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Paolo Valera
La catastrofe degli czars

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  • Ci si avvicina a Lenine.
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Ci si avvicina a Lenine.

 

La fiacchezza del governo era estrema, anche con i ministri della coalizione. Il più importante era rimasto Kerenski, installato alla Morskaia, dove prima era il caffè di Parigi, il più elegante della capitale imperiale. Egli si trovava in lotta con i veri rivoluzionari i quali non volevano più udire parlare di guerra e di patriottismo. Il suo ordine del giorno all'esercito e alla flotta non era più dell'ambiente. Nessuno voleva più ascoltare di esigenze militari di disciplina militare. Egli aveva accordato al militare di appartenere a qualsiasi associazione politica, religiosa, operaia e di orare su qualunque piattaforma pubblica come un tavaric o camerata di tutti gli ambienti. Durante il servizio il soldato poteva svestire la divisa e indossare l'abito civile, salvo quello in zona di guerra o in zona di operazione. Per quest'ultimo l'abito civile era sottomesso all'autorizzazione del comandante. Il ministro aveva però proibito di vestirsi un po' da militare e un po' in civile. Non voleva più anfibii — un po' domestici e un po' soldati. Con lui il soldato non poteva più andare in giro a fare le compere per il suo ufficiale. Kerenski aveva svecchiato il regolamento czarista, ma non aveva rivoluzionato l'esercito la marina. Il prikase per la guardia rossa era molta differente. È andato in vigore con l'energia degli uomini nuovi. Il colonnello Mourovief lo ha iniziato con queste parole: «Nel còmpito di restituire immediatamente l'ordine a Pietrogrado e nei dintorni, ingiungo di eseguire senza restrizioni gli ordini seguenti:

«Incarico i soldati, i marinai e la guardia rossa e tutto il proletariato rivoluzionario di mantenere l'ordine all'interno».

Agli stessi uomini ordinava di servirsi della loro forza contro i rappresentanti degli elementi criminali contro la vita, la sicurezza e la proprietà dei cittadini. Le perquisizioni non potevano essere fatte senza la presenza di un rappresentante del Comitato rivoluzionario o di un rappresentante della casa abitata o di un soldato della guardia rossa. Puniva con i rigori della legge tutti coloro che si sarebbero permesso di perquisire o sequestrare in appartamenti occupati dai rappresentanti delle potenze estere. L'infrazione a questo ordine «sarà punito con tutto il rigore della legge».

Per impedire il furti e i progroms nelle case degli ebrei e per evitare la possibilità di qualche delitto, il colonnello ordinava la chiusura delle porte d'entrata all'imbrunire. Voleva pure che gli inquilini organizzassero un Comitato di protezione dalle sei di sera alle sette del mattino.

Secondo i borghesi queste precauzioni per la salvezza degli abitanti erano un appello al linciaggio!

Ma l'atmosfera mutava di giorno in giorno.

Kerenski, per i colleghi del primo governo provvisorio, rovinava tutto. Miliukof, del governo, dissentiva sovente da lui. Egli era contrario, per esempio, alla rientrata in Russia di tutti gli esiliati dell'Internazionale. Diceva che si apriva la frontiera al «disordine». Pazienza, Plekanof. Egli era arcivecchio e afono. Era uno dei primi marxisti russi inaciditi. Vomitava ingiurie su Lenine, disfattista. Pazienza Kropotkine. Egli era maturo per il sepolcro. L'Inghilterra lo aveva imborghesito facendogli largo nelle riviste londinesi. Ma Lenine e Trotski erano due uragani, due sommosse, due rivoluzioni ambulanti, due anticristi della distruzione. Non rappresentano che dei lavoratori. Sono due manifesti rossi. Ambiziosi, diceva un altro ministro. Volevano il trionfo della rivoluzione proletaria per darci lo spettacolo d'una Russia sotto la loro dittatura. Senza di loro il governo provvisorio non avrebbe avuto che operai e contadini a battere le mani e a sgolare la loro approvazione.

Kerenski sentiva il mormorio, ma restava sempre della sua opinione. Come ha fatto per la salvezza dell'imperatore, ha fatto per i membri dell'ultimo governo czarista. La gente urlava per la sua testa e lui taceva e ignorava.

Lo Czar era a Tolbosk. E i suoi collaboratori erano nelle celle di Pietro e Paolo. Che cosa vi facevano? Nessuno lo sapeva. Kerenski si illudeva. Credeva all'oblio del pubblico. Invece il popolo a gruppi girava intorno alla bastiglia e si piegava come per origliare e sapere se le verghe dell'antico regime servivano anche per le carni dei castigatori del passato impero. C'era sete del loro sangue. Avevano martirizzata la Russia. Buttato nella disperazione migliaia di famiglie e dovevano perire. Avevano tolto agli ebrei perfino il diritto di morire. Frustati, buttati dalle finestre, massacrati dalle organizzazioni poliziesche. Gli ex carnefici che avevano fatto discendere nel sepolcro protetto dalle alte muraglie i migliori del pensiero russo, dovevano morire in pubblico come i malviventi della Corte di Luigi XVI.

Il colpevole era dunque Kerenski. I sostenitori del despotismo erano stati messi tutti assieme, l'uno nella cella accanto all'altro, perchè potessero comunicarsi e tramare un'altra volta una strage dei rivoluzionari. Si citavano i nomi. C'erano Sankhomlinof, il concussionario e il protettore di Miassoiedof, massacratore; Schuturmer, il traditore, l'autore dello schiacciamento della Rumania; Protopopof, il genio del male dell'ultima fine del regno di Nicola, l'atroce individuo che aveva ricevuto 350 mila rubli per lo sterminio del proletariato. Poi venivano due donne, due rifiuti umani, due megere, due cortigiane scese al livello delle bestie: la Vyrubov, l'amante equivoca di Rasputin e la triste consigliera di Alessandra Feodorovna e Caterina Soukhomlinof, mercantessa di influenza. E poi altri. Ma non molti. Kerenski non ha saputo o non ha voluto mettere le mani su tutti gli omicidiarii dell'impero. Il solo pesce grosso che non sia sfuggito alle maglie rivoluzionarie fu l'ufficiale della gendarmeria Sobiéchtchansky, il carnefice di Pietro e Paolo, colui che bastonava e torturava con le cinghie sulla faccia, con i ferri ai polsi e alle gambe e con tutte le punizioni corporali i prigionieri politici. Con lui i prigionieri di Pietro e Paolo non potevano coricarsi che gridando ogni sera: Dio protegga lo Czar! Il cane infliggeva tutti i supplizi!

Per la parte topografica la famosa fortezza Pietro e Paolo è una massa granitica alta, in faccia al Palazzo d'Inverno, sede della Corte Imperiale, dal quale ogni mattina il monarca sapeva che i suoi nemici infernali soffrivano le pene dell'inferno. Il sinistro edificio è piantato su un isolotto della Neva come un simbolo dell'autocrazia. I prigionieri dal fondo delle celle contavano le ore e le mezz'ore della campana dell'orologio della cattedrale, dove sono i sepolcri delle tigri della famiglia Romanov, e si ripercuotevano nella testa dei sepolti vivi. Si penetra nella fortezza per un ponte levatoio, si gira l'alta muraglia il visitatore si trova a faccia a faccia con un'altra muraglia nel mezzo della quale è una porta di ferro massiccia, che si apre con una grossa chiave e si richiude automaticamente confondendosi internamente con la muraglia. Si entra e si passa su un piccolo e oscuro corridoio a sinistra e si vede un edificio pure massiccio, di un piano, che l'impressione di una fortezza circondata da una palizzata di ferro lunga, umida, sudario di pietra degli avversari dell'assolutismo. Nome atroce nella storia russa. Le celle del piano terreno sono a una profondità di un metro o un metro e mezzo della Neva. Così trasudano e mietono i prigionieri insofferenti di umidori. Un'altra porta pesante e si incontrano le sentinelle e i carcerieri, con i loro berretti duri e neri. Lungo il corridoio a destra e a sinistra sono le 80 celle chiuse dai quadrati di ferro e dai catenacci enormi. L'occhio di bue tortura il prigioniero sepolto come in una bastiglia.

Pietro Kropotkine, che ha avuto il fratello deportato e morto in Siberia, è stato in Pietro e Paolo: «Mi si condusse in una cella la cui pesante porta di ferro si chiuse su di me con suoni lugubri che risuonarono sotto le vôlte. Udii distintamente il fracasso dei catenacci e della chiave nella serratura. Rimasi solo nell'oscurità. L'alta finestra chiusa al difuori dalle spranghe di ferro, infisse in una muraglia di un spessore di cinque piedi. Non vedevo più che un quadrato di cielo. Capii che ero in uno dei bastioni della fortezza. La mia cella era dunque una casamatta antica. Vivevo in un silenzio di morte. All'ora del pasto mi si passava una pessima zuppa e un pezzo di pane nero. Vi rimasi due anni. Caddi ammalato. Passai in un Ospedale».

Non la si finiva più con Kerenski. Egli era una discussione quotidiana. Tutti s'aspettavano da lui atti prodigiosi. Un giorno gli è capitato il generalissimo elevato da lui, a 42 anni. La benemerenza per il vecchio parlamentare e per il ministro della guerra era un calcio insurrezionale, una rivolta militare, un'insurrezione in piena regola. Kerenski agitava i pugni. Kornilof, sotto il berretto del rivoluzionario, era un disgraziato che sentiva l'antico regime che non gli aveva mai dato che il posto di colonnello. Egli era una specie di Boulanger della repubblica francese, ai tempi della grande corruzione politica e finanziaria. Sognava di penetrare in Pietrogrado, alla testa di un esercito che gli avrebbe dato modo di inscenare una dittatura militare. Il primo dissenso con Kerenski fu la pena di morte. Egli la voleva ripristinare. Senza di essa non rispondeva più dell'armata. La libertà data agli eserciti di terra e di mare era uno sproposito. Senza pena capitale egli non vedeva che ammutinamenti, che soldati contro gli ufficiali, che riottosi, che indisciplinati, che disertori. I soldati russi dell'ambiente kerenskiano avevano dato lo spettacolo in Francia, a La Courtine, di ammutinamenti senza esempio. Nessuno di otto o nove o dieci mila uomini, ha valuto riprendere il fucile. Erano stufi di ammazzare e di farsi ammazzare. Per l'onore militare si sono messi in moto generali francesi e russi. Niente. L'onore nazionale non li ha commossi. Non c'è stato che il cannone che li abbia smossi. A cannonate si sono fatti rientrare nell'orbita militare. Si è dato ad essi l'ora dell'ultimatum. O cedete domani, 3 settembre 1917, alle dieci del mattino, o sarete sotto il fuoco rapido c fitto delle artiglierie. Tre giorni è durato il cannoneggiamento. Il massacro veniva sospeso a ogni alzata di fazzoletto bianco. Gli ultimi della resistenza sono stati 150. Vennero liquidati il giorno 5. In Russia, peggio. I soldati si ubbriacavano. I soldati uccidevano i superiori. I marinai buttavano in mare gli ufficiali. Con l'indisciplinatezza avevano disimparato a fare il soldato. Padrone della pena di morte, Kornilof ne fece fucilare simultaneamente, in blocco, 500 e sulla loro buca collettiva vi ha piantato questo cartello: «Questi uomini furono traditori della patria e della rivoluzione».

In tempi in cui i soldati morivano a centinaia di migliaia, accavallati a montagne, come è avvenuto in Francia, non v'era da commuoversi. Migliaia più, migliaia meno non contavano nella somma. Non si erano commossi che i massimalisti, antiguerraioli. Kornilof, trionfante, aveva dato la stura alla bottiglia del suo orgoglio. Lavorava sott'acqua. Demoliva la grandezza di Kerenski. Minacciò una cavalcata fino al centro di Pietrogrado. Voleva esserne il dittatore. Si sarebbe presentato come un Cromwell moderno. La sua perplessità, dopo la minaccia verbale, lo ha perduto. Kerenski lo ha preceduto, lo ha sopraffatto, lo ha chiuso in un cerchio di baionette «come ribelle e traditore della patria». Lo ha fatto arrestare e lo ha inviato a venti ore dalla capitale, nella carcere di Buikhof, sulla linea di Kiew, dove erano altri due generali, il generale Doukonine e il generale Orlof.

Un altro ministro-presidente non avrebbe tollerata viva la testa del traditore Kornilof, quello che aveva rimesso in vigore il codice militare, che aveva tentato un colpo di stato e che voleva distruggere i Soviets, l'avvenire. Egli, è naturale, è stato biasimato per la sua bontà nelle assemblee. In rivoluzione non si transige. Un generale, per esempio, come Doukonine, la personificazione del terrorizzamento militare, l'uomo tetro che ha sempre un pretesto per fucilare qualcuno dei reggimenti al suo comando, non può vivere in ambienti di rivoluzione militare. Lo si è veduto. Le guardie rosse non hanno potuto impedirne il massacro. Egli era a Noghileff, sede del quartiere generale. Era già deposto e in custodia. Doveva essere sostituito dal sotto ufficiale Krilenko. Giunto il sostituto, intorno all'assassino gallonato si addensò una folla armata di fucili. I soldati indossavano cappotti larghi e avevano in testa una variazione di berretti di tutti i colori. Erano un gruppo della guardia rossa dei massimalisti, il corpo scelto di Lenine.

Compagni! — ha detto Krilenko ai soldati. — Fermatevi! Che fate? L'esercito rivoluzionario non è una muta di assassini!

Ma il generale ne aveva fatte troppe perchè il sangue non bollisse nelle loro vene.

Krilenko voleva consegnarlo al tribunale rivoluzionario, ma da Noghileff a Pietrogrado c'era della strada. I traditori fuggivano. «Dove era Kerenski? dove era Korniloff?», urlavano coloro che erano per la fucilazione senza indugio.

Non appena il generale si fece vedere allo sportello del treno che doveva trasportarlo a Pietrogrado, si udirono urla frenetiche che si addensavano sul capo di Doukonine. Traditore! Traditore! nemico del popolo! A colui che voleva aspettare il tribunale venne rimproverata la sua origine borghese. Sei uomini saltarono nella carrozza del treno, lessero al generale la sentenza di morte. Le guardie rosse lo spinsero fuori del vagone. Non gli si dette il permesso di giustificarsi. Due rivoltellate alla gola lo sbarazzarono della vita...

Noi siamo per il giudizio, anche se fosse presieduto da Fouquier-Tionville, venuto a noi dalla grande rivoluzione francese come un cinico e un fanatico implacabile. Ma noi possiamo capire anche il giudizio sommario, quando una nazione si sveglia alla libertà dopo trecento e più anni di sudditanza a un trono che continuava a rappresentare l'«Etait c'est moi». Meglio Cartouche, meglio Mandrin, che la giustizia dei giudici dell'antico regime impersonato nei Romanov!

L'insensibilità apparente dei leninisti è in un altro fatto. Muore Giorgio Plekhanof, partigiano di una repubblica che non differisce gran che da una monarchia costituzionale. Il funerale fu un omaggio commosso delle classi colte e degli intellettuali antileninisti al celebre marxista dei primi tempi. Il suo ritorno in Russia non fu che un annuncio di due righe di cronaca. Egli era per la guerra e non aveva che sberleffi per Lenine e Trotski. Invitati i rossi a partecipare al funerale, il Soviet massimalista di Pietrogrado rispose: «Per noi è un anno ch'egli è morto». Così diceva in Italia il povero Molinari di Kropotkine: «Per me è morto da tanto tempo». La diversità è questa: quindici giorni dopo la morte di Plekhanof venne assassinato per le strade Volodarski, organizzatore di comizi leninisti, direttore di quasi tutto il quartiere industriale di Viborg. I rossi furono tutti sottosopra. Il loro cuore piangeva. I bolscevichi requisirono per i suoi funerali duecentomila rubli di fiori e le folle rosse si riversarono dietro il suo carro in 400 mila, come è avvenuto adesso in Parigi per la dimostrazione di Jean Jaurès. Il torto dell'ex-rosso fatto al rosso esaspera, indigna, indiavola. Le folle russe non potevano più affezionarsi all'oppositore del bolscevismo. Le folle parigine non hanno trucidato i giurati dell'assoluzione dell'assassino di Jaurès perchè hanno potuto manifestare il loro cordoglio in una forma solenne e civile. Senza questo sfogo avremmo avuto in giro le teste dei delinquenti del verdetto atroce.

Cito un altro caso che le antipatie e le simpatie di partito, anche quando il partito è quasi nazionale, come quello dei Soviets di questi mesi. Lenine e Trotski erano contro i socialisti patriotti e per una sollevazione contro Kerenski. Si trattava di rovesciare un governo ormai consumato fin alla corda. I bolscevichi si agitavano per una società di lavoratori. Lenine, il 30 ottobre 1918, si trovava a Moscasede e capitale del nuovo governo dove aveva concionato nella officina Michetson. Il fattaccio ha circolato per il mondo. Il vincitore di Kerenski parlava con alcuni operai. Una donna gli ha cacciato in corpo due proiettili.

La condizione del grande Lenine era grave. Arrestata la revolveratrice e saputa la notizia, la Russia rossa fu tutta in piedi. Il giornale leninista di Mosca era furibondo. Non è molto che siamo riusciti a sviare un attentato contro Zanovief, il governatore di Pietrogrado. Ieri è caduto Ouritzki, descritto dalla borghesia come un furente esecutore di ordini a mano armata. Lo si diceva un uomo che si alzava di notte a trasferire i prigionieri da una carcere all'altra, tirando colpi di fucile al dorso di chi lo irritava. Il Marat della rivoluzione russa si sbarazzava dei cadaveri buttandoli nella Neva, come si era fatto di Rasputin. «Arresto chi voglio e non ricevo consiglio da nessuno», diceva. Viceversa non era che un rigido commissario del popolo all'istruzione pubblica. Uscendo dal ministero dell'interno, accasato al Palazzo d'Inverno, mentre stava per raggiungere l'ascensore, un giovine gli tolse la vita con una rivoltellata.

Ritorniamo a Lenine. L'attentato ha imperversato l'opinione pubblica fino all'incendio. Nella notte stessa vi furono un po' dappertutto fucilazioni di rappresaglia. L'opinione pubblica non si è tranquillizzata che dopo la fucilazione della Kaplan.

 




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