I.
Prima di incominciare.
Che cos'è questo chartismo? — È
della storia comune a tutte le nazioni che non hanno ancora — nel 1894! —
inaugurato il sistema dell'uguaglianza economica, politica, sociale. Sono le
classi che negano dei diritti alle masse. Sono gli eserciti del lavoro che si
levano in piedi con dei vogliamo. È tutto un popolo di malcontenti che, prima
di abbandonarsi ai tumulti o di consumare gli ultimi sforzi in una insurrezione
armata, si è lasciato acciuffare pei capelli e provocare lungo un periodo
tragico. Sono delle saccate di collera popolare, della collera insaccata per
degli anni, della collera che si è scatenata pel cielo britannico come una
minaccia collettiva.
La sola consolazione che trovate
nei tumulti inglesi è che la vendetta sociale dopo il fatto compiuto non è così
sentita come altrove. Qua e là vi sbuca sempre fuori l'inglese, non
importa di quale classe, che si curva dinanzi il verdetto dei molti, che si
dichiara incapace di violare le libertà costituzionali, che giustifica
l'omicidio quando desso è stato provocato dagli agenti della sicurezza pubblica,
che si sopprime dal consorzio piuttosto che dar l'ordine di far fuoco sulla
folla, che riconosce che la pazienza popolare, dopo tutto, ha un limite, che
raddolcisce la sentenza anche nelle giornate della zuffa classicida, che non
vuole sguinzagliare i salariati in montura sui salariati nella giacca macchiata
e sdrucita dalla fatica, se prima non ha veduto le teste delle autorità locali
— quasi sempre colpevoli! — inaffiate di sangue o rotte.
Tutta la storia del movimento
chartista — il quale va dal 1837 al 1848 — è pieno di questi documenti.
Ma prima di gettarci a nuoto nel
lago chartista, per capirlo bene, noi dobbiamo indugiare nel periodo che io
chiamerei della provocazione. Perchè fu la resistenza delle classi dirigenti
che obbligò il popolo diseredato di ogni diritto politico ad arrabattarsi per
degli anni e a darsi poi, nei momenti della disperazione pubblica, al piccone
della demolizione, alle fiaccole che incendiano i palazzi ducali, al saccheggio
che sazia lo stomaco ulcerato dai digiuni e a cacciarsi in piazza come tanti
tumulti che spaventano.
Giorgio III, come re, fu,
moralmente, migliore di Giorgio IV — il bagasciere morto con dei cassetti pieni
di guanti spaiati delle sue ganze e con al collo il fermaglio tempestato di
brillanti della Fitzherbert — una specie di Rosina Vercellana al castello di
Windsor. Ma la «plebe» dei tempi del regnante che governava, che pensava per
tutti, veniva massacrata come quella di Giorgio IV e di Guglielmo IV, tutte le
volte che incalzata dalla miseria andava sulla piattaforma colla gola
rigurgitante di grida per un altro morsello di pane. Per convincervene vi
basterebbe leggere il Weekly Register di Cobbett — il leone
intellettuale che ruggiva pei derubati di quel tempo. Giorgio III morì nel
gennaio del 1820. Ma aveva cessato di regnare da dieci anni. Durante la
reggenza i vogliamo dei lavoratori venivano sbaragliati continuamente con delle
mitragliate di no! Così durante i dieci anni incespicate nei massacri, come a
Ely — al nord della contea di Cambridge — e come a Ely trovate sui banchi della
giustizia i malsalariati a centinaia, e come a Ely trovate delle sentenze in
blocco di trentaquattro condannati a morte.
Ma è inutile restringere il
periodo della provocazione a un dato re. Esso è eterno. L'importante per noi è
di avere un'idea generale dell'ambiente in cui vivevano le masse prima che la
«Charta del Popolo» divenisse il pendaglio delle aspirazioni delle unioni
politiche e operaie di quel tempo.
Chi ha letto Macaulay o chi
conosce il XVII secolo non ha bisogno, per mettersi nella testa la condizione
dei lavoratori e dei poveri del XIX, di sciupare il tempo. I capitoli di
Macaulay e di Green si ripetono nelle storie d'Inghilterra di Harriet
Martineau, di W. N. Molesworth, di Spencer Walpole e di Justin M'Carthy — il
supposto leader degli antiparnellisti irlandesi alla Camera dei Comuni. La
differenza tra le pagine dei primi e le pagine degli ultimi non è che nella
data.
I salariati, i senza salarii, i
pitocchi senza speranza di uscire dal naufragio sociale, formicolavano nelle courts
— angiporti — e immelmavano nelle cellars — luride stanze sotto il suolo
— degli abituri, come i loro antenati dei secoli XVI e XVII.
Le courts erano cosparse
di detriti umani. Nelle cellars, dell'individuo non rimaneva che la bestia.
Vivevano pigiati, ammonticchiati, in un'atmosfera pestifera. Coloro che avevano
un letto o una parvenza di letto o uno sdraio qualunque non sentivano
più il sesso. La famiglia intera vi si coricava sopra e vi dormiva abbracciata,
pelle a pelle, incosciente che i bigotti ben pasciuti considerino questi gruppi
orrori sociali.
La loro degradazione e la loro
poverezza erano tali che il Walpole scrisse che un salario più alto avrebbe
resa la loro esistenza spaventevole e un salario più basso intollerabile. Nessuno
di loro aveva mai sentito dire che l'ultima fucilata a Waterloo aveva innalzato
il regno unito a prima potenza del mondo. Essi erano una generazione di
allampanati, di carcasse, come e peggio di prima.
Nell'esercito imperava ancora il
flogging (castigo corporale). La pitoccaglia in montura, che aveva
immortalato Wellington, veniva curvata sull'asino di legno e cinghiata e
frustata a schiena nuda fino a quando il dorsale non era più che una poltiglia
insanguinata. La gioventù povera veniva agguantata dalla pressgang
(pattuglia di arruolatori) e irreggimentata nell'esercito e nella marina. Ma
più nella marina che nell'esercito. Il Lovett redattore della Charta, ricorda
nella sua autobiografia lo spavento che produceva tutte le volte che sbarcava
colle sciabole d'abbordo sguainate. Il grido che dessa arrivava faceva prendere
alla gioventù la campagna o i monti.
I tribunali e le assisie
consideravano le moltitudini non al disopra del bestiame. Il cosidetto fellone,
fino al 1836, alla vigilia della Charta, non aveva neppure diritto alla
difesa, vale a dire a farsi rappresentare dall'avvocato, e al condannato a
morte non si accordavano che poche ore dalla sentenza. Lo si impiccava e
squartava all'indomani in pubblico.
Non parliamo della legislazione
operaia. Non esisteva che la tirannia padronale. A Glasgow — nella Scozia — non
appena la gente dei lavorerii si federarono per uno sciopero, i padroni li
chiusero fuori dalle fabbriche. Nel 1834, per esempio, sette conciatori di
Bermondsey, a poche miglia dalla metropoli, vennero condannati al carcere per
essersi licenziati prima di avere finito di conciare un numero di pelli.
Malgrado si fosse in piena propaganda socialista, l'infanzia non aveva che
qualche asilo. Per loro l'alba della legislazione non apparve che nel 1838,
quando il Parlamento votò la legge che limitava il lavoro dei fanciulli sotto i
13 anni a otto ore e dichiarava illegale l'occupazione della ragazzaglia sotto
i 9. I giovani sotto i 18 potevano lavorare 69 ore la settimana.
Le leggi contro il diritto di
associazione (combination laws) erano scomparse da poco. Ma nella mente
dei legislatori d'allora la protezione del lavoro col mezzo delle Unioni era
della cospirazione e della tirannia democratica. (Vedi lord Melbourne's
Papers). Nel 1831, durante l'agitazione pel bill della riforma (Reform
bill of 1832), più di mille operai entrarono nelle prigioni a
scontare il delitto di voler migliorare la propria classe. I sei martiri — come
sono chiamati — di Dorchester, stati condannati a sette anni di deportazione
pel grave crimine di avere registrati i nuovi soci dell'Unione con giuramento
di essere fedeli allo statuto — una cosa comune a tutte o quasi tutte le
associazioni del tempo — sono ancora nella memoria di coloro che hanno la barba
grigia.
Lo stesso Roberto Owen — il
padre del socialismo a base di «morale sana», il grande «rigeneratore» — lo
sperimentalista che aveva già diffuso pel regno che «il lavoro è la sorgente di
tutte le ricchezze» — colui che, come disse il suo illustre biografo (Lloyd Yones),
lavorò pel popolo, morì lavorando pel popolo e non ebbe altro pensiero,
morendo, che il suo benessere — il 15 aprile 1834, a capo scoperto,
protetto da tredici vessilli del lavoro, a fianco del reverendo Wade, negli
indumenti canonicali, seguito da un esercito di 120.000 operai commossi, si
avviò da Copenaghen-fields colla deputazione che portava al segretario di Stato
per gli interni la petizione che pregava sua maestà Guglielmo IV — il re, come
si diceva allora, affabile con tutti, il re che passeggiava per le arterie
londinesi come qualunque altro cittadino, il re che stringeva la mano agli
amici di una volta e spesso, incontrandoli, li faceva salire nella sua carrozza
— a ridurre la sentenza che adesso potremmo chiamare siciliana o a graziare le
vittime delle assise di Dorchester.
Fu un'ora solenne. Tutto il
mondo operaio era colla mano sul cuore. Tutte le speranze erano al Ministero in
Parliament street. E quando si seppe che lord Melbourne — colui che pochi anni dopo
si pavoneggiava presentando Roberto Owen, col volume del Nuovo mondo morale
in mano, alla regina Vittoria — non volle ricevere nè l'uomo che aveva spiegato
dalla tribuna dei rappresentanti di Washington la teoria della rigenerazione
sociale, nè la deputazione, il dolore e l'ira traboccarono insieme. Col front
indietro salì per l'aria l'ululu! lungo che sentiva dell'ambascia e
dell'indignazione della massa battuta.
La stampa era veduta di mal
occhio. I giornalisti erano come dei libellisti. Nel 1808, per dirvene una, i
capoccia degli avvocati di Lincoln Inn votarono un articolo che escludeva dal
foro «tutte le persone che avevano scritto nei giornali quotidiani». Vent'anni
dopo ammutinarono perchè il lord cancelliere aveva invitato al banchetto il
proprietario del Times. Southey, l'ex salariato del Morning Post,
proponeva a lord Liverpool di «curvare la stampa deportando i giornalisti».
Immaginatevi poi che cosa dovevano essere i giornali e i giornalisti della
gente che voleva conquistare i diritti politici e migliorare la propria
condizione!
Sui giornali pesava ancora il
bollo di 4 pence (40 centesimi). Gli operai si può dire che riuscivano a sapere
certe notizie come ai tempi di Samuele Johnson — il pioniere dei reporters
parlamentari. Cioè quando giungeva un amico o una lettera. Tratto tratto usciva
qualche mostriciattolo di giornale che il fisco ammazzava. Qualche volta
riusciva a tirare innanzi per delle settimane. Ma la «battaglia» tra «i tiranni
di Somerset House» (gli uffici londinesi del fisco, ecc.) e coloro che
anelavano al giornale libero dai ceppi fiscali, accumulava dell'altro
combustibile nel cervello dei riformatori. Dal bill della riforma, alla
riduzione del bollo sul giornale a un penny, nel 1836, più di 500 tra
riformatori e chartisti incipienti subirono la gattabuia per la pubblicazione
dei periodici «illegali». Per le «classi inferiori» — come si chiamavano allora
persino dagli oratori radicali —non trovate che valga la pena di essere
ricordato che la Voce
del popolo del 1831, la quale, malgrado costasse 7 pence col bollo, aveva
una tiratura di 30.000 copie. Lo scopo della Voice of the People era di
«unire le classi produttrici» in ciò che adesso si chiama una amalgation
(trades union o federazione di mestieri). La prima «rivolta legale» contro
il bollo sul giornale, fu il verdetto del 1836 in favore del Poor
man's guardian (Il guardiano del povero). I giurati, pur essendo senza
bollo, la dichiararono «una pubblicazione perfettamente legale».
Le invenzioni degli Hargreave,
degli Arkwright, dei Crampton, dei Cartwright, dei Watt e dei Davy, per la
popolazione che si buscava la vita lavorando, erano dei cicloni. Il grido
contro la macchina era in tutti i centri manifatturieri come durante
l'insurrezione dei luddites. Nei filatoi del Lancashire imperversava. Il
vapore era la maledizione di chi si guadagnava il pane col sudore della fronte.
Dovunque ingrossava il problema dei disoccupati. A completare la strage venne
la nuova legge — una legge, pel tempo in cui si condanna la vecchiaia alla bastiglia,
ottima, notate! ma che dava, pel momento, i risultati della macchina — sui
poveri. Nelle città e specialmente nelle campagne, suscitava tumulti che
finivano spesso nel sangue. La ragione dell'odio popolare contro la New poor law era
che col vecchio sistema il magistrato completava il salario del bracciante col
denaro della carità pubblica, mentre col nuovo il soccorso al salario,
del tempo elisabettiano, scompariva e riformava le workouses in tante
unioni amministrate dai guardiani.
Durante questo panico
commerciale e questa miseria industriale, gli oratori delle riforme non
dimenticarono le campagne. Anzi si può dire che le invasero, come fanno ora gli
oratori dal «carro rosso» della Lega dei nazionalizzatori della terra.
Predicavano alle turbe della zappa il «vangelo del loro benessere e dei loro
diritti». Tra i Demosteni più celebri di questa «campagna» contro gli
«affamatori,» vi ricordo Hunt, William Cobbett e Richard Carlile — stati
quest'ultimi due processati per «sedizione» alle Assise di Londra (Old Bailey).
Cobbett, accusato di avere
eccitato colla parola e cogli scritti (nel Weckly Political Register)
alla guerra rurale, venne applaudito all'entrata in Corte e assolto dai
giurati.
Carlile era accusato di «libelli
sediziosi» tendenti «a screditare la corona ed altri».
Il documento d'accusa era un
manifesto «agli agricoltori insorti» che, per riassumerlo in una frase, diceva
loro: «o combattere o morire di fame». I giurati uscirono con un verdetto che
lo assolse, cioè che lo dichiarava colpevole di pubblicazione «ma non di
libello sedizioso.» Così se ne andò a casa con una multa di 200 sterline.
I lavoratori della campagna non
si sono mai distinti nel movimento organizzatore. Perchè anche oggi dei 750.000
non ne contate, nella loro unione, più di 40.000. Ma in allora erano per lo
meno federati dall'idea di non volere morire d'inedia. Il cielo di ventisei
contee veniva illuminato, una notte dopo l'altra, dal raccolto che incendiavano
come protesta.
La libertà di riunione,
quantunque esistesse, era spesso violata dalla «negligenza» o dallo «zelo
eccessivo». Il periodo di provocazione ha gerlate di abusi di poteri. L'esempio
tipico è del 13 maggio 1833.
Una delle tante Società
politiche organizzò un meeting all'aria aperta, in Calthorpe-street,
Coldbathfields (Londra), preparatorio alla «Convenzione nazionale».
Il governo di lord Grey lo
credette una riunione di «persone perniciose» e lo fece proibire. Proibire un meeting
in Inghilterra vuol dire essere assetati di sangue o provocare un conflitto tra
gli assembrati e i policemen. Il tentativo di sette anni fa contro queste
prerogative, dirò così, inglesi, produsse la «domenica sanguinosa» (Trafalgar
square). Salto Peterloo del 1819, perchè mi manca lo spazio per descriverne il
massacro.
Le bandiere del meeting
erano tredici. Una era sormontata dal berretto frigio. I loro motti (tutte cose
comuni, che si vedono ogni giorno nel regno unito) erano questi: «Libertà o
morte»; «Diritti uguali e giustizia uguale»; «Santa alleanza delle classi
lavoratrici».
A un certo punto, quando cinque
o sei mila persone erano l'una addosso all'altra, quando l'oratore, con un
linguaggio che resterà immortale per la moderazione, stava per scaldarsi, i
policemen, col poderoso randello (truncheon) nella destra, cogli occhi,
disse il cronista, illuminati dall'alcool, circondarono il meeting
calcando e facendosi largo a colpi secchi sulla testa e sulle spalle.
Delle voci coraggiose impedirono
il fuggi fuggi con un fermi! e un avanti! all'oratore.
Pei poliziotti fu come l'ordine
di raddoppiare di lena. Si gridava: assassini! si piangeva — c'erano tramezzo
donne e ragazzi — e si gettavano nell'aria sostantivi che schiattavano come
ingiurie.
La lotta corpo a corpo fu coi
vessilliferi. Il sergente Harrison ricevette un colpo di bastone al braccio, il
sergente Brook si trovò ferito e il policeman Cully cadde morto.
La zona del meeting era
seminata di individui colla testa rotta e cosparsa di laghi di sangue.
Alle 4 pom. il quartiere era
ridiventato tranquillo.
I giurati della inchiesta mortuaria
dinanzi il Coroner fecero giustizia.
L'inchiesta durò parecchi
giorni. I giurati, dopo tre ore di consultazione, uscirono con un verdetto di omicidio
giustificato; perchè il magistrato — disse il capo dei giurati — non lesse
l'act che ingiunge di disperdersi, perchè il governo non prese le
precauzioni necessarie per impedire la riunione e perchè la polizia,
senz'essere provocata, fu feroce e brutale. Il verdetto aggiungeva la speranza
che il governo avrebbe impedito che tali fatti disonorevoli si ripetessero in
questa metropoli.
Il coroner rimase
sbalordito. «Il vostro verdetto — disse — calunnia la polizia e il governo. La
deposizione non giustifica l'assassinio di quest'uomo (del policeman Cully).
Erano innocenti coloro che erano armati di stiletto?»
Capo dei giurati. —
Abbiamo detto le ragioni che giustificano l'omicidio. Noi non accusiamo nè
polizia, nè governo. Noi solo confidiamo che il nostro verdetto impedirà che le
teste dei sudditi pacifici di sua maestà vengano rotte dalla negligenza e dalla
ferocia.
Coroner. — Volete
chiamare coloro sudditi pacifici?
Capo dei giurati. — È
stato provato che lo erano. Noi non vogliamo discutere altro. O licenziateci o
registrate il nostro verdetto. Noi non lo altereremo di una sillaba. In nome
del giuramento che abbiamo fatto a Dio, alla patria ed al re, non possiamo dare
altro verdetto.
Coroner. — Gentlemen! Io
considero il verdetto un disonore per voi. Vi ringrazio per la vostra grande
attenzione.
Il capo dei giurati,
inchinandosi, disse: «noi pure vi ringraziamo.»
Finita questa cerimonia, il
pubblico gridò: «Bravi giurati! Voi avete fatto il vostro dovere. La nazione ve
ne sarà grata.»
Di fuori la moltitudine
ricominciò: bravo jurors! — bravi giurati!
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