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Paolo Valera
La catastrofe degli czars

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  • Lenine e Trotski «dittatori e terroristi».
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Lenine e Trotski «dittatori e terroristi».

 

Non c'è da meravigliarsi. La borghesia è sempre la stessa. Parli una lingua europea o moscovita. Quello che è delitto per il suddito non è per il sovrano. Carlo I si rivolta contro il paese con le armi alla mano, tenta di sopprimere le libertà parlamentari, e i deputati gli mettono il collo sul ceppo del carnefice e lo restituiscono al Dio che gli aveva dato il potere di livragare la gente che non voleva rinunciare ai propri diritti. Ed ecco che l'aristocrazia chiama i cromwelliani mucchi d'assassini! Il sanculotto passa attraverso la stessa scena. I repubblicani del Portogallo atterrano quella figura losca di libertino che giustiziava l'opposizione negli intervalli che gli lasciavano le bagasce parigine, e i monarchici non pensano che alla vendetta per riagguantare il potere. Così è nel regno di Lenine e di Trotski. C'è tutta una biblioteca contro Nicola II. Non c'è museo criminale che non ne esponga la figura sanguinaria, come figura centrale del gruppo lubrico di Zarkoie-Selo. E l'aristocrazia e la borghesia degli ambienti signorili lo difendono come un debole. Non si ricordano. Sono come smemorati. Non si ricordano più delle catene degli intellettuali avviati alla morte lenta in Siberia, della gioventù punita con tutti i castighi, delle frustate nel sepolcro dei vivi, delle galere, della corda del carnefice; del proletariato massacrato ora dai cosacchi, ora dalla gendarmeria e ora dalla polizia. Tutto questo è niente. Nicola imperatore per loro è rimasto indiscutibile. È lui solo che pensa alla «felicità» di centottanta milioni di sudditi. Domani è sorpreso dalla bufera rivoluzionaria. Lo si arresta, lo si giudica e lo si ammazza come una belva che si forbiva le labbra del sangue che versavano i suoi cortigiani, i suoi lacchè e si grida a squarciagola che si è compiuta non una giustizia, ma una vendetta! Se fosse, non sarebbe più che giustificata? In rivoluzione non si è santi. À la guerre comme à la guerre.

I suoi alti servitori fuggono e gridano dall'Europa continentale all'assassinio bolscevico, ai banditi del bolscevismo, ai Gasparoni della rivoluzione. Ah no, signori, voi vi siete serviti troppo degli scribivendoli che vi facevano l'opinione pubblica, che vi facevano assolvere dai mostruosi delitti che compivano i satrapi delle provincie incaricati di devastare i campi umani.

La storia non è più fatta da voi. Se Lenine e Trotski avessero seguìto l'andazzo delittuoso di Kerenski avrebbero meritato dai posteri la forca. Così, no. La storia della grande Rivoluzione francese è stata ripresa dopo la fucilazione dello Czar. Gli tennero dietro i granduchi che non erano riusciti a salvarsi con la fuga, i granduchi sbevazzoni, ubbriaconi, bagascioni che consumavano le notti nelle sale appartate dei grandi restaurants per le orge più bestiali. Rompevano specchi, gualcivano cortigiane, spargevano sui tavoli e sul pavimento tanto champagne da mantenere un esercito di affamati. Nella sala dei granduchi del più grande ristorante di Pietrogrado vuotavano, nelle grandi nottate, le scarpine delle mantenute piene di punch. Essi hanno cessato di vivere. Lo scandalo di tanti sporcaccioni dal sangue imperiale è cessato. I figuranti intorno all'imperatore rasputiano, erano una cloaca di vomiti e di sudicerie.

L'avvenimento che tutta la dinastia fosse sepolta ha fatto nascere il sottovoce dei nemici della repubblica bolscevica che Lenine e Trotski non avessero che poche ore da vivere. Ma loro non si sono spaventati. Non hanno trattenuta la giustizia. L'hanno lasciata continuare. Sia fatta giustizia e perisca il mondo.

I delinquenti massimi dell'impero non erano ancora stati mietuti. Erano i responsabili della demenza dinastica. Mancavano l'ex-ministro dell'interno Koastoff, l'ex-ministro di giustizia Chiglovitoff, il turpe e crudele Biletzki, ex-direttore della polizia, l'ultimo serpente boa della giustizia czaresca, Protopopof, l'uomo dai bagni di sangue e l'iniquo e balordo Malakof, ultimo consigliere del sovrano. Finalmente il Collegio della Commissione straordinaria li ha trovati colpevoli e li ha passati al plotone della fucilazione senza indugio. Essi hanno tenuto dietro al loro monarca. Dopo loro, la Kaplan, quella turpe femmina che con due palle aveva mercenariamente tentato di abbattere il dorsale della rivoluzione. Carlotta Corday ha sprofondato il pugnale nell'Amico del Popolo per un rigurgito di odio, la Kaplan, no. Ella ha tentato alla vita del rovesciatore del regime capitalista per una passione monetaria o per una libidine di cadaverizzare l'odiatore delle borghesie.

È stata una fucilazione parca. In nessun paese i malviventi passati per le armi sarebbero stati salvi. Anzi in nessun paese avrebbero vissuto tanto. Essi erano l'incarnazione della bassezza e della perfidia. Corrotti, depravati, venali, cinici, sanguinari. Nessun maestro di satira caricaturale riuscirà mai a riprodurre nelle figure la loro degenerazione e la loro voluttà acre di abbattere gli eserciti del lavoro.

Nella operazione di sbatterli fuori della vita collettiva non ci fu nessuna brutalità. Non una parola oltraggiosa un gesto sdegnoso. Morirono tutti senza paura. Senza apparato. I Girondini subirono l'inseguimento della folla. L'esecuzione degli uni e degli altri fu diversa in tutto. I fucilati morirono in una bella giornata di sole. I ghigliottinati sotto una pioggia torrenziale. I fucilati in un ambiente borghese e tranquillo. I girondini perdettero la testa su di una piazza piena di spettatori che applaudivano il carnefice e gridavano: à bas les traîtres!

Un meraviglioso cooperatore di Lenine e di Trotski è indubbiamente Zinovief, presidente del Soviet di Pietrogrado. Egli fu di una attività straordinaria. Sulla Pravda egli ha dato una notizia importante per gli studiosi: «La riluttanza proletaria ad occupare la proprietà della borghesia». Essi, gente di stamberga, si sentivano vergognosi di accasarsi nei grandiosi appartamenti dei ricchi dell'antico regime. Vi entravano e vi rimanevano alla soglia abbagliati, increduli a se stessi. Così i villani abituati alla schiavitù, resistevano. Avevano paura di impossessarsi dei fondi ubertosi degli antichi padroni. Zinovief ha dovuto incoraggiarli, spronarli, spingerli nel nuovo benessere. Avanti, per dio, è tutta roba vostra. Al lavoro, producete! Zinovief mutava nomi, trasformava gli ambienti, cancellava ogni giorno dalla capitale dei Romanov, nomi odiosi e classificazioni di edifici frequentati dalla geldra passata. L'Hôtel Astaria (albergo di gran lusso), centro delle spie del vecchio regime, è divenuto «la Prima Casa dei Soviets di Pietrogrado».

Zinovief è un entusiasta delle idee di Lenine e di Trotski. In una conferenza a Berna ha detto che Lenine «è il più grande rivoluzionario del mondo e il Montebianco dell'internazionalismo». Egli ha partecipato con i due regolatori della vita bolscevica alla rivoluzione soffocata nel sangue a Mosca nel 1905. È stato con loro in Austria, in Ungheria e in Polonia. Prima che scoppiasse la guerra egli studiava economia politica all'Università bernese. Ammogliato con una donna che ha i suoi stessi ideali. La stella di Lenine si alzava e con Lenine qualche altro. Nel maggio del 1917 lasciò la Svizzera nel famoso vagone piombato per ritornare in Russia. A Pietrogrado i tre uomini più importanti della rivoluzione proletaria si gettarono nel lavoro orale dei comizî. Le loro idee conquistarono le masse già preparate a una sollevazione. Lenine arrestato, continuava Zinovief; incarcerato Zinovief, continuava Trotski.

La fuga di Kerenski, fu il regno di Lenine. Caduto il Governo provvisorio, Zinovief si mise alla testa della Krasnaia Gazetta, dove scriveva articoli ardenti di fede e sobri di aggettivi borghesi. Non predicava il saccheggio e l'assassinio. Predicava la riconquista dei beni rubati al popolo e la punizione dei malviventi. Zinovief, nervoso, polemista, organizzatore senza rivali. A chi gli rimproverava gli eccitamenti rispondeva:

— È terribile quello che mi raccontate. Sarà vero, non sarà vero, ma noi non possiamo fare altrimenti. Il giorno della fucilazione dei grandi duchi e dei grandi consiglieri di Nicola, lo stesso giornale che riceveva le idee leniniste, portava in giro questa fraseologia mortuaria: È passato un anno e mezzo dalla rivoluzione di febbraio e questi mascalzoni e questi vampiri che si immergevano nel sangue dei lavoratori e dei contadini continuavano a infettare la nostra terra con il loro alito puzzolente. La borghesia della rivoluzione di febbraio li ha risparmiati. È toccato al proletariato che ha rovesciato il Governo di Kerenski a farli scomparire. Questa bontà d'animo è imperdonabile. Ci è costata cara. Gli è con grande ritardo e solo dopo lezioni crudeli che il potere dei Soviets ha fatto quello che avrebbe dovuto fare molto prima il Governo della Repubblica politica.

Zinovief era un fedele leninista. Eseguiva gli ordini alla lettera e arrestava e tratteneva in prigione gli ostaggi senza ascoltare le preghiere dei loro parenti. I giornali che salutavano Nicola con rispetto continuavano a sfigurarlo come una figura macabra. Citavano le sue stragi e i suoi imprigionamenti. Lui sorrideva. Non esagerava neanche quando lo facevano salire alla funzione del tagliateste.

Lenine iniziò la sua campagna in Pietrogrado chiamando il Governo provvisorio un «Governo capitalista». Mise in circolazione i suoi pensieri di risurrezione proletaria sulla Pravda e in una riunione di operai. Voleva la cessazione della guerra e la restituzione delle fortune che si erano appropriate i ricchi.

Il seguito leninista aumentava tutti i giorni. La tiratura della Pravda saliva ai cacumi delle tirature dei massimi giornali europei. In pochi giorni era giunta a 3.000.000 di copie. Con la Pravda si pubblicavano molti altri fogli leninisti. Pietrogrado era inondata di caricature del vecchio e del nuovo regime. Tolstoi era in ribasso, non lo si capiva più. La santa passività cristiana e il marasma letterario erano dolciumi non più adatti al palato rivoluzionario. Le penne gagliarde non diffondevano che gli stessi principi della distruzione e della edificazione simultanea: «Deponete le armi e rientrate nei vostri villaggi». «Dividetevi le terre dei proprietari». Agli operai si insegnava la stessa teoria: «Impadronitevi delle fabbriche, sfruttatele voi stessi». Ai commessi di magazzino: «Scacciate i padroni e prendete i loro magazzini». Tafferugli non ne sono mancati durante lo svolgimento proletario. Ma la forza del numero vinceva dappertutto. Qua e scene comiche. Fra le proprietarie e le ragazze delle stirerie, ci furono accapigliamenti. Scaramucce di schiaffi. Lotta a scopate fra le vecchie e le nuove proprietarie. Non si rivoluziona un sistema senza qualche bastonata, senza qualche ceffone, senza colluttazioni personali. Non mancarono i sabotaggi. I cervelli vecchi si vendicavano. Kerenski in mezzo alla demolizione si è trovato sopraffatto. Non ha più potuto resistere. Il mondo del lavoro gli era contro. Ha dovuto andarsene. La proprietà passava dal padrone al Soviet locale.

Lenine, che ha avuto appeso un fratello durante il regno di Alessandro III, ha pubblicato, prima del grande rovesciamento borghese, molti libri sulle questioni economiche agrarie. I massimalisti o leninisti o maggioritarî hanno qualche rassomiglianza coi minoritarî francesi. I russi sono però più energici, più audaci, più consapevoli dei principî che edificano una società nuova. Vedendo Lenine, quantunque superi la statura media degli uomini, non lascia pensare al gigante della costruzione o della rinnovazione sociale. Lo si direbbe piuttosto un intellettuale della vecchia Russia.

Ascoltandolo si sente che si è alla presenza di un grand'uomo, insaccato di idee fascinose e piene di scintille per le masse del mondo. I suoi discorsi sono armoniosi e pieni di prosa lievitata. La verità è in lui. La Pravda che ne porta il titolo è cosparsa delle sue idee eroiche. L'uccisione dell'ambasciatore Mirbach gli ha fatto scrivere: «L'attentato contro Mirbach è evidentemente un fattaccio di monarchici provocatori che vogliono trascinare la Russia nella guerra nell'interesse del capitalismo anglo francese che ha già assoldato gli czechi-slovacchi». A leggere Lenine nei libri si ha un'altra impressione. Si sente il gigante che non spreca parole. La sua faccia rossa è inquadrata da una barba a fior di pelle. Baffi cadenti. Fronte alta e fuggente. Leggera calvizia. Sguardo inquieto che s'illumina di durezza intelligente. Testa di profeta mistico. I suoi periodi sono densi di idee e senza lirismi. I suoi 12 anni e l'Imperialismo meritano di essere letti. L'ultima brochure è intitolata I problemi del Potere dei Soviets.

Trotski è della stessa scuola; qualche volta supera il maestro. Egli è più energico, più vibrato, più iniziato nel trattamento di una amministrazione rivoluzionaria. La Repubblica dei Soviets è concezione di entrambi. Ma la spinta edificatoria è sua. Il suo motto di soluzione a Brest-Litowsk era « pace guerra». Il che voleva dire il distacco dagli alleati.

Kornilof doveva essere mandato al palo. Non lo si è fatto. Gli si è permesso invece di essere intervistato, di ricevere in prigione un giornalista francese per mettere in circolazione le sue bugie. Così i soldati dell'esercito rosso hanno incominciato qua e la giustizia sommaria. L'organizzatore delle fucilate contro gli indisciplinati, un capitano, non ha potuto continuare a lungo. Gli hanno fatto la pelle.

Kornilof, il generale che aveva tentato di rovesciare con una cromwellata il Governo di Kerenski, aveva giovato a sua insaputa ai bolscevichi. Il tentativo di sollevazione del 3 luglio non era riuscito. I soldati non si erano mossi. Non avevano voluto associare il loro fucile coi disarmati in giacca. Kerenski voleva agguantare Kornilof e mandarlo al muro. Per rifare l'esercito egli cercò l'aiuto delle organizzazioni operaie. Tutte assentirono. Gli operai passarono dall'officina alla caserma con entusiasmo. Armati, invece di procombere sui soldati di Kornilof, bloccarono il Governo di Kerenski. Fu l'ultima pagina di tutti i suoi comandi supremi. Fu la sua débâcle. L'esercito bolscevico era in piedi. La guardia rossa era nata. Costava. Riceveva il suo salario d'officina e una rimunerazione che saliva fino a 40 rubli al giorno. Con la minaccia di una invasione germanica, la guardia rossa è divenuta l'esercito rosso.

Il Decreto del 15 gennaio 1918 che istituiva questo esercito, diceva: «Il vecchio esercito ha servito alla borghesia per l'oppressione delle classi lavoratrici. Passato il potere alle classi dei lavoratori e degli sfruttati, è nata la necessità di creare un nuovo esercito che serva di baluardo al potere dei Soviets e di base alla sostituzione dell'esercito permanente con una milizia che sarà il sostegno della futura rivoluzione sociale in Europa».

Sono stati ammessi alla difesa della rivoluzione d'ottobre tutti i cittadini al disopra dei diciotto, con uno stipendio mensile di 50 rubli e con il mantenimento delle famiglie incapaci di lavorare fino al ritorno dei figli o dei mariti o dei padri. Nel febbraio si è annunciato che i tedeschi marciavano su Pietrogrado. I bolscevichi incorporarono senza aspettazione le guardie rosse nell'esercito rosso. Fu un attimo. Si vestirono, si munirono di armi e munizioni e partirono per la linea del fuoco. I tedeschi si arrestarono. Il pericolo fu evitato. L'esercito rosso contava allora 400 mila uomini. Adesso è in grado di sostenere qualunque attacco controrivoluzionario.

Per capire l'esecuzione del generale borghese è necessario dare un'occhiata all'esercito della repubblica federativa dei Soviets. Non è un esercito come gli altri. La sua organizzazione è dovuta, più a Trotski che a Lenine. Il primo ha preparato due milioni di uomini in un momento. Il secondo ha messo assieme i volontari. I due tipi militari non hanno nulla di comune coi soldati della monarchia. Il loro primo còmpito è stato quello di difendere lo Stato bolscevico. L'esercito è un elemento di difesa sociale come i globuli rossi sono un elemento di difesa vitale. È un esercito di classe, diviso in sei circoscrizioni. Il soldato rosso è il contrario di quello giallo della monarchia. Quello di Lenine si impegna a dare tutto se stesso all'autorità dei Soviets. Alla testa di una Compagnia è un istruttore eletto dai soldati, i quali hanno diritto di destituirlo ogni volta che non si riveli adatto. Il Comandante del reggimento è scelto dall'autorità militare, ma il diritto di licenziamento è dei soldati del reggimento. Ogni Caserma ha una Commissione per organizzare corsi di scuola, conferenze e sedute cinematografiche, ecc. Le famiglie dei soldati hanno diritto all'alloggio negli appartamenti signorili dei borghesi. Il soldato riceve 300 rubli al mese. Il rublo è un equivalente di quattro lire. Vive con una libbra di pane, con un pezzo di carne o con del pesce o della conserva in scatola. Riso e maccheroni in proporzione. Il giuramento è breve: «M'impegno davanti ai miei compagni d'armi, davanti al popolo rivoluzionario e davanti alla mia coscienza rivoluzionaria di lottare degnamente e onestamente, senza paura e senza esitazioni per la grande causa alla quale i migliori giovani della classe operaia e contadina hanno dato la vita per il trionfo del potere dei Soviets e del Socialismo».

L'esercito rosso è sempre in esperienza. La pratica sconsiglia oggi quello che è stato approvato ieri. Trotski, dopo sei mesi di potere, ha pronunciato a Mosca queste parole: «Noi dobbiamo costituire un esercito indipendente e copiare possibilmente la grande Rivoluzione francese. Il nostro esercito deve essere un esercito di classe, poichè la nostra rivoluzione è una rivoluzione di classe».

Sono inflitte multe da 3000 a 100.000 rubli ai borghesi che non si presentassero al reclutamento. Fino a tanto che la dittatura rivoluzionaria, ha detto Trotski, non avrà rotta la resistenza borghese, sarà impossibile incorporare nelle truppe rivoluzionarie la giovine generazione delle classi degli sfruttatori. Bisogna imporre alla borghesia gli obblighi militari del nuovo regime senza fornirle il mezzo di tradire. Le corvées ai borghesi, le armi al popolo.

Leo Trotski è il figlio dell'israelita colonista del governo di Kherson. Nacque nel 1877. Nel 1898 lo si trova in un'istruzione giudiziaria fatta contro il Sindacato operaio del sud della Russia. Nel ottobre del 1899 lo si è mandato in Siberia per quattro anni. Vi si è sottratto con la fuga. Nel 1905, dopo l'esordio rivoluzionario, ha rimpiazzato un compagno come presidente di un Soviet di Pietrogrado. Un anno dopo egli perde i diritti civili e lo si trasloca per ordine amministrativo in un'altra provincia per scappare di nuovo sul continente. Tra Vienna e Parigi scoppia la guerra. Per la sua propaganda di pacifista, la Francia lo ha messo alla frontiera. Egli sbarca in America. È internato nel Canadà. Con un piroscafo della Star Line giunge a Southampton e poco dopo è in Londra — il grande caravanserraglio umano — dal quale fugge per trovarsi con Lenine e introdursi nella rivoluzione russa.

Lenine è lento e pesante. Trotski è svelto e aitante. Occhi fosforescenti. Naso dalle nari boscose su una bocca larga e sensuale, con una barbetta mefistofelica sotto una faccia rasatissima. Testa magnifica e capelluta. Attività varia. Intelligentissimo. Sa cambiare di rôle in un attimo. Lo abbiamo visto fra i lupi della diplomazia a negoziare la pace per la Russia rivoluzionaria. Fu uno dei più tenaci durante le violenze del carnefice tedesco, il quale voleva recidere la testa alla rivoluzione bolscevica. In quell'intervallo egli ha annunciato al popolo russo che sperava di vedere il gallo rosso cantare il trionfo della rivoluzione francese sulle rovine della Borsa di Parigi. Oratore d'ingegno. Lottare, diceva, serrare le fila, creare disciplina operaia e ordine socialista, aumentare la produttività del lavoro e non isgomentarsi davanti a nessun ostacolo: questa è la nostra parola d'ordine.

Dopo lui nel gabinetto Lenine va messo Anatolio Lunatcharsky, figlio di un consigliere di Stato di Mosca. Nel '98 fu tra gli accusati di propaganda rivoluzionaria. Due anni dopo è un sorvegliato dell'alta polizia. Arriva alla rivoluzione del 1905, tra un arresto e l'altro, tra un trasloco amministrativo e l'altro. Fugge. A Berlino conciona i profughi. Sosta a Parigi e passa il tempo fra lo studio e la conferenza di contenuto bolscevico. Scrive sul Proletaire.

Magro. Profilo emaciato del Cristo slavo. Sguardo velato e mistico. Artista. In mezzo alle statue e ai quadri la sua anima è come rapita. Non appena si sono bombardati i capilavori di Mosca ha sentito il bisogno di dare le dimissioni. «Mi è stato raccontato che la cattedrale di Basilio il Felice e la cattedrale dell'Assunzione siano state bombardate. Mi è pure stato raccontato che il Kremlino, ove sono ora i tesori artistici più importanti di Pietrogrado e di Mosca, sia stato anch'esso bombardato. La lotta accanita è giunta a un grado di odio bestiale. Non posso tollerare queste cose. La mia misura è colma. È impossibile di lavorare sotto l'impressione di pensieri che rendono pazzi. Ecco la ragione per cui io abbandono il Consiglio dei commissarii del Popolo».

Saputo più bene gli avvenimenti si è accorto che gli informatori avevano esagerato. Così mandò una lettera «agli operai, ai paesani, ai soldati, ai marinai e a tutti i cittadini della Russia per raccomandare loro di vegliare alle nostre ricchezze nazionali».

Tutti i membri del Consiglio del popolo sono passati per le carceri, per le polizie, per i gabinetti dei giudici. È una storia identica per ciascuno e per tutti. Con gli Czars non era che l'idiota che vivesse tranquillo.

Il Commissario del popolo alle finanze è Svortzov, professore. Ha fatto i primi passi ed è stato accusato di terrorismo per avere fabbricato materiale esplosivo. Arrestato, deportato nella Siberia orientale, ritornato per essere di nuovo nelle mani delle alte e basse polizie, condannato di nuovo a tre anni d'esilio, ritorna nella Gran Russia carico di rivoluzionarismo più di prima.

Così fu di Avilov, il Commissario del popolo alle poste e telegrafi. È il solo che non vanti studi universitari. In origine era tipografo. Poi propagandista rivoluzionario. Membro attivo delle società segrete di Mosca. Si è salvato all'estero. Seguì i corsi delle scuole degli agitatori e dei propagandisti del partito.

Dopo lui vengono Djougachvili, Commissario alle nazionalità; Rykov, Commissario all'interno, traduttore di lingue estere. Sverdlof, farmacista, presidente del Comitato Esecutivo Centrale del Soviets; Kamenev, israelita dell'Università di Mosca; Ouritziki, ex segretario privato di Plekhanof, gerente degli affari della Commissione delle elezioni della Costituente, poi presidente del Comitato della lotta contro la controrivoluzione, posto che gli ha suscitato ondate di odii, finiti con il suo assassinio; Petrov che sostituisce sovente Trotski. Tchitcherine e via via, nomi per noi poco masticabili, gente tutta che ha subìto gli stessi imprigionamenti, le stesse sospensioni di vita, le stesse condanne, le stesse perturbazioni.

Noghine, Commissario del popolo al commercio e all'industria, fu un altro perseguitato. Egli è andato e venuto dalla Siberia più volte. A leggere le sue fughe parrebbe un personaggio della letteratura giudiziaria. La polizia politica non gli ha lasciato requie che dopo la caduta dello Czar. Egli è un universitario.

Tutti costoro non sono rivoluzionari improvvisati dalla catastrofe del dispotismo. Il loro ideale è maturato da una riunione o da un congresso all'altro. Lenine, capo dei maggioritari o dei bolscevichi, in un suo manifesto del 1914, esigeva la cessazione della guerra immediata e l'organizzazione della rivoluzione sociale.

La guerra europea aveva, per lui, un carattere eminentemente borghese, cioè era una guerra imperialista o dinastica. Il programma delle Potenze alleate, per Lenine, era di saccheggiare i Paesi, di conquistare mercati economici, per istupidire e dividere il proletariato di tutte le nazioni, nell'interesse della borghesia.

 




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