente statale. La piazza era piena di soldati a cavallo. In alto, nella cupola, la campana suonava a funerale. Comparve nella piazza, davanti le bare, Kerenski. Grande meraviglia dei sovietisti. In piedi, sopra un largo tabouret, egli dominava le moltitudini del recinto a cancelli aperti. Indossava un costume kaki. La sua faccia era piuttosto giallastra, kaki anche essa; la sua testa tonda e calva era dello stesso colore. Come d'abitudine, egli si piegava con una leggera contorsione e pronunciava le parole di «dovere e di patria» con la voce calda dell'oratore consumato.

— Voi — con la mano protesa verso i cosacchi — voi, da secoli siete schiavi. Ora siete dei cittadini liberi. Difendete dunque la libertà così caramente conquistata. Il nemico è sulla Dvina. Fra poco sarà qui, se voi continuerete la lotta fratricida. Kerenski fece un largo gesto con le due braccia e poi con la voce sempre commossa:

— Sulle bare di queste vittime del dovere, giurate di rispettare le leggi..., di salvare la patria e la libertà.

La gente ufficiosa e i cosacchi alzarono le mani e gridarono tutti assieme:

— Lo giuriamo!

Il corteo si è messo in moto. Fu lungo. Passarono due reggimenti di cosacchi in uniforme azzurra e rossa, spettacolo di colori e di disgusto.

 




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