La fiacchezza del governo era
estrema, anche con i ministri della coalizione. Il più importante era rimasto
Kerenski, installato alla Morskaia, dove prima era il caffè di Parigi, il più
elegante della capitale imperiale. Egli si trovava in lotta con i veri
rivoluzionari i quali non volevano più udire parlare di guerra e di
patriottismo. Il suo ordine del giorno all'esercito e alla flotta non era più
dell'ambiente. Nessuno voleva più ascoltare nè di esigenze militari nè di
disciplina militare. Egli aveva accordato al militare di appartenere a
qualsiasi associazione politica, religiosa, operaia e di orare su qualunque
piattaforma pubblica come un tavaric o camerata di tutti gli ambienti.
Durante il servizio il soldato poteva svestire la divisa e indossare l'abito
civile, salvo quello in zona di guerra o in zona di operazione. Per
quest'ultimo l'abito civile era sottomesso all'autorizzazione del comandante.
Il ministro aveva però proibito di vestirsi un po' da militare e un po' in
civile. Non voleva più anfibii — un po' domestici e un po' soldati. Con lui il
soldato non poteva più andare in giro a fare le compere per il suo ufficiale.
Kerenski aveva svecchiato il regolamento czarista, ma non aveva rivoluzionato
nè l'esercito nè la marina. Il prikase per la guardia rossa era molta
differente. È andato in vigore con l'energia degli uomini nuovi. Il colonnello
Mourovief lo ha iniziato con queste parole: «Nel còmpito di restituire
immediatamente l'ordine a Pietrogrado e nei dintorni, ingiungo di eseguire
senza restrizioni gli ordini seguenti:
«Incarico i soldati, i marinai e
la guardia rossa e tutto il proletariato rivoluzionario di mantenere l'ordine
all'interno».
Agli stessi uomini ordinava di
servirsi della loro forza contro i rappresentanti degli elementi criminali
contro la vita, la sicurezza e la proprietà dei cittadini. Le perquisizioni non
potevano essere fatte senza la presenza di un rappresentante del Comitato
rivoluzionario o di un rappresentante della casa abitata o di un soldato della
guardia rossa. Puniva con i rigori della legge tutti coloro che si sarebbero
permesso di perquisire o sequestrare in appartamenti occupati dai rappresentanti
delle potenze estere. L'infrazione a questo ordine «sarà punito con tutto il
rigore della legge».
Per impedire il furti e i progroms
nelle case degli ebrei e per evitare la possibilità di qualche delitto, il
colonnello ordinava la chiusura delle porte d'entrata all'imbrunire. Voleva
pure che gli inquilini organizzassero un Comitato di protezione dalle sei di
sera alle sette del mattino.
Secondo i borghesi queste
precauzioni per la salvezza degli abitanti erano un appello al linciaggio!
Ma l'atmosfera mutava di giorno
in giorno.
Kerenski, per i colleghi del
primo governo provvisorio, rovinava tutto. Miliukof, del governo, dissentiva
sovente da lui. Egli era contrario, per esempio, alla rientrata in Russia di
tutti gli esiliati dell'Internazionale. Diceva che si apriva la frontiera al
«disordine». Pazienza, Plekanof. Egli era arcivecchio e afono. Era uno dei
primi marxisti russi inaciditi. Vomitava ingiurie su Lenine, disfattista.
Pazienza Kropotkine. Egli era maturo per il sepolcro. L'Inghilterra lo aveva imborghesito
facendogli largo nelle riviste londinesi. Ma Lenine e Trotski erano due
uragani, due sommosse, due rivoluzioni ambulanti, due anticristi della
distruzione. Non rappresentano che dei lavoratori. Sono due manifesti rossi.
Ambiziosi, diceva un altro ministro. Volevano il trionfo della rivoluzione
proletaria per darci lo spettacolo d'una Russia sotto la loro dittatura. Senza
di loro il governo provvisorio non avrebbe avuto che operai e contadini a
battere le mani e a sgolare la loro approvazione.
Kerenski sentiva il mormorio, ma
restava sempre della sua opinione. Come ha fatto per la salvezza
dell'imperatore, ha fatto per i membri dell'ultimo governo czarista. La gente
urlava per la sua testa e lui taceva e ignorava.
Lo Czar era a Tolbosk. E i suoi
collaboratori erano nelle celle di Pietro e Paolo. Che cosa vi facevano?
Nessuno lo sapeva. Kerenski si illudeva. Credeva all'oblio del pubblico. Invece
il popolo a gruppi girava intorno alla bastiglia e si piegava come per
origliare e sapere se le verghe dell'antico regime servivano anche per le carni
dei castigatori del passato impero. C'era sete del loro sangue. Avevano
martirizzata la Russia. Buttato nella disperazione migliaia di famiglie e
dovevano perire. Avevano tolto agli ebrei perfino il diritto di morire.
Frustati, buttati dalle finestre, massacrati dalle organizzazioni poliziesche.
Gli ex carnefici che avevano fatto discendere nel sepolcro protetto dalle alte
muraglie i migliori del pensiero russo, dovevano morire in pubblico come i
malviventi della Corte di Luigi XVI.
Il colpevole era dunque
Kerenski. I sostenitori del despotismo erano stati messi tutti assieme, l'uno
nella cella accanto all'altro, perchè potessero comunicarsi e tramare un'altra
volta una strage dei rivoluzionari. Si citavano i nomi. C'erano Sankhomlinof,
il concussionario e il protettore di Miassoiedof, massacratore; Schuturmer, il
traditore, l'autore dello schiacciamento della Rumania; Protopopof, il genio
del male dell'ultima fine del regno di Nicola, l'atroce individuo che aveva ricevuto
350 mila rubli per lo sterminio del proletariato. Poi venivano due donne, due
rifiuti umani, due megere, due cortigiane scese al livello delle bestie: la Vyrubov, l'amante equivoca di Rasputin e la triste consigliera di Alessandra Feodorovna e
Caterina Soukhomlinof, mercantessa di influenza. E poi altri. Ma non molti.
Kerenski non ha saputo o non ha voluto mettere le mani su tutti gli omicidiarii
dell'impero. Il solo pesce grosso che non sia sfuggito alle maglie
rivoluzionarie fu l'ufficiale della gendarmeria Sobiéchtchansky, il carnefice
di Pietro e Paolo, colui che bastonava e torturava con le cinghie sulla faccia,
con i ferri ai polsi e alle gambe e con tutte le punizioni corporali i
prigionieri politici. Con lui i prigionieri di Pietro e Paolo non potevano
coricarsi che gridando ogni sera: Dio protegga lo Czar! Il cane infliggeva
tutti i supplizi!
Per la parte topografica la
famosa fortezza Pietro e Paolo è una massa granitica alta, in faccia al Palazzo
d'Inverno, sede della Corte Imperiale, dal quale ogni mattina il monarca sapeva
che i suoi nemici infernali soffrivano le pene dell'inferno. Il sinistro
edificio è piantato su un isolotto della Neva come un simbolo dell'autocrazia.
I prigionieri dal fondo delle celle contavano le ore e le mezz'ore della
campana dell'orologio della cattedrale, dove sono i sepolcri delle tigri della
famiglia Romanov, e si ripercuotevano nella testa dei sepolti vivi. Si penetra
nella fortezza per un ponte levatoio, si gira l'alta muraglia il visitatore si
trova a faccia a faccia con un'altra muraglia nel mezzo della quale è una porta
di ferro massiccia, che si apre con una grossa chiave e si richiude
automaticamente confondendosi internamente con la muraglia. Si entra e si passa
su un piccolo e oscuro corridoio a sinistra e si vede un edificio pure
massiccio, di un piano, che dà l'impressione di una fortezza circondata da una
palizzata di ferro lunga, umida, sudario di pietra degli avversari
dell'assolutismo. Nome atroce nella storia russa. Le celle del piano terreno sono
a una profondità di un metro o un metro e mezzo della Neva. Così trasudano e
mietono i prigionieri insofferenti di umidori. Un'altra porta pesante e si
incontrano le sentinelle e i carcerieri, con i loro berretti duri e neri. Lungo
il corridoio a destra e a sinistra sono le 80 celle chiuse dai quadrati di
ferro e dai catenacci enormi. L'occhio di bue tortura il prigioniero sepolto
come in una bastiglia.
Pietro Kropotkine, che ha avuto
il fratello deportato e morto in Siberia, è stato in Pietro e Paolo: «Mi si
condusse in una cella la cui pesante porta di ferro si chiuse su di me con
suoni lugubri che risuonarono sotto le vôlte. Udii distintamente il fracasso
dei catenacci e della chiave nella serratura. Rimasi solo nell'oscurità. L'alta
finestra chiusa al difuori dalle spranghe di ferro, infisse in una muraglia di
un spessore di cinque piedi. Non vedevo più che un quadrato di cielo. Capii che
ero in uno dei bastioni della fortezza. La mia cella era dunque una casamatta
antica. Vivevo in un silenzio di morte. All'ora del pasto mi si passava una
pessima zuppa e un pezzo di pane nero. Vi rimasi due anni. Caddi ammalato.
Passai in un Ospedale».
Non la si finiva più con
Kerenski. Egli era una discussione quotidiana. Tutti s'aspettavano da lui atti
prodigiosi. Un giorno gli è capitato il generalissimo elevato da lui, a 42
anni. La benemerenza per il vecchio parlamentare e per il ministro della guerra
era un calcio insurrezionale, una rivolta militare, un'insurrezione in piena
regola. Kerenski agitava i pugni. Kornilof, sotto il berretto del
rivoluzionario, era un disgraziato che sentiva l'antico regime che non gli
aveva mai dato che il posto di colonnello. Egli era una specie di Boulanger
della repubblica francese, ai tempi della grande corruzione politica e finanziaria.
Sognava di penetrare in Pietrogrado, alla testa di un esercito che gli avrebbe
dato modo di inscenare una dittatura militare. Il primo dissenso con Kerenski
fu la pena di morte. Egli la voleva ripristinare. Senza di essa non rispondeva
più dell'armata. La libertà data agli eserciti di terra e di mare era uno
sproposito. Senza pena capitale egli non vedeva che ammutinamenti, che soldati
contro gli ufficiali, che riottosi, che indisciplinati, che disertori. I
soldati russi dell'ambiente kerenskiano avevano dato lo spettacolo in Francia,
a La Courtine, di ammutinamenti senza esempio. Nessuno di otto o nove o dieci
mila uomini, ha valuto riprendere il fucile. Erano stufi di ammazzare e di
farsi ammazzare. Per l'onore militare si sono messi in moto generali francesi e
russi. Niente. L'onore nazionale non li ha commossi. Non c'è stato che il
cannone che li abbia smossi. A cannonate si sono fatti rientrare nell'orbita
militare. Si è dato ad essi l'ora dell'ultimatum. O cedete domani, 3
settembre 1917, alle dieci del mattino, o sarete sotto il fuoco rapido c fitto
delle artiglierie. Tre giorni è durato il cannoneggiamento. Il massacro veniva
sospeso a ogni alzata di fazzoletto bianco. Gli ultimi della resistenza sono stati
150. Vennero liquidati il giorno 5. In Russia, peggio. I soldati si
ubbriacavano. I soldati uccidevano i superiori. I marinai buttavano in mare gli
ufficiali. Con l'indisciplinatezza avevano disimparato a fare il soldato.
Padrone della pena di morte, Kornilof ne fece fucilare simultaneamente, in
blocco, 500 e sulla loro buca collettiva vi ha piantato questo cartello:
«Questi uomini furono traditori della patria e della rivoluzione».
In tempi in cui i soldati
morivano a centinaia di migliaia, accavallati a montagne, come è avvenuto in
Francia, non v'era da commuoversi. Migliaia più, migliaia meno non contavano
nella somma. Non si erano commossi che i massimalisti, antiguerraioli.
Kornilof, trionfante, aveva dato la stura alla bottiglia del suo orgoglio.
Lavorava sott'acqua. Demoliva la grandezza di Kerenski. Minacciò una cavalcata
fino al centro di Pietrogrado. Voleva esserne il dittatore. Si sarebbe
presentato come un Cromwell moderno. La sua perplessità, dopo la minaccia
verbale, lo ha perduto. Kerenski lo ha preceduto, lo ha sopraffatto, lo ha
chiuso in un cerchio di baionette «come ribelle e traditore della patria». Lo
ha fatto arrestare e lo ha inviato a venti ore dalla capitale, nella carcere di
Buikhof, sulla linea di Kiew, dove erano altri due generali, il generale
Doukonine e il generale Orlof.
Un altro ministro-presidente non
avrebbe tollerata viva la testa del traditore Kornilof, quello che aveva
rimesso in vigore il codice militare, che aveva tentato un colpo di stato e che
voleva distruggere i Soviets, l'avvenire. Egli, è naturale, è stato biasimato
per la sua bontà nelle assemblee. In rivoluzione non si transige. Un generale,
per esempio, come Doukonine, la personificazione del terrorizzamento militare,
l'uomo tetro che ha sempre un pretesto per fucilare qualcuno dei reggimenti al
suo comando, non può vivere in ambienti di rivoluzione militare. Lo si è
veduto. Le guardie rosse non hanno potuto impedirne il massacro. Egli era a
Noghileff, sede del quartiere generale. Era già deposto e in custodia. Doveva
essere sostituito dal sotto ufficiale Krilenko. Giunto il sostituto, intorno
all'assassino gallonato si addensò una folla armata di fucili. I soldati
indossavano cappotti larghi e avevano in testa una variazione di berretti di
tutti i colori. Erano un gruppo della guardia rossa dei massimalisti, il corpo
scelto di Lenine.
— Compagni! — ha detto Krilenko
ai soldati. — Fermatevi! Che fate? L'esercito rivoluzionario non è una muta di
assassini!
Ma il generale ne aveva fatte troppe
perchè il sangue non bollisse nelle loro vene.
Krilenko voleva consegnarlo al
tribunale rivoluzionario, ma da Noghileff a Pietrogrado c'era della strada. I
traditori fuggivano. «Dove era Kerenski? dove era Korniloff?», urlavano coloro
che erano per la fucilazione senza indugio.
Non appena il generale si fece
vedere allo sportello del treno che doveva trasportarlo a Pietrogrado, si
udirono urla frenetiche che si addensavano sul capo di Doukonine. Traditore!
Traditore! nemico del popolo! A colui che voleva aspettare il tribunale venne
rimproverata la sua origine borghese. Sei uomini saltarono nella carrozza del
treno, lessero al generale la sentenza di morte. Le guardie rosse lo spinsero
fuori del vagone. Non gli si dette il permesso di giustificarsi. Due
rivoltellate alla gola lo sbarazzarono della vita...
Noi siamo per il giudizio, anche
se fosse presieduto da Fouquier-Tionville, venuto a noi dalla grande
rivoluzione francese come un cinico e un fanatico implacabile. Ma noi possiamo
capire anche il giudizio sommario, quando una nazione si sveglia alla libertà
dopo trecento e più anni di sudditanza a un trono che continuava a
rappresentare l'«Etait c'est moi». Meglio Cartouche, meglio Mandrin, che la
giustizia dei giudici dell'antico regime impersonato nei Romanov!
L'insensibilità apparente dei
leninisti è in un altro fatto. Muore Giorgio Plekhanof, partigiano di una
repubblica che non differisce gran che da una monarchia costituzionale. Il
funerale fu un omaggio commosso delle classi colte e degli intellettuali
antileninisti al celebre marxista dei primi tempi. Il suo ritorno in Russia non
fu che un annuncio di due righe di cronaca. Egli era per la guerra e non aveva
che sberleffi per Lenine e Trotski. Invitati i rossi a partecipare al funerale,
il Soviet massimalista di Pietrogrado rispose: «Per noi è un anno ch'egli è
morto». Così diceva in Italia il povero Molinari di Kropotkine: «Per me è morto
da tanto tempo». La diversità è questa: quindici giorni dopo la morte di
Plekhanof venne assassinato per le strade Volodarski, organizzatore di comizi
leninisti, direttore di quasi tutto il quartiere industriale di Viborg. I rossi
furono tutti sottosopra. Il loro cuore piangeva. I bolscevichi requisirono per
i suoi funerali duecentomila rubli di fiori e le folle rosse si riversarono
dietro il suo carro in 400 mila, come è avvenuto adesso in Parigi per la
dimostrazione di Jean Jaurès. Il torto dell'ex-rosso fatto al rosso esaspera,
indigna, indiavola. Le folle russe non potevano più affezionarsi all'oppositore
del bolscevismo. Le folle parigine non hanno trucidato i giurati
dell'assoluzione dell'assassino di Jaurès perchè hanno potuto manifestare il
loro cordoglio in una forma solenne e civile. Senza questo sfogo avremmo avuto
in giro le teste dei delinquenti del verdetto atroce.
Cito un altro caso che dà le
antipatie e le simpatie di partito, anche quando il partito è quasi nazionale,
come quello dei Soviets di questi mesi. Lenine e Trotski erano contro i
socialisti patriotti e per una sollevazione contro Kerenski. Si trattava di
rovesciare un governo ormai consumato fin alla corda. I bolscevichi si
agitavano per una società di lavoratori. Lenine, il 30 ottobre 1918, si trovava
a Mosca — sede e capitale del nuovo governo dove aveva concionato nella
officina Michetson. Il fattaccio ha circolato per il mondo. Il vincitore di
Kerenski parlava con alcuni operai. Una donna gli ha cacciato in corpo due
proiettili.
La condizione del grande Lenine
era grave. Arrestata la revolveratrice e saputa la notizia, la Russia rossa fu tutta in piedi. Il giornale leninista di Mosca era furibondo. Non è molto che
siamo riusciti a sviare un attentato contro Zanovief, il governatore di
Pietrogrado. Ieri è caduto Ouritzki, descritto dalla borghesia come un furente
esecutore di ordini a mano armata. Lo si diceva un uomo che si alzava di notte
a trasferire i prigionieri da una carcere all'altra, tirando colpi di fucile al
dorso di chi lo irritava. Il Marat della rivoluzione russa si sbarazzava dei
cadaveri buttandoli nella Neva, come si era fatto di Rasputin. «Arresto chi
voglio e non ricevo consiglio da nessuno», diceva. Viceversa non era che un
rigido commissario del popolo all'istruzione pubblica. Uscendo dal ministero
dell'interno, accasato al Palazzo d'Inverno, mentre stava per raggiungere l'ascensore,
un giovine gli tolse la vita con una rivoltellata.
Ritorniamo a Lenine. L'attentato
ha imperversato l'opinione pubblica fino all'incendio. Nella notte stessa vi
furono un po' dappertutto fucilazioni di rappresaglia. L'opinione pubblica non
si è tranquillizzata che dopo la fucilazione della Kaplan.
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